L'opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta (1999)

La consapevolezza acuta del fare poesia (di Giuliano Ladolfi)

In questo modo egli supera d’un colpo ogni possibile residuo di lirismo novecentesco

Andrea Temporelli nella raccolta Il cielo di Marte attua coscientemente la sliricizzazione del verso attraverso una serie di procedimenti stilistici che non attenuano la forza del dettato, anzi lo corroborano in funzione polisemica. Anzi tutto evita la prima persona singolare ed usa la terza non come sdoppiamento del soggetto poetante, ma come affermazione che l’atto poetico non si risolve i una conoscenza eidetica (Husserl), ma nella ricognizione del reale, di tutto il reale, sia interno sia esterno: «Tradusse i verbi, rovesciò i pronomi / non si arrese alla morte. / Quante avrebbe volte ancora dovuto / bagnarsi in quelle acque / per troncare / il fiato, correre / senza sentire male, / come respira senza nostalgia / chi ha già spezzato la spina dorsale / delle montagne». Altre volte apre “fessure” sul reale appoggiandosi ad un apparente descrittivismo. Non manca una vera e propria Diffida al lirismo: «Affogato in sé, / raccolto intorno / alla grigia sostanza della vita, / sia voltato coram populo, / perché si veda che è / marcato. Marcio. Battezzato / con cenere di rose». Lo stesso titolo Il cielo di Marte richiama reminiscenze paradisiache, il conflitto nella ex Iugoslavia, il servizio civile del poeta, l’inizio della primavera con la sua variabilità atmosferica (Marte anticamente era un dio della campagna, del risveglio della natura e, quindi, della primavera della vita, perché amante di Venere). «Pristina rosa, rosa dolorosa, / stelo ubriaco e vulva spappolata, / dei figli che tu spandi / ne farò marmellata»: Temporelli per mezzo dell’andamento della ballata recupera tutta una serie di elementi poetici: vicende personali legate all’infanzia, gli orrori della guerra in Kossovo (la cui capitale è Pristina), gli stupri delle donne e gli stermini dei giovani. […]

La poesia di Andrea Temporelli (Borgomanero, 1973) è nata e coltivata nel respiro di «Atelier», di cui è redattore. Sulla rivista sono apparsi due suoi lavori: Cominciamento (n. 6) e Diceria del poeta (n. 10). Sempre per le edizioni Atelier ha pubblicato la plaquette Suite per l’inverno incipiente (supplemento al n. 7, settembre 1997) e recentemente il lavoro più impegnativo Il cielo di Marte (luglio 1999).

Temporelli già nella prima occasione ha dimostrato una consapevolezza acuta del fare poesia nella metafora del medico che «in silenzio, attende che si arresti / l’emorragia, non reprime i lamenti. / È paziente. Contiene la sua scienza / fino al punto di quiete, / poi tesse l’opera con molta cura». La seconda raccolta può essere interpretata come un congedo dall’adolescenza, da una vicenda sentimentale, dagli amici e da uno stile dolcemente sentimentale, che si insinua nella forza delle parole: «Qui è un tempo che non perdona. / Si dice / che avremo un lungo inverno, / non si potrà uscire. // Temo che non resisterai. Parole. / vorrei deporti calde nelle mani, / ma è fugace l’accordo / tra il tuo vivere di vita e il mio vivere / di te. Non ho equilibrio, / affonderò / in un amplesso di rabbia e di noia. // Ma non ho altro. Mi siedo, / ti guardo, mi preparo».

Fin da questi primi lavori il giovane dimostra il sicuro possesso degli strumenti metrici e stilistici e una voce ben definita che si radica in precise tematiche: il legame tra vita e letteratura, la celebrazione di un’epopea familiare che, rispetto al modello di Bertolucci o ad un populismo ingenuo, «traduce in miti le singole figure», emblemi ricavati dalla sua concretezza esperienziale, una parola dalle «movenze fortemente realistiche legate a fatti e ad elementi concreti» («Atelier» n. 10) e contemporaneamente allusiva e fonosimbolica.

Tali elementi hanno raggiunto la fase di maturazione nella silloge Il cielo di Marte, animata da un desiderio di esprimere le tendenze della generazione “decisiva”. Il problema della poesia costituisce l’elemento portante dell’intera raccolta, sintetizzata dalla lirica introduttiva, in cui Temporelli con orrore assume consapevolezza della forza della parola («Ti giuro c’è chi scrive / per uccidere») fino alla riconquista della realtà totale in una dimensione morale di grande spessore umano: «Avere molto scritto / conta poco. Serve ascoltare sempre / e lesti a negoziare il verso buono / per un giorno di sole. Ma più ancora / serve essere pronti a scrivere / sotto tutti i governi / quando la voce viene come un tuono».

Proprio gli ultimi versi ci introducono in una delle novità di quest’ultimo lavoro: la dimensione “politica” (nel senso di indirizzata a quella seconda repubblica dell’umanità di cui parlava Seneca). Il poeta non solo supera ogni traccia di lirismo, come si può dedurre dall’abbandono della prima persona a favore della terza, ma anche “si sporca le mani” lottando per i propri ideali e combattendo contro la fatuità e l’inconsistenza della “repubblica dei poeti”.

Nella prima sezione, intitolata Atelier, egli affronta la tematica dell’amicizia verso coloro con cui ha lavorato per un diverso concetto di letteratura, e questo sentimento viene avvertito come legame più forte della letteratura. Sentimenti di amicizia si mescolano alla delusione sofferta nei confronti della generazione dei “padri” al punto che l’intera opera si presenta come confessione e appello ai coetanei. La sezione Non lo amo il mio tempo, non lo amo traccia il cammino della crescita dello scrittore: la passione per la poesia, la disillusione per successi inconsistenti, la ricerca di identità nelle vicende familiari, il primo amore, il servizio civile vissuto a contatto con i ragazzi di un collegio e l’esperienza “sereniana” della guerra del Kossovo combattuta solo in sogno: tutti momenti scanditi da una parola “chiara e forte” in un realismo che, pur prestandosi ad una polisemia, conserva tutti i tratti del fatto. Temporelli non vuole né potrebbe ripercorrere la strada dantesca alla ricerca dei quattro sensi delle scritture in un’epoca in cui la natura non si interpreta più per speculum et in aenigmate, egli ritiene che il codice poetico, nel momento in cui accoglie la realtà, la trasformi in una serie di relazioni mobili che si prestano ad una pluralità di significati, fissati in una serie di emblemi: la scrittura poetica, la rosa, l’angelo, per esempio. Non sarebbe, però, corretto parlare di simbolismo, perché i sensi della poesia di Temporelli stanno tutti lì, nella parola, senza ulteriori rimandi, sensi rintracciabili mediante l’attenzione alla pluralità e alla mobilità dei significati e dei contesti contemporaneamente usati: la rosa è «pristina», antica come la madre, come la vita (stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, con le implicazioni nominalistiche presupposte da Umberto Eco; ma Pristina è anche la capitale del Kossovo), la candida rosa.

In questo modo egli supera d’un colpo ogni possibile residuo di lirismo novecentesco, ogni zanzottiana ontologia del linguaggio così come ogni tentazione di suggestioni neo-orfiche o mito-moderniste e si inserisce in quel processo di riscoperta del reale caratteristico della filosofia americana di fine secolo e questo fatto permette a Temporelli anche di allargare gli orizzonti ad una poesia “politica”. Dalla retorica della tradizione, i cui fasti nel nostro secolo sono stati rinverditi da Quasimodo, lo separa un abisso: pietà, orrore, umano senso di ribellione contro le atrocità trovano nel sogno la “distanza” giusta per mantenere un miracoloso equilibrio tra sentimentalismi ed esecrazioni: «Lasciate le vostre ragazze mute / e venite a zittirmi / qui, sul fronte di un pensiero ridicolo / come una lettera d’amore / di cui non chiederò perdono» (Agli amici, dal fronte, in sogno).

Nella terza parte, La repubblica dei poeti, viene sviluppato il rapporto con la generazione dei supposti “padri”: la parola viene piegata ad una sottile ironia, venata di delusione che si trasforma in strumento di indagine e di celato risentimento morale. Sul palcoscenico si alternano donne di talento, poeti showmen, critici dai poteri occulti impiegati a sistemare cataloghi, esibizionisti di versi inconsistenti in serate di letture. Il poeta con decisione rifiuta questa civiltà dell’apparenza, fondata sul vuoto: «Me ne andai / con la mia donna mano nella mano / e ululai di solitudine, feci / più piccola Milano»: non credo si possa scrivere un giudizio più devastante e definitivo.

L’ultima sezione It’s wonderful, it’s wonderful racchiude una nuova esperienza d’amore: «La sorgente travolge, ma non sosta / nel legno già di cenere. / È sublime sconfitta / per chi l’offerta può in forma di offesa / l’amore». La progettualità del sentimento, lontano da ogni tradizione petrarchista e novecentesca, solleva la parola nel regno del futuro in «un’ignota leggerezza». L’amore «è sconfinata appartenenza», temporaneo ed eterno concreto possesso.

(Giuliano Ladolfi, Presentazione e Andrea Temporelli, L’opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, Borgomanero, Ed. Atelier, 1999, pp. 28 e 158-60)

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