L’arte è sottrarsi
Questa è la mia recensione a Il grande animale di Gabriele Di Fronzo.
Il tema di fondo del Grande animale è la pietà. Questa è l’ombra che si muove sotto la lastra di ghiaccio della scrittura di Gabriele Di Fronzo: tema mai enunciato, per questo ipnoticamente presente sotto ogni riga.
Per ottenere questo effetto così potentemente tragico (che è un carattere più nordico, non congenito alla tradizione italiana) l’autore si affida a un personaggio destinato a rimanere memorabile. Francesco Colloneve è un tassidermista che si rapporta a tutta la realtà a partire da questa sua dimensione: «Ho fatto esperienza che qualunque cosa non si voglia perdere va innanzitutto vuotata, bisogna fare spazio, sgomberare, portare via quello che c’era in precedenza, occorre sempre togliere: solo così, ciò che altrimenti subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre». Per tanto, egli diviene un perfetto correlativo oggettivo dell’artista, che si affida alla tecnica paradossale dello svuotamento, per rendere la pienezza dell’opera («Vorrei eseguire le mie incombenze così bene», recita la citazione di Lucia Drudi Demby posta sulla soglia del libro, «che non ci si accorga che le ho eseguite»).
Francesco Colloneve è un uomo solo, le uniche relazioni che instaura con gli altri nascono dalle richieste che lo riconducono al suo destino: «le ragioni per cui imbalsamo animali sono le ragioni che le persone che a me si rivolgono hanno per domandarmi di farlo, sono dieci anni che lavoro tenendo dietro ai motivi dei miei clienti, ma è altrettanto certo che a parer mio faccia più compagnia un cane morto e poi impagliato di un criceto che pure sia tuttora vivo e vegeto». È dunque attraverso il filtro della morte che si contempla la vita e, incapsulato in questa condizione, come un automa, come un essere anaffettivo, Colloneve diviene strumento cavo perché più pura suoni la musica silenziosa dei sentimenti. Tutto viene filtrato dalla sua coscienza e dal suo tono sorvegliato, con un linguaggio dal nitore estremo, come frutto di un classicismo cinico, che non si concede se non minime increspature che ricalcano l’oralità (un paio di esempi: una costruzione con il doppio accusativo: «La plastilina, la prendo da sempre nello stesso negozio»; il pronome personale complemento in funzione di soggetto: «è accettabile che te sulle prime sia grossolano […] ed è opportuno che in seguito te vada nel fino»). Si tratta di una lingua quasi glaciale, ricca di tecnicismi e di classificazioni, che congela al suo interno anche i dialoghi essenziali che vengono a volte registrati. Per questo ogni minimo episodio su cui si appoggia la vicenda viene imbalsamato in uno spazio svuotato emotivamente. I gesti rimangono congelati nella loro totemica, ipnotica ambiguità.
L’imperturbabilità del protagonista è quasi assoluta e il lettore è istintivamente portato a reagire (ecco l’effetto del correlativo oggettivo) sciogliendo il dilemma: i rituali che si compiono sono solo gesti maniacali, addirittura disumani nel loro cinismo, oppure Colloneve è una sorta di monaco, di sacerdote che, attraverso il proprio sacrificio («Se non sto attento, corro il rischio di diventare troppo sensibile agli aspetti organici della vita»), riesce a catturare l’assente, a esaudire la richiesta impossibile che si agita al fondo di ogni cura: salvare la vita, sconfiggere la morte?
La verifica del quesito si trova nel rapporto che Colloneve instaura con il padre negli ultimi giorni della sua vita. La relazione fra i due (se di relazione si può parlare, dal momento che tutto avviene, come spiegato, dentro uno sguardo tragico e imperturbabile) sembra venarsi di odio, eppure, le vessazioni ricordate e la freddezza con cui il figlio sembra assecondare le richieste paterne nel loro svolgersi raggiungono paradossalmente una purificazione. Il male non può essere negato. Tutto ciò che è organico e deperibile va rimosso: a livello di stile, ciò significa evitare qualsiasi indugio patetico, qualsiasi increspatura emotiva. La letteratura ottiene così un effetto inversamente proporzionale: la rimozione diventa strategia per trattenere ciò che è vivo e imprendibile, senza falsificarlo con una retorica maldestra (il protagonista direbbe: evitando nella bestia imbalsamata una postura che scimmiotta la vita).
La lastra di ghiaccio della prosa di Di Fronzo si presta anche, lo si è capito, a rispecchiare la poetica dello scrittore. Così, per esempio, nell’immagine di Colloneve che scompare nella nuvola del proprio fiato, all’interno del gelido corpo del grande animale che lo imprigiona in una delle scene finali del libro, sembra di poter cogliere l’allegoria dello scrittore imprigionato nella letteratura stessa.
Tragico è dunque il ruolo stesso dello scrittore, imbalsamatore di vita, costretto a tratti a non vivere per fissare l’esistenza in una forma perfetta. Allo stadio attuale, non c’è molta consolazione nel prendere atto che ogni realtà si mostra solo attraverso il filtro di una totale solitudine. Ma ci si può aggrappare al fondamento etico, che questa postura apparentemente mortuaria ci consegna. Si pensi alla piccola celebrità raggiunta da Colloneve: anch’essa è dovuta non a un’opera particolarmente ben fatta, ma a una rinuncia. Un celebre artista si era rivolto a lui chiedendo l’imbalsamazione di un cavallo, cui però si sarebbe dovuto recidere il capo: per questo egli si rifiuta (ottenendo anche l’apprezzamento del padre, in uno dei pochi momenti tra i due di empatia non vissuta, raccolta a posteriori, giacché tra padre e figlio vige l’arcaica legge maschile per cui gli affetti non si mostrano, si fissano nell’esempio).
L’arte è sottrarsi, farsi fuori, scomparire nel mondo, rendersi vuoti perché la presenza si manifesti. Che cosa accadrà quando questa voce si volgerà ad altri rapporti, alla sfera femminile e creativa, all’amore?
Anch’io mi sono chiesta la stessa cosa leggendo la tua recensione, anche se non ho ancora letto il libro e mi propongo di farlo. La tesi è affascinante e in buona parte condivisibile. Conosco persone che si sottraggono alla relazione personale quando devono esprimere qualcosa di sé e magari realizzano opere d’arte davvero notevoli. Come se fosse dato loro un aut aut inflessibile e tragico nella sua ineluttabilità. Alla fine si ritrovano prigioniere di sé e credo che anche alla loro creazione artistica verrà meno, un giorno, il nutrimento. Arte e vita, arte e morte: potremmo parlarne per sempre…
Cara Monica, è vero, si potrebbe parlarne all’infinito… L’arte rimette sempre in discussione la vita e il rapporto con la vita, del resto. Per me il punto di equilibrio è la distinzione fra l’uomo e l’artista. Come uomo cerco i miei equilibri, miro alla serenità e alla pace, e mi dedico alle battaglie che servono per costruirla e preservarla. Come scrittore, non posso che assecondare i vortici che si aprono quando una parola, un’immagine o altro cominciano a lavorarmi. Poi, ovviamente, questo mi trasforma anche come uomo, ma nell’arte, nella scrittura, c’è una intensificazione che sarebbe insostenibile se nella vita non si diluisse almeno un po’…