Impulso di una stella morta (raggi gamma)

Frantumi di stelle (Intervista a Borgna)

Se in questi anni sto virando sempre più decisamente le mie letture verso la narrativa (ma ho davvero tanto terreno da recuperare), la mia formazione si è basata soprattutto sulla poesia, sulla critica letteraria e sulla saggistica (la più varia). Certo, ormai viviamo in un’epoca in cui la complessità del sapere ha raggiunto livelli tali per cui è impensabile raggiungere una formazione veramente integrale, umanistica se volete (laddove il termine “umanistico” abbraccia feconda e stimola il versante “scientifico” del sapere) e tuttavia credo sia bello e necessario avventurarsi anche fuori dai propri ambiti di competenze, caricandosi in spalla il proprio fagotto di ignoranza, che ci accompagnerà sempre, anzi crescerà insieme alla nostra acquisizione di sapere. Credo anzi che sia intrinsecamente poetico mettere in crisi e dover ristrutturare il linguaggio e il sistema simbolico che ci dà forma, per inventare nuove approssimazioni a una risposta e generare, quindi, una nuova domanda. Mi piace, in quest’ottica, recuperare una mia vecchia intervista a Eugenio Borgna, che all’epoca mi venne commissionata per una rivista ma che rimase inedita, prima di trovare ospitalità presso «Il Segnale» (a. XVII, n. 50, giugno 1998).

FRANTUMI DI STELLE. Il senso dell’esperienza psicotica

Intervista a Eugenio Borgna

I libri di Eugenio Borgna non sono gelidi trattati di psichiatria, ma pagine vibranti di vita, che raccontano l’esperienza emotiva di un uomo che si accosta al dramma di un altro individuo. I confini della malattia si fanno incerti e gli abissi della psicosi rivelano, dalle loro profondità, un grano rilucente di speranza, una radice viva di senso che chiede di essere salvata dal buio dell’indifferenza in cui spesso vengono relegate queste esistenze, rimosse dalla coscienza comune.

In un passo del suo ultimo libro, Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, scrive: «non è possibile sottrarsi e sfuggire all’esigenza di andare-incontro a ogni paziente sulla linea oscillante di una relazione dialogica e di una comunicazione psicoterapeutica che consentano di cogliere le parti sane in loro e le parti malate in noi. Siamo al di là di ogni riduzionismo psicologico e biologico: dicendo questo, siamo nella vertigine e nella danza leggera della grazia (si può dire anche questo) che ci fa intravedere realtà (figure) umane nascoste e invisibili».

Iniziamo la nostra conversazione partendo da questo punto, chiedendogli quali siano le parti malate in noi e che cosa rappresenti questa “grazia” di cui parla.

I LABILI CONFINI DELLA MALATTIA

Non abbiamo farmaci che guariscono… In un’esperienza psicotica sono le parti sane che possono determinare la guarigione

Secondo alcune concezioni psichiatriche insostenibili, dentro una persona malata psichicamente tutto è malato. Tutto è sano da una parte e tutto è malato dall’altra. In realtà la questione è più complessa. Per spiegarmi, dirò che non abbiamo farmaci che guariscono: essi attenuano le tempeste emozionali spianando i sentieri perché le parti sane del “malato” riescano a circoscrivere e soffocare le parti malate. In un’esperienza psicotica sono le parti sane che possono determinare la guarigione. Viceversa, le parti sane in noi non esauriscono la nostra vita psichica, perché zolle di malattia esistono in ognuno. Anzi, la presenza di aree depressive, ansiose e talvolta dissociative possono dotare una persona di capacità di intuizione e di immedesimazione, mentre le persone apparentemente equilibrate sono spesso incapaci di entrare in contatto con gli altri.

L’incontro, poi, è sempre segnato anche da qualcosa di imprevedibile, avviene sempre all’interno dell’area del mistero o comunque dell’enigmatico. Con alcune persone si ha un contatto immediato, si riesce a cogliere in fondo al loro cuore; con altre, nonostante la disponibilità originaria sia la stessa, ciò non accade. Parlo dunque di “grazia” nel senso di qualcosa che entra in gioco senza che io riesca a programmarlo.

UN’EPOCA DI TRANSIZIONE

Il mondo giovanile oggi è senz’altro sensibile a questa svolta filosofica e psicologica verso la concretezza estrema… L’esperienza psicopatologica resta tuttavia un problema trans-epocale

Come giudica, dal suo “avamposto” nella società, i nostri tempi? Stiamo vivendo davvero un’epoca di transizione?

Già negli anni Venti il filosofo tedesco Max Scheler aveva scritto un libro intitolato La crisi dei valori, insistendo sul fatto che, nel contesto di quegli anni successivi alla Prima Grande Guerra, alcuni valori precipitavano e si annullavano, mentre altri si salvavano e trasformavano, allargando lo spettro, cioè facendo da catalizzatori. Se adottassimo quest’ottica, che cosa potremmo dire della situazione attuale? Quali valori sono stati travolti e quali altri riescono ancora a riemergere e possono essere la premessa per una metamorfosi, una rinascita complessiva?

I valori legati alla politica sono oggi sottoposti probabilmente a un collasso profondo. Alcune risorse autentiche, quelle giovanili, mi sembrano sottrarsi a quell’impegno politico che pure negli anni scorsi era forte.

Altri valori entrati in crisi forse sono quelli strettamente culturali ed enciclopedici. Oggi una fede nella cultura come tradizione, una fede anche nelle grandi filosofie sta crollando. Del resto i filosofi oggi, fatta eccezione per Severino che continua in qualche modo su sentieri antichi, hanno abbandonato il filosofare per il filosofare, si occupano invece di come le grandi categorie filosofiche possano servire per capire fenomeni, realtà umane, anche psicologiche, psicopatologiche ed esistenziali. La fede nei valori di una filosofia astratta sta cadendo, e credo sia un bene, perché conduce alla riemergenza di valori più legati a un contatto immediato col reale, con sconfinamenti anche verso il senso del mistero e dell’enigma.

Il mondo giovanile oggi è senz’altro sensibile a questa svolta filosofica e psicologica verso la concretezza estrema.

Tuttavia, questo riflettere sull’essenza della vita porta anche a riscoprire il vuoto esistenziale che c’è in aree estese della condizione umana; in questo modo il rifiuto non si limita ad alcune aree del reale (vita politica e sociale), ma diventa rifiuto globale di ogni confronto e si esprime con la fuga verso il nonsenso, verso quella contro-realtà fatta di fantasmi e di ebbrezze.

L’esperienza psicopatologica resta tuttavia un problema trans-epocale. Cambiano le forme con cui si precipita in una condizione depressiva o schizofrenica, cambiano soprattutto i modi con cui ognuno vive la propria esperienza di scacco, ma la qualità, la frequenza anche, l’incidenza dei modi di essere della psicosi non sono sostanzialmente cambiati. Cresce invece quell’area estranea all’esperienza psicotica vera e propria, costituita dalle esperienze che potremmo definire neurotiche, nelle quali molto spesso confluiscono le esperienze della tossicodipendenza e del suicidio. Quest’area senza dubbio oggi si è fatta più intensa e in qualche modo più incandescente; colpisce giovani, adulti e anziani senza grandi steccati.

Sta tornando di moda una cultura dello sballo e la ricerca di esperienze psichedeliche di stati alterati…

… nel confronto fremente e vibrante con un’anima che soffre le gerarchie si frantumano. «Frantumi di stelle… Da questi frantumi costruirò un mondo»

Nel momento in cui si viva l’attuale squilibrio di valori, vengono meno piste sicure. Nasce una condizione di disorientamento e fuga nell’inautenticità. Queste esperienze in qualche modo tossicomaniche sono talvolta la conseguenza del fatto che in molte aree non c’è lavoro. Il lavoro, lo sapeva anche Freud, ha un significato pure terapeutico

All’interno dell’arcipelago della tossicodipendenza ci sono frange in cui il fenomeno ha una connotazione strettamente individuale: rifiuto il mondo, precipito nella mia interiorità e la riempio di queste sostanze che dilatano i rapporti, i confini, la percezione del reale. Oppure entro a far parte di quel gruppo, dove quell’esperienza è più generalizzata. Le esperienze psichedeliche sono certamente più affascinanti nel secondo caso. Si inizia a volte individualmente, se ne sperimenta l’insufficienza, si finisce per cercare nuovi contatti. Così, l’esperienza viene potenziata dal fatto che ci si accorge della condizione umana ultima, cioè che ciascuno di noi non è fatto per essere una monade chiusa, ma per vivere insieme agli altri. Anche le esperienze di gruppo distorte, sommerse da una sofferenza e un fallimento senza limite ripropongono questa esigenza di intersoggettività.

Per questo anche le terapie si realizzano in comunità. La rottura dell’isolamento non si deve certo alla presenza di tecnici che spiegano cose astratte che scendono giù come acqua lungo le rocce, ma a vere testimonianze umane di solidarietà. Il superamento di moduli ottocenteschi secondo i quali era il singolo individuo il portatore di ogni significato mi sembra oggi evidente. Per questo bisogna sottolineare l’esperienza del volontariato, che sento molto vicina, perché nella realtà cruda degli ospedali psichiatrici, o dovunque vi sia un’esistenza bisognosa di aiuto, la presenza del volontariato può essere ancora più significativa che non quella meramente tecnica; nel confronto fremente e vibrante con un’anima che soffre le gerarchie si frantumano. «Frantumi di stelle… Da questi frantumi costruirò un mondo» (Nietzsche)

LA FRATTURA DELLA MODERNITÀ

Il pensiero funziona solo nella misura in cui la vita emozionale gli consenta di svolgere le sue funzioni

Si può affermare che il pensiero cammina sempre sul ciglio degli abissi psicotici?

Cartesio ha scritto: cogito ergo sum; oggi probabilmente occorre dire: sento emozioni e dunque vivo. Il discorso dialettico, quindi, è sempre, per ognuno, fra il pensiero e la vita affettiva. A volte prevale la struttura noetica, il pensiero, a volte quella affettiva, ma la sorgente più intensa della nostra vita è solitamente quella emozionale. Il pensiero funziona solo nella misura in cui la vita emozionale gli consenta di svolgere le sue funzioni; quindi un’idolatria del pensare può portare negli abissi della distruzione solo quando ad essa non si contrappone una vita affettiva intensa e significativa. Figure tragiche, sostenute da una violenza assoluta ma anche da strategie terrificanti e geniali, in particolare quelle di Hitler o di Stalin, dimostrano come il pensiero, la volontà di potenza, al di fuori di qualunque contrappeso affettivo, precipita negli abissi che conosciamo. Ma in un’esperienza psicotica non c’è mai un disturbo primario del pensiero: esso passa attraverso la penombra della sofferenza psichica senza nemmeno essere sfiorato. Non è mai malato il pensiero, nemmeno nelle esperienze più sconvolgenti.

Gli abissi in cui precipita una vita emozionale che in qualche modo deragli, esca dai margini, sono infinitamente più umani, più vicini alla nostra memoria, al cuore, mentre  gli abissi cui si giunge travolti dalla ragione non hanno più a che fare con la condizione umana. C’è più significato in una condizione di tossicomania che non in quella deviazione brutale, desertica e selvaggia in cui precipitiamo se la ragione (il cogito ergo sum) diventa il solo stendardo.

Non è proprio la nostra modernità la frattura che si è aperta fra il pensiero e le “ragioni del cuore”?

Concordo, è una metafora profonda. Siamo sottoposti a stimolazioni ossessionanti di svuotamento della vita affettiva. Pensiamo all’invasione televisiva che toglie ai sentimenti il loro contenuto più intenso, più segreto; anche il pudore viene annientato. Si tratta di un’azione nefasta soprattutto nel periodo dell’adolescenza. Poi nei giovani il rifiuto della televisione mi pare più significativo che nell’età adulta.

ARTE E PSICOSI

Un’esperienza artistica comporta tumulti interiori che possono sollecitare un’esperienza psicotica

Rimbaud parlava programmaticamente di allucinazione. Che cosa hanno in comune lo stato psichico della creatività e alcune esperienze psicotiche?

Karl Jaspers sosteneva che un’esperienza psicotica può far lievitare una sensibilità artistica, già presente, rendendola unica, incomparabile. Gli esempi sono quelli di Hölderlin, Rimbaud, Woolf, Nerval… Per lui resta però necessaria la presenza di originarie attitudini artistiche. Per Barison e Dorfles, invece, la realtà psicotica è in sé qualcosa di artistico.

Certo, ogni alleanza si presta a sconfinamenti. Un’esperienza artistica comporta tumulti interiori che possono sollecitare un’esperienza psicotica. In Nietzsche vediamo proprio un caso reso ancora più tragico dall’esperienza creativa, dalla sua nostalgia disperata di orizzonti sconosciuti.

L’arte contemporanea è il luogo privilegiato in cui gli squilibri che attraversa la coscienza, quelli fra il pensiero e il cuore, trovano espressione?

Ci sono correnti artistiche in cui lo squilibrio tra la ragione e il sentimento diventa il solo orizzonte di significato. Si hanno così forme artistiche assolutamente “gelide”. Penso alla musica, dove il processo di disincarnazione è innegabile. Da Schönberg in poi troviamo una musica sempre più matematica, ruotante intorno al cogito, in un processo di cerebralizzazione. Nella lirica invece abbiamo un’esperienza interiore di linguaggio che consente decifrazioni ermeneutiche interpretative infinitamente ampie e dilatate. Il linguaggio allusivo e indicibile costituisce un segno di attualità e contemporaneità alla vita interiore, che prima non aveva la stessa importanza. Abbiamo, al limite, il silenzio come sorgente di ermeneutica, spazio di soggettività che si riconoscono in altre soggettività, coscienza che si riflette in altra coscienza.

 

1 commento
  1. Monica
    Monica dice:

    La lettura di questo articolo mi ha riportato subito alla memoria uno dei miei testi preferiti “Le libere donne di Magliano” di Mario Tobino. Ne riporto alcuni piccoli stralci e anche il commento di Marina Monego che condivido pienamente.
    “La mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, son ritornato. Ed il mio desiderio è di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare”.
    “Con i matti che comunicano le loro leggi io con facilità mi accomodo, si cammina sullo stesso binario e se un improvviso spettatore dovesse d’un subito giudicare chi dei due è il malato si troverebbe incerto; e tale mio esercizio, che dei giorni ripeto con frequenza, mi stanca e ritorno al mio andito con la nebbia di una vaga angoscia, quasi un convalescente, come se quei minuti che mi trasferivo nella mente del matto, abbandonando la mia, fosse come andare nell’inferno, vivere nei gironi, avere oltrepassato le fredde acque dell’Ade, e ritornassi alla vita con l’anima ancora ghiacciata dalla morte” .

    I ritratti di Tobino ricordano quelli dei pazzi di Gericault, ma desiderio più profondo dell’autore non è solo narrare, è coltivare la piccola parte ancora normale dell’animo delle malate e farla fiorire.
    Queste donne – povere, recluse, a volte dimenticate – Tobino le chiama libere. Libere perché la pazzia sgomina tutte le ipocrisie, i freni inibitori e le sue matte, scatenate durante l’estate in abbracci e amori tra loro, dove proprio le più deformi, le più idiote sono maggiormente ricercate, gli paiono creature sommamente libere, vittoriose, vere. Finalmente lì, in quei cortili, sono se stesse, ambasciatrici di quella dea strana e terribile.

    “Questi matti sono ombre con le radici al di fuori della realtà, ma hanno la nostra immagine (anche se non precisa), mia e tua, o lettore”.

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