Lo scrittore Giulio Mozzi

Generazioni a confronto (3/3)

Generazioni a confronto
Convegno nazionale di Firenze (18 febbraio 2005)
a cura di Gianluca Didino

Parte Terza e ultima

Marco Merlin: Un primo giro, anche abbastanza ampio ci ha portato a gettare a vasto raggio molte problematiche. Ora invito a stringere di nuovo il cerchio ritornando sul testo di discussione, con una nuova tornata di interventi, il primo dei quali sarà di Giulio Mozzi, il quale potrà riprendere il tema Generazioni a confronto secondo una lettura molto libera e personale. Cedo, pertanto, la parola a Giulio Mozzi (e sottolineo che abbiamo cercato volutamente di coinvolgere persone non strettamente legate in modo univoco al mondo della poesia). È nato nel 1960, è autore di libri di racconti soprattutto: Questo è il giardino (Milano, Mondadori 1993), La felicità terrena (Torino,Einaudi 1996), Il male naturale (Milano, Mondadori 1998); prossimo anche l’esordio come romanziere. Si occupa di scrittura creativa: Parole private dette in pubblico (Roma, Theoria 1997); il titolo eliotiano già ci stuzzica sulle connessioni tra narrativa e poesia. Si occupa delle edizioni Sironi, altra sigla editoriale di spicco e di culto, che ha svolto anche un ruolo molto importante nel lancio di giovani autori esordienti. Cediamo a lui la parola perché con il testo di discussione possa offrire anche lui qualche osservazione.

Giulio Mozzi: Buongiorno. Io mi sento un poco un pesce fuor d’acqua. Tra l’altro sono pieno di un istintivo senso d’inferiorità nei confronti dei poeti, anche perché ho avuto degli amici poeti da piccolo che erano oggettivamente molto superiori a me. Mi sono domandato, preparandomi per questo intervento, da quale punto di vista potevo provare ad affrontare la questione. Il punto di vista che assumo adesso è quello di una persona che ha avuto l’occasione di occuparsi di una collana editoriale che fa un lavoro di ricerca, che cerca di proporre qualcosa di nuovo, delle forme nuove o rinnovate, e che cerca di includere nella narrazione pezzi di mondo che prima ne stavano fuori o ai margini. Questo secondo una banale e molto discutibile idea di progresso, secondo la quale se qualche tipo di progresso c’è nella letteratura, ciò consiste nella capacità di dire pezzi di mondo, quanto del mondo generale quanto del mondo della lingua.

Un tema come Generazioni a confronto è una cosa che mi imbarazza molto, perché quando con Sironi ho avviato questa collezione di prosa, facendo anche alcuni esordi, istantaneamente il discorso che riuscì ad imporsi nei mezzi di comunicazione: era un altro editore che si candidava a comunicare i giovani narratori. Se faccio un po’ di conti sull’età degli autori che abbiamo pubblicato, e penso alla loro appartenenza ad una generazione o all’altra, guardando non solo l’età anagrafica ma anche l’età di produzione letteraria, mi rendo conto che abbiamo pubblicato persone che avevano dieci o quindici anni di attività alle spalle e persone che ne avevano invece uno o due. Mi trovo sempre in imbarazzo nei confronti di un tema come Generazioni a confronto, perché ho il sospetto che a parlare di generazioni in un momento in cui sembra che ogni quindici giorni ci sia una generazione nuova, tutto vada a confondersi. Ci sono delle riviste che io non leggo ma che sono tra le più lette in Italia (come «Lo Specchio») che fanno un continuo e insistente lavoro sulle generazioni, che ogni tre o quattro settimane propongono una generazione nuova.

Un fatto che mi ha particolarmente impressionato è stato quando nel corso del 2003, tra agosto e ottobre, c’è stato un notevole numero di articoli e copertine dedicato al debutto sul palco delle tredicenni. Ho la sensazione che anche nella letteratura ci sia una tendenza di questo tipo. Dal 1980-81, che è il momento di nascita di una generazione ben riconoscibile di narratori (ci sono questi due libri di riferimento: Altri libertini e Boccalone), da qui in poi ho l’impressione che si sia sempre più avvicinato il cambio generazionale nei discorsi dei mezzi di comunicazione di massa. Personalmente, come narratore ho goduto di un cambio generazionale nel 1997 e da quella volta, facendo un po’ di conti, ci si rende conto che di generazioni ce ne sono state quattro.

La cosa che mi sembra di poter dire, insomma, è questa: secondo me, questa faccenda delle generazioni è un trucco o una trappola. E sospetto che sia qualcosa che impedisce di parlarsi. È una trappola perché il discorso generazionale è tutto un discorso che esiste nei mezzi di comunicazione di massa, che esiste nelle dichiarazioni di chi gestisce imprese editoriali, è effettivamente un modo per dire al compratore: «Questa cosa è per te, perché l’ha fatta uno che è uguale a te». Ed è sottinteso, quindi, che, se l’ha fatto uno uguale a te, puoi farlo anche tu. E questa è, secondo me, l’origine dell’esplosione di scritture che arrivano nelle case editrici e che sono migliaia; si vede che il discorso sulle generazioni produce quella che potremmo chiamare una sorta di “velinizzazione” dell’esperienza letteraria. E ciò significa in sostanza pensare ad una possibilità di esposizioni, ad una possibilità di esser messi in mostra, dopo di che da lì verrà solo del bene e tutto andrà liscio. Allora io dico: «Non è che facendo, come fa la rivista “Atelier”, in un modo martellante un discorso sulle generazioni, sulla necessità che la critica si accosti alla generazione che c’è adesso, non è che tutti questi discorsi sull’assurdità del sistema editoriale su ciò che c’è adesso, hanno al loro interno come virus un’idea un pochino benignizzante della carriera, se così si può chiamarla, di poeta? Non è che questa accusa di fare del marketing che viene rivolta alle grande aziende editoriali, accusa peraltro assolutamente non smentibile, perché se non fa marketing un’azienda non funziona, non è che in questi discorsi ci sia dentro come virus un’idea un pochino benigna della carriera di poeta, come se la cosa che più effettivamente conta fosse azzeccare l’occasione, prendere quel tram che passa, finire dentro quell’antologia?». Non voglio dire che i poeti se ne debbano stare tranquilli a casa, senza pretendere di avere un pubblico, ma penso ad una introiezione di ciò che si accusa in colui che viene sentito come avversario o antagonista.

Marco Merlin: Ringrazio Giulio Mozzi, anche per la salutare e necessaria inoculazione di anticorpi nel tema generazionale, di questo grimaldello anche abbastanza pericoloso, che è bene sfruttare per far dire qualcosa a qualcuno dei presenti. Penso in particolare a Roberto Galaverni, che aveva accennato alla possibilità di giustificare come nella sua precedente antologia avesse dovuto prendere in considerazione quello che aveva definito “l’afflato della giovinezza”, che in qualche modo fa parte del lavoro letterario e dell’origine di uno scrittore. Certo il tema generazionale è un tema pericoloso e anche noi di «Atelier» abbiamo martellato fors’anche eccessivamente, proprio, secondo noi, per cercare di difenderci da quello che prima avevamo definito il “giovanilismo”, cioè un trucco per ottenere voce in capitolo e attenzione dai critici e dall’editoria. Forse questo è un modo vecchio di intendere il discorso generazionale, diventato oggi frenetico, soltanto un modo per pubblicizzare, promuovere e questo è certamente un pericolo esistente. Invece si voleva tentare di sfruttare il discorso sull’“afflato della giovinezza” non tanto per acquisire voce in capitolo, quanto per far sì che si verificasse non un accostarsi dei giovani all’edito-ria e ai critici, quanto piuttosto un avvicinarsi dei giovani tra di loro per cominciare una circuitazione di dibattiti e di problematiche, che garantisse un’accelerazione temporale di cui far tesoro e incanalare produttivamente ricchezze, tradizioni, energie del mondo, della letteratura e della storia. E poi, e solo in un secondo tempo, ci si proponeva quello che si chiamava un reale ascolto dei giovani e questo forse non è causato dalla loro precoce antologizzazione, ma dal ritrovamento di forme di  ascolto e di dibattito. Prima di sentire Galaverni e Buffoni, vorrei cedere la parola ad Andrea Cortellessa perché possa, eventualmente, controbattere ad osservazioni di questo genere.

Andrea Cortellessa: Volevo brevemente riprendere alcune riflessioni di Buffoni e di Raimo riguardo alla necessità o meno della letteratura, in generale, di giungere a un ascolto più vasto. La storicità della morte di Pasolini, diceva Buffoni, si spiega a partire dallo scandalo tematico della sua opera. Secondo me, non solo. Non è solo un problema di contenuti, anche perché oggi leggiamo Pasolini alla luce di Petrolio, ma all’epoca il testo non era ancora disponibile e forse avremmo una percezione molto diversa di lui, se non lo leggessimo sotto questa luce. Probabilmente il vero scandalo, il motivo per cui Pasolini ancora oggi viene brandito come un’arma da certi critici e teorici della letteratura, non era tanto la sua omosessualità o la sua trasversalità riguardo agli schieramenti politici (cose tutte molto importanti), ma soprattutto la sua volontà di parlare ad un pubblico, come avrebbe detto Fortini, extra-murale, un pubblico che non facesse cioè parte della cittadella delle lettere, che prescindesse da tutti i dibattiti che in essa per decenni si erano avvicendati, un pubblico insomma indifferenziato, come poteva essere quello della prima pagina del «Corriere della Sera». Quello era il vero scandalo e quella era la tribuna che gli diede la notorietà che la sua morte ha conclamato. Precedentemente già la scelta del cinema, che gli fu infatti rimproverata dai suoi compagni di strada, primo tra tutti Fortini, segnava il desiderio di andare oltre al recinto della letteratura e parlare un linguaggio più semplice, più diretto, più comunicativo per un pubblico di massa. Secondo me, queste di Pasolini erano scelte pericolose, scelte che si inseriscono lungo una linea ben precisa della letteratura italiana, che possiamo far datare almeno da Carducci e sicuramente da d’Annunzio in poi. L’idea di “andare verso il popolo” ha sempre fatto da fondamento del compito nazionale e popolare dello scrittore e dell’intellettuale. È lo slogan di d’Annunzio quando fece la scelta di campo, perdente, della Sinistra Storica: «Vado verso la vita!». Quest’atteggiamento, di saltare la barricata del letterato e raggiungere le masse, è stata un’ambizione perfettamente realizzata, prima che da Pasolini, proprio da d’Annunzio, il quale nel 1915 vedeva pubblicate le sue poesie interventiste sulla prima pagina sul «Corriere». Era l’Oriana Fallaci del suo tempo. Sulla prima pagina del «Corriere» Pasolini non ha scritto poesie, ma articoli, articoli indimenticabili che, come poi avrebbero fatto appunto quelli della Fallaci, si servivano di una retorica ben precisa, la quale faceva sì che apparissero perfettamente leggibili anche se sottendevano ragionamenti e conflitti di valori tutt’altro che semplici. Ma, appunto retoricamente, questi interventi erano agli antipodi delle sue poesie di quel tempo, tutt’altro che pianamente leggibili.

Gioverà rammentare che le poesie pubblicate da d’Annunzio sul «Corriere della Sera» fra il ‘15 e il ‘17, poesie orrende, grondanti retorica bellicista, ebbero l’effetto politico assai tangibile di condannare a morte decine di migliaia di prigionieri accusati di tradimento per le vicende di Caporetto e morti di fame nei campi di concentramento austriaci e tedeschi perché il governo italiano fu l’unico a non aderire al programma internazionale di vettovagliamento dei prigionieri (è una storia agghiacciante raccontata da Giovanna Procacci). Questa è la tradizione di un certo tipo di poeta nazionale italiano, tanto che veniva rimproverato a Pasolini, da critici come Citati o Fortini, un certo dannunzianesimo, non a caso lui reagiva sdegnato, perché era proprio quello il suo problema: il problema di qualunque scrittore autentico che voglia farsi ascoltare nel circuito doxastico e mediatico.

A dir tutto, penso che la semplificazione indiscriminata del linguaggio, quella che a torto o a ragione è considerata conditio sine qua non per raggiungere un pubblico indifferenziato – un pubblico che non è l’opera a concretamente ritagliarsi, ma un’entità di cui non si ha effettiva percezione se non numerica – va sempre di pari passo con una semplificazione dei contenuti, un’elementarizzazione delle questioni, un appello a questioni viscerali, pre-razionali. Questi valori è facile identificare come appartenenti a un’ideologia di Destra. Questa, piaccia o meno, è una tradizione precisa del nostro Novecento ed è l’esito, facilmente prevedibile, di questo tipo di operazioni. Oriana Fallaci non è che l’ultimo anello di questa catena, l’ultima erede di questa tradizione e non capisco perché letterariamente non se ne tenga mai conto. Evidentemente non fa comodo. Ma il suo caso dimostra che, se ci confrontiamo con questi problemi, dobbiamo sapere che si va a finire da quelle parti.

Prima un amico mi provocava dicendo che sostengo una letteratura per iniziati, un esorcismo catacombale, mentre due secoli fa un capolavoro come l’Eroica di Beethoven diventava il vessillo della nazione tedesca, veniva eseguita in tutte le sale da concerto e proiettava il compositore a un livello di popolarità sconfinata. Penso che, se Beethoven diventò così popolare, si dovette anche a un preciso investimento politico, nazionalistico, sulla sua musica (il caso dell’Eroica, dello strappo della dedica a Napoleone e del suo passare a manifesto di un germanesimo antinapoleonico e tendenzialmente totalitario – à la Fichte per intenderci – parla chiaro in tal senso, come capirono del resto Burgess e Kubrick usando in un certo modo Beethoven, e non altri, in Arancia meccanica); cosa che per esempio un suo contemporaneo in nulla a lui inferiore, Schubert, rifiutò col risultato di morire letteralmente di fame. Certo, anche il suo linguaggio è divenuto popolare, ma un secolo e mezzo dopo. È diventata musica da cellulare, ma dopo centocinquant’anni, perché ci vuole tempo. Perché i linguaggi sedimentino nella coscienza collettiva, ci vogliono decenni e generazioni che ri-eseguano e re-interpretino quei testi.

In questi giorni è uscito un libro ambiziosissimo e certo per molti versi discutibile, La lettera che muore di Gabriele Frasca, che disegna il panorama delle comunità protocristiane del primo secolo dopo Cristo, nelle quali i discorsi di Paolo di Tarso venivano veicolati da piccolissime comunità di iniziati («comunità cospirative» le chiama Frasca, nel senso che condividevano lo stesso pneuma, la stessa enfasi sul respiro della lettera; infatti la lettera, se lasciata sulla carta, secondo l’insegnamento paolino è morta: è invece lo spirito che la vivifica). Secondo Frasca, quello stesso atteggiamento, quell’idea s’è propagata lungo le generazioni, attraverso i secoli e oggi si presenta come unica possibile configurazione di popolo. Quando si parla di “andare verso il popolo”, è perché si presume anzitutto di conoscerlo e poi si presume che ci sia. Tempo fa un noto critico e saggista da tutti noi stimato, Alfonso Berardinelli, pubblicò un articolo sul «Sole-24 Ore» dicendo che la cultura della Sinistra italiana è arretrata, fumosa ed elitaria, mentre la cultura della Destra, e in particolare la cultura di Berlusconi (e si noti che Berardinelli, a scanso di equivoci, si è successivamente definito «ontologicamente di Sinistra») è molto viva, molto «radicata nel sociale». Ora questa frase, che anche linguisticamente ha fatto il suo tempo, perché risponde all’idea di una società ormai tramontata, presuppone appunto che ci sia un popolo, una condivisione di linguaggi e di presenza nella scena decisionale, che esista cioè una vera democrazia in atto, in questo Paese e in tutto il mondo. Presuppone insomma una serie di dati che vediamo benissimo non comprovabili e, anzi, clamorosamente falsi: uno dei grandi inganni della macchina mediatica che ci governa. Il popolo di cui parlo, di cui possiamo e dobbiamo parlare, è un popolo al quale si può solo aspirare; è un popolo che manca, come diceva l’ultimo Deleuze, un popolo che manca perché viene continuamente costituito dai testi che di volta in volta vengono scritti e letti. Non possiamo rivolgerci a qualcosa che in realtà non c’è, non possiamo rivolgerci a qualcosa che ci vendono le campagne promozionali, a una massa di consumatori.

Questo processo iniziava negli Anni Sessanta, quando Warhol diceva che un quarto d’ora di celebrità non poteva essere negato a nessuno. È l’idea di un’avanguardia di massa, per cui tutto può figurare nei reality show: dopo quarant’anni questo procedimento non è solo quanto ogni giorno ci viene venduto tramite i media; è lo strumento principale del governo di questo Paese, l’oggetto, lo strumento, il canale, ma di sé stesso, un canale per il quale non passa un messaggio, ma solo sé stesso. A mio modo di vedere la letteratura, se mi è ancora concesso usare questo termine, dev’essere qualcosa che cospira, che si oppone, che inventa ciò che manca, che non compra ciò che le viene venduto.

Franco Buffoni: Ad Andrea una brevissima replica. Se ho ben capito, tu neghi che in Pasolini fosse quella (cioè l’omosessualità) la sua grande tematica, la T maiuscola. Però aggiungi che solo con Petrolio, poi, si è capito che lo era. Ora ti domando: «Ma quale era la vera tematica della trilogia della vita: Racconti di Canterbury, Decameron, Mille e una notte? Non arrivo nemmeno a Salò». Tu dici: «Andare verso il popolo», ma con quale messaggio ci andava Pasolini? Processo alla DC, ma sotto il processo alla DC che cosa ci stava? Ci stava il suo ribrezzo per la scuola media unica, il suo ribrezzo per i ragazzi che non avevano più le nuche pulite e si lasciavano crescere i capelli, il suo ribrezzo per le nevrosi piccolo-borghesi. E di che cosa privava i ragazzi la nevrosi piccolo-borghese? Toglieva loro la naturalezza dei gesti e degli atti della civiltà contadina. In questa naturalezza dei gesti e degli atti consiste la T maiuscola di cui parlavo, il problema dell’omosessualità. Questa naturalezza dei gesti e degli atti anche nel fare dell’affettività e del sesso era il suo grande tema. Negare questo significa non volere cogliere che cosa sia stato Pasolini per la cultura italiana, tanto è vero che in un confronto tra culture, basta passare sull’altra sponda… del Mediterraneo e nel Magreb, per esempio, si ritrova quell’assenza di nevrosi che Pasolini sempre cercò. Ecco perché parlo del grande T non eludibile. Diverso il discorso per Tondelli, che nelle nevrosi ci nacque, ci crebbe e sempre ci visse. E solo dei nevrotici che frequentò, parlò.

Andrea Cortellessa: Una brevissima risposta a Franco. Insisto. Il grande tema, prima dell’emersione di Petrolio, cioè prima che il problema dell’ossessione privata di Pasolini si riflettesse sulla scena politica italiana del Dopoguerra, è sotteso. Recentemente è stato scritto da Marco Belpoliti un saggio molto preciso sul fatto che le polemiche antropologiche di Pasolini (ricordiamo “le lucciole”, “la condanna dell’aborto”) spesso partivano da un’ossessione privata, che è un’ossessione prettamente lirica proiettata sulla scena pubblica in maniera sottaciuta, nel senso che quello che era un suo problema privato diventava, proprio per la semplicità linguistica degli scritti sul «Corriere della Sera» come un problema pubblico e politico, deformando anche la sincerità di quell’istanza personale e privata, rendendola qualcosa che diventava politicamente reazionaria, dal mio punto di vista, e improduttiva, perché una problematica privata non può diventare argomento pubblico e politico. Tutte le volte che questo è stato fatto, nell’Estetismo, nel Decadentismo, ha prodotto cortocircuiti disastrosi. Tu sei uno studioso di quell’epoca e sai benissimo quanto il potere politico ha bloccato ogni tipo di discussione sulle libertà e questo tipo di ossessione privata degli intellettuali ha dato al potere soltanto motivi di scandalo e quindi possibilità di reprimere certe istanze in maniera ancora più violenta. Il problema sta proprio qui, nella sovrapposizione del privato e del pubblico, che deriva, dal mio punto di vista, da una iper-semplificazione del linguaggio, da una contrazione del ragionamento, che diventa financo più analogico, meno comunicato e meno condiviso delle poesie liriche degli Anni Quaranta, e che invece viene sbattuto in prima pagina, con gli effetti catastrofici di alcuni paradossi pasoliniani.

Franco Buffoni: Su tutto quello che hai detto adesso sono d’accordo, caro Andrea. L’unico punto era la “Tematica” di fondo di Pasolini. Fu quella tematica di fondo che lo portò a finire sul «Corriere» in quel modo. Sul resto sono d’accordo. Però c’era quella molla ineludibile in lui, come in tutti gli omosessuali, per i quali una vita adulta di consapevolezze non è sufficiente a compensare un’infanzia e un’adolescenza di sbalordimento e di repressione.

Marco Merlin: Una rapida annotazione, visto che il dibattito comincia finalmente ad accendersi: vorrei che si continuasse secondo questa linea abbastanza rapida ed efficace di botta e risposta per poco più di cinque minuti ciascuno.

Roberto Galaverni: Merlin mi aveva chiesto di intervenire in relazione a quello che ha detto Giulio Mozzi. Io sono abbastanza d’accordo, ma questo non impedisce che abbia poi anche un’altra idea. Lui ha messo l’accento su quello che ha definito una sorta di “velinizzazione” dell’esperienza letteraria e, secondo me, è vero. Io prima avevo detto, ma tu non hai sentito il mio intervento, della qualità di giovinezza, di afflato, di spirito che certi movimenti o singoli libri del Novecento rivelano o hanno dentro di sé. In che senso può avere valore un taglio non interpretativo, ma creativo, come quello che ti ponevi tu, dalla parte di chi scrive? Il taglio generazionale ha un rilievo soltanto quando i protagonisti se lo pongono in termini creativi, dal punto di vista poetico-espressivi: che lingua usiamo, che cosa vogliamo fare, quali sono i nostri maestri, quali sono i libri che devo cercarmi in libreria, quali sono i poeti stranieri da leggere, chi ti è piaciuto. Sono queste cose e queste cose, al di là di certe altre questioni effimere vive solo nel momento presente, che valgono quando questo si riversa in modo efficace e produttivo (e qui serve uno scrittore vero, perché altrimenti davvero c’è solo giovanilismo) dentro una risoluzione espressiva. È lì che il peso di una generazione si può misurare: quando parla di letteratura, visto che è di letteratura che stiamo parlando, quando queste cose entrano nel laboratorio, nell’officina di uno scrittore e dei suoi compagni di strada. Ce ne sono tanti, poi, di compagni di strada, che da un certo punto di vista valgono meno, dal punto di vista della realizzazione finale, anche se magari sono importanti in quel momento perché tramite loro sono circolate cose che poi non sono riusciti a realizzare pienamente o portare a compimento.

È invece verissimo quello che dice Mozzi che c’è il rischio evidente di inseguire questa cosa soltanto da un punto di vista esterno: il semplice problema editoriale. Mettiamo: una generazione fa un convegno e discute solo lamentandosi dell’editoria, quello è un falso problema, cioè è un problema reale che diventa un finto problema dal punto di vista di uno scrittore che deve porsi in un’altra posizione. Quindi, lui probabilmente alludeva ad un piccolo imbuto di visione, quando invece la mente di uno scrittore deve essere molto aperta, al filtrare insomma in problemi che sono semplicemente scorciatoie, mentre la qualità di un letterato si fa soltanto nel saper prendere il toro per le corna; e questo toro si chiama, in questo caso, poesia.

Non tutti sono capaci di parlare delle cose attraverso la poesia. È verissimo. C’è tutto un versante fatuo, cedevole, del rapportarsi del giovane alla letteratura. Non che tutto sia paccottiglia, ma è vero che l’editoria contemporanea foraggia un certo tipo di atteggiamento che dice Giulio Mozzi: «L’Italia è gerontofila, non crede nei giovani e la Mondadori, che è la principale casa editrice, uno che è sotto i quarant’anni non lo pubblica e uno tra i quaranta e i cinquanta lo pubblica una volta ogni due o tre anni». E questo è disastroso, secondo me. È vero anche quello che diceva Cortellessa prima: «La poesia ha tempi lunghi». Chi ama la poesia credo alla fine sia davvero poco preoccupato del tempo breve, perché la poesia è miope per le cose vicine, ma vede lontanissimo.

Marco Merlin: Allora, ripassiamo la parola ancora a Giulio Mozzi.

Giulio Mozzi: Faccio solo l’esempio di una frase. Tu hai detto delle cose e io ho estratto degli scalini che stanno nel tuo discorso e si esemplificano in queste tre espressioni, che si sono succedute nell’arco di tre minuti: «afflato di giovinezza», «accelerazione temporale» e «canalizzato produttivamente». «Afflato della giovinezza» appartiene ad una retorica del discorso sulla poesia, mentre «canalizzato produttivamente» è un’espressione che penso di poter sentire in un consiglio d’amministrazione a Milano. Ho detto che, secondo me, c’è un virus, che forse ti ha beccato un pochino.

Marco Merlin: A mia volta voglio azzardare una provocazione: forse il giovanilismo editoriale ha pagato molto in narrativa, forse c’è una generazione che si è molto proposta sul mercato della narrativa, ma questo ha funzionato in poesia? Il tema ci porta, per esempio, all’antologia in cui Giovanardi opera il confronto tra quarantenni narratori, che hanno già cinque o sei libri pubblicati da editori anche importanti, e i quarantenni poeti con il loro vivere una vita quasi catacombale.

Giuliano Ladolfi: Permettetemi di presentare brevemente Alberto Bertoni, anche se è conosciutissimo e quindi la mia presentazione potrebbe anche apparire superflua. È nato a Modena nel 1955 e insegna Letteratura italiana contemporanea all’università di Bologna. Oltre a vari saggi e volumi di argomento novecentesco, è autore, sul versante poetico, dei volumi: Lettere stagionali (Castel Maggiore, Book 1996), Tatì (Castel Maggiore, Book 1999), Le cose dopo (Castel Maggiore, Book 2003). Ha curato un’antologia di poesia italiana, che per la prima volta viene presentata.

Alberto Bertoni: Grazie a Giuliano Ladolfi, a Marco Merlin e alla rivista «Atelier» per il lavoro sulla poesia che fanno ormai da anni. Sì, è la prima volta che presento questa antologia: si tratta di un lavoro che avevo dentro da qualche anno. Si intitola Trent’anni di Novecento e raccoglie il lavoro poetico uscito in Italia tra il 1971 e il 2000. Ha il sottotitolo Libri italiani di poesia e dintorni e dico subito che i dintorni sono rappresentati, a parte qualche caso di poesia visiva, dal lavoro di scrittura dei cantanti, considerando quindi appartenenti al dominio della poesia anche i testi di certe canzoni e di certi autori stampati nei libretti dei Cd e nelle vecchie copertine dei dischi. La novità, che credo sia utile ricordare nell’ambito di questo dibattito sulle generazioni e i loro rapporti, è rappresentata dal fatto che sia la prima antologia fondata non su nomi o personalità letterarie, ma su singoli libri, con un principio arbitrario e democratico che è quello di assegnare un solo libro per poeta: i libri antologizzati dal 1971 sono 230 e quindi il giovane autore o la giovane autrice di un libro già forte pubblicato entro il 2000 è equiparata agli Zanzotto, ai Sanguineti, ai Pasolini, ai Sereni e ai Montale. È un principio che nella sua arbitrarietà neutralizza le differenze qualitative già definite a priori, e quindi neutralizza anche quella dicotomia fra grandi autori e medi o piccoli autori che è un pochino istituzionalizzata ma che è anche un pochino stanca.

Ho cominciato il mio corso di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Bologna (lettere M-Z) per un po’ tutti i corsi di laurea, lunedì, cioè tre giorni fa. Ho circa 110-120 studenti, ho cominciato facendo un referendum su quanti nomi di poeti viventi, grandi e piccoli inclusi conoscessero. Ha alzato la mano una ragazza in terza fila, dicendo che conosceva Alda Merini perché l’aveva vista in televisione, e poi un ragazzo in penultima fila che asseriva di non aver niente da fare un pomeriggio di una decina di giorni fa e di essere passato a sentire Sanguineti, che prima non conosceva e di cui non aveva letto nessun testo. Quindi, nessuno conosceva Giudici, Zanzotto, i cosiddetti grandi, alla facoltà di Lettere dell’Uni.Bo. Allora credo che, tutto sommato, anche un itinerario non prevenuto possa essere in questa chiave utile.

In secondo luogo il libro salvaguarda la storicità, in certo modo, perché appunto è disposto in ordine cronologico. Naturalmente non salvaguarda gli sviluppi delle carriere; d’altra parte però vi confesso che frequentando da trent’anni il mondo della poesia mi sono un po’ stancato di una mancanza di etica che sento serpeggiare navigando tra i blog, andando ai convegni, partecipando alle letture, che è la paura, e vagamente l’orrore, che una briciolina di star system si stia diffondendo anche nella poesia, la quale invece, essendo un mondo che non partecipa delle scelte economiche né degli editori né degli enti pubblici, dovrebbe esserne preservato. E allora l’idea di assegnare un libro a testa mi sembrava anche vagamente giacobina e vagamente etica, nel mettere davvero tutti alla pari. Poi naturalmente c’è anche la ragione legata al fatto che c’è proprio un problema oggi di rapporti tra generazioni, anche perché scriviamo troppo e pubblichiamo troppo, per cui credo che selezionare un libro a testa non è poi tanto sbagliato: tra i due o tre pubblicati da un editore decente ce n’è sempre solo uno eminente. Quasi mai si trovano autori che abbiano tre libri tutti dello stesso livello, in realtà uno eminente c’è sempre. E poi c’erano alla fine due ordini ancora di considerazioni: il primo è che davvero con gli Anni Novanta si è prodotta una sorta di congerie, di ansietà, forse una furia millenaristica o forse il bisogno di apparire, di esserci, quella briciolina di star system che dicevo. Ecco, il riconoscimento che fino agli Anni Ottanta certi sistemi assiologici, certe piramidi di giudizio (ci sono i grandi, ci sono i protagonisti del tardo Novecento, poi ci sono degli autori medi che fanno da supporto e poi c’è la pletora dei minori), ecco questo sistema credo che valeva fino agli Anni Ottanta non vale più: la situazione della poesia non è più così verticalizzata, ma disseminata, orizzontale, in un ambito dentro il quale anche i cosiddetti grandi hanno pubblicato una pletora di libri inutili e assolutamente inferiori alle loro punte degli Anni Settanta o Ottanta. E così, se fino agli Anni Ottanta trovate la maggior parte dei grandi libri pubblicati dai grandi editori (Specchio Mondadori, Bianca Einaudi, Verde Garzanti), dagli Anni Novanta in poi vediamo che i libri più interessanti escono sempre da piccoli o piccolissimi editori. Per questo abbiamo voluto per ogni libro la copertina dell’edizione originale, così che aprendo la mia antologia vediamo che siamo davanti, fatta eccezione per gli autori di cui sono stati pubblicati gli opera omnia negli Oscar Mondadori, ad un’archeologia del moderno e ancora peggio del contemporaneo, perché su 230 libri, almeno 200 non li trovate nemmeno prenotando. Ma, se si vuol leggere la poesia contemporanea degli ultimi trent’anni, o la si trova nelle antologie o nelle silloge dei cosiddetti grandi o non la si trova affatto; non la si può leggere e non la si può studiare. È un grande momento della nostra letteratura che non ha riscontro nei testi; i testi sono diventati introvabili. E dunque parlare di una situazione attiva, forte come quella della poesia attuale in chiave di archeologia del contemporaneo è un ossimoro abbastanza deciso.

Ultimo, a questo punto è davvero disperso il rapporto tra le generazioni, perché, mentre nella poesia è presente gran parte delle generazioni novecentesche, sono ancora vivi Luzi, Zanzotto, Sanguineti, Giudici, invece i narratori sono molto più sfortunati di noi poeti, perché, morto prematuramente Calvino nel 1985, non hanno più grandi vecchi con cui dialogare. Eppure anche questo dialogo con i grandi vecchi è un dialogo rispettoso, ma è anche un dialogo monco, perché anche quei quattro che ho citato non hanno creato un sistema di loro eredi riconosciuti: hanno appoggiato di volta in volta qualcuno o qualcuna, ma, se poi li sentiamo parlare in privato, i loro giudizi sono molto duri sui giovani e sui giovanissimi.

Allora quest’antologia vuole essere anche una specie di riconoscimento di una situazione, di un brulichio nel quale ci sono grandi voci del passato, voci giunte ormai a piena maturazione, ci sono voci delle generazioni come la mia e quella successiva, che non hanno mai ricevuto una sistemazione di ordine antologico, e c’è invece adesso la generazione dei trentenni, che hanno avuto almeno quattro antologie di grande qualità e di grande rilievo, la prima delle quali è stata curata da Ladolfi nel 1999, poi è venuta quella di Santagostini e altre. È ovvio che a questo punto la generazione dobbiamo prenderla come un grande contenitore descrittivo, che sta a monte di una situazione, e tuttavia è un contenitore descrittivo importante, perché propone interessi e topoi comuni. Il contenitore, però, deve essere anche abbastanza flessibile perché si riconoscano all’interno delle generazioni le differenze, le autonomie e le singolarità. Quindi, è molto interessante questa prospettiva a patto che non la si radicalizzi. Chiudo qui il mio intervento andando contro a quello che aveva proclamato, pure con grande intelligenza, Alfonso Berardinelli quando dice: «È una selva talmente intricata quella della poesia contemporanea che il critico depone necessariamente le armi». Io rispondo che il critico deve lavorare semplicemente di più, provare ad orientarsi, mettere materiali fragili nel calderone del suo orizzonte di ricerca e poi provare a fare confronti o selezioni, come ho provato io in questo caso. Grazie.

Marco Merlin: Ringrazio Alberto Bertoni. Vorrei riprendere una delle ultime affermazioni. Se è vero che non ha più senso parlare di una poesia eminente, di quelli che sono i poeti maggiori, ma che ci dobbiamo confrontare con una pletora di minori, non c’è il rischio, in questo, di una perdita della tradizione? Certo, nell’immediato c’è il mercato con le sue leggi, ma, se nell’immediato è già difficile trovare quelle autorità critiche capaci di indicare le voci più interessanti, quelle da seguire, perdendo tutto questo, non c’è forse il rischio di trovarsi davanti a scrittori, forse tutti molto bravi, che però non ci danno la possibilità di avere panorami, chiavi di lettura, tali da preservare almeno attraverso un primo filtro quelle voci che con il tempo potranno crescere? Voglio dire: uno scrittore rischia di essere sommerso, perché i poeti sono tantissimi, critici non ce ne sono, il lavoro che bisognerebbe fare è vastissimo. In questo sommerso il mercato non rischia di intervenire con filtri anomali e devianti? Se una fascia di autori rischia di non avere capacità di restare in contatto con il farsi della tradizione, con il discutere e il lavorare fra scrittori, l’intervento brutalmente editoriale di una Mondadori che seleziona quattro o cinque scrittori, con criteri che non si capiscono, è un filtro davvero drammatico. Se non ci si pone coraggiosamente il discorso dell’eminenza anche in un discorso molto corale, i filtri che vengono posti nell’immediato penso che ci porteranno, in futuro, a perdere molto. Insomma, c’è la possibilità che alcuni autori di successo editoriali rischino di essere avvantaggiati da criteri che poco hanno a che fare con la discussione, il dibattito, la letteratura, la creatività. Vorrei chiedere a Alberto Bertoni: «C’è, secondo te, questo pericolo, oppure no?».

Alberto Bertoni: Sì, sicuramente. Però, bisogna precisare alcune cose. Innanzitutto, io non ho detto che la pletora sia fatta di minori; negli ultimi dieci anni in questa pletora ci sono almeno sette o otto libri che io ritengo del valore degli eminenti. Un’altra cosa che vorrei dire è che, tutto sommato, questo che cerco di presentare con 230 autori è un canone che vuole essere inclusivo, che cerca di mettere tutti sullo stesso piano, senza creare delle gerarchie predefinite. Io, se vuoi, con lo spirito agonistico proprio della mia generazione ritengo che in realtà in poesia, proprio perché svincolata da contratti editoriali a molti zeri, ognuno di noi si metta in gioco con ogni libro, parta in qualche modo da zero. Voglio dire che non sono più disposto a riconoscere valori acquisiti a priori a nessuno. Mentre uscivano insieme due libri, il mio e quello di Cucchi e Giovanardi, mi sono accorto di una cosa: il mio è il capovolgimento esatto del loro, cioè Cucchi e Giovanardi hanno selezionato otto autori dando a loro un rilievo canonico, e tra questi otto io, davvero, riconosco questo rilievo canonico al massimo a due. Rispetto agli altri sei, credo che qui ce ne siano almeno sessanta più bravi. Credo insomma che la mia sia stata da un punto di vista critico un’operazione più realistica, più veritiera: non me la sentirei oggi di selezionare dieci poeti canonicamente rilevanti soltanto perché piacciono a me.

Marco Merlin: Ti ringrazio e devo dire che sono d’accordo, per esempio sul fatto che sia necessario un lavoro inclusivo: io ho cercato di fare la stessa cosa. Volevo proprio far notare questo tipo di lavoro: da una parte certi aspetti editoriali che seguono un’ottica, e magari anche in buona fede, hanno effetti che sono pericolosi, dall’altra c’è necessità di un lavoro di tutt’altro genere, forse più inclusivo. Credo che sarebbe bello pensare che, se ci fosse oggi un nuovo Rimbaud, avrebbe un minimo di ascolto, una minima possibilità di essere recepito e riconosciuto. Non sarebbe, insomma, uno dei centoventi buoni poeti di oggi, non minori ma tutti bravi, che però rischiano di perdersi non si sa bene perché. Detto questo, lascio un attimo la parola a Giuliano per una sintesi conclusiva.

Giuliano Ladolfi: Quanto è stato detto da Bertoni, è un problema difficile da risolvere, sul quale, però, siamo chiamati a riflettere. Non a caso Marco ha intitolato la sua ricognizione sui poeti degli Anni Cinquanta e Sessanta Poeti nel limbo, al fine di indicare quella generazione che si trova tra il sette e l’otto, in una situazione non di eccellenza ma di riconosciuto decoro. E il suo primo capitolo reca il titolo La selva oscura. Allora ben vengano lavori come quello di Bertoni o di Marco Merlin, che aiutano a tramandare e a storicizzare una situazione che altrimenti sarebbe inevitabilmente distrutta. Giustamente è stato osservato: «Come si fa a reperire una serie di opere che sono ad oggi esaurite?». È molto difficile lavorare in questo campo, per chi volesse operare una ricognizione completa. Tuttavia, io non escluderei l’altro tipo di operazione, la formazione di un canone: è un’operazione molto più rischiosa e difficile. A mio parere, il problema sta nei criteri: chiunque operi delle scelte deve indicare in che modo ha strutturato un’antologia, perché ha compiuto alcune scelte e non altre. Si tratta di un lavoro di trasparenza che è necessario compiere nei confronti del lettore sia critico sia lettore comune. Altrimenti, diventa semplicemente un’opera o di potere o di arbitrio. Perché parlo dei criteri? Perché il criterio implica una concezione di poesia, una poetica e un’estetica alle spalle. Questo è davvero l’unico modo per fare un’operazione che sia selettiva e non soltanto inclusiva.

In conclusione osserviamo che il tema del convegno, Generazioni a confronto, ci ha condotto ad esplorare molti argomenti concernenti la letteratura mediante proposte di carattere diverso e questo costituisce motivo di ricchezza. Sono convinto che, se usciamo da questo incontro con soluzioni, l’iniziativa ha fallito il suo scopo. Se invece ci allontaniamo pungolati dai dubbi e dalla necessità di approfondire aspetti nuovi, l’incontro odierno si presenterà fecondo di sviluppi futuri sia per la generazione affermata sia per quella che si sta affacciando al mondo letterario.

 

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