Piazza delle Anime, fotografia digitale di Stefano Sbrulli, 40x40 cm

La generazione invisibile

(L’opera scelta come copertina è di Stefano Sbrulli.
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Pare inevitabile, per un discorso sulla poesia italiana degli ultimi decenni, affidarsi almeno inizialmente a qualche logora ma certa impalcatura sociologica, come per esorcizzare un grande e indefinibile mostro la cui vera natura ci sfugge. Con diffidenza lillipuziana proviamo dunque a parlare di Poesia, nella sua enigmatica unità, con l’aggravante della prossimità temporale, ovvero di un’inevitabile distorsione ottica che muta le esatte proporzioni del nostro oggetto d’interesse.

Poesia e pubblico

La scalata al gigante comincia dalla constatazione della sua solitudine. La poesia, si dice, è abbandonata dal pubblico o, comunque, vive di un rapporto assai controverso con la comunità.

Da tale assunto prende avvio, per esempio, l’«Antologia della poesia italiana dagli anni Settanta a oggi» suggestivamente intitolata Ci sono fiori che fioriscono al buio, curata da Caltabellota, Peloso e Petrocchi[1], in cui si auspica, mentre si offre un panorama della produzione poetica degli ultimi venticinque anni, una ricomposizione del rapporto fra autori e lettori.

A prescindere da ogni mitizzazione del passato legame fra poesia e pubblico, tralasciando pure di inserire – come andrebbe fatto – il discorso all’interno della crisi secolare che investe il ruolo del letterato nell’epoca moderna, è fuori discussione che in questi decenni il problema del destino della scrittura poetica al cospetto delle nuove forme di comunicazione e dei rapporti umani che presuppone la società attuale si sia acuito e abbia profondamente punto la coscienza degli scrittori.

L’ovvio confronto con altre forme di comunicazione, socialmente più visibili, era alla base anche del dibattito degli anni Settanta, «il decennio del fracasso», «che nasce […] dal magma delle trasformazioni sociali che sono in corso […]. Massa, ecco la parola chiave per intendere le trasformazioni cui è sottoposta la società italiana. I consumi sono diventati di massa, si frequenta l’università di massa, già da qualche tempo, poi, al centro dell’attenzione è l’operaio-massa»[2].

Entro questo contesto, ci si è forse illusi circa la possibilità di trasformare anche la poesia in un’esigenza collettiva, contaminandola con la canzone o assegnandole un indebito megafono. Il celebre episodio del Festival di Castelporziano resta agli annali come l’emblema del crollo di tale illusione. Ma rimane il fatto che in quegli anni la poesia si è avvantaggiata di un febbricitante fervore, testimoniato da un’incredibile mole di pubblicazioni, di manifestazioni letterarie, di collane attivissime e di celebri antologie, solitamente utilizzate appunto per storicizzare quel periodo[3]. Si è parlato, in merito, di “boom” della poesia (sono gli anni del Nobel a Montale e dell’assassinio di Pasolini, figura contraddittoria ed emblematica di intellettuale e di poeta), anche se il pubblico cercava probabilmente qualcosa di differente rispetto a ciò che i poeti volevano offrire: il lettore di versi finiva col coincidere sempre più con lo scrittore medesimo.

 

La “deriva dell’arte e del soggetto

Il pubblico della poesia, del resto, era proprio il titolo scelto da una di queste antologie, che denunciava, per il tramite del curatore Alfonso Berardinelli, la condizione di “deriva” in cui versava la produzione poetica post-sessantottesca, additando il facile trapasso dallo sperimentalismo linguistico all’assemblaggio post-moderno degli anni a venire: «tutti i generi hanno ripreso a fiorire simultaneamente in una situazione non più di conflitto e di reciproca aggressione ma di ilare convivenza». Tutto questo si poteva considerare una conseguenza del «fenomeno di sgretolamento di una tradizione, di un campo e di un ruolo (anche solo ideologico)».

La spasmodica ricerca del nucleo specifico della scrittura poetica, esasperato da tale contesto socio-culturale, non poteva che disorientare ancor più il pubblico (altro “mostro” che andrebbe ben altrimenti smascherato); l’allontanamento della poesia dalla comunità non era solo il risultato degli spostamenti subiti dall’asse culturale editoria-giornalismo-università-fenomeni di massa, ma qualcosa di più intimo alla stessa officina creativa, al moto permanente di liberazione del nucleo etico, del fermento conoscitivo inscritto nella ricerca poetica, che dal Romanticismo in poi si dimostra insofferente verso ogni forma di subdola letterarietà.

Comprendiamo, in tal modo, le condizioni che hanno determinato lo sviluppo di forme poetiche che oggi apparirebbero del tutto improponibili e che ancora potrebbero sembrarci gratuite, se molti protagonisti di quella stagione non avessero trovato in seguito il modo di svolgere con serietà l’esigenza primaria che premeva, oltre ogni ideologia o irruenza giovanile, nella loro prima avventura espressiva. Clamoroso ed emblematico sopra tutti mi pare il caso di Cesare Viviani, che da L’ostrabismo cara approderà a Lopera lasciata sola.

La coordinata “interna” alla ricerca artistica forse più semplicemente ravvisabile, rispetto al dato esterno della deriva sociale e linguistica, è quella del decentramento dell’io – formula per l’appunto adottata per esprimere il lavoro più tipico di una nostra stagione letteraria, anche se, come ricorda Niva Lorenzini, «È davvero varia la tipologia della “deriva”: se il soggetto vi si dissemina, non giunge però a neutralizzarsi, restando anzi protagonista in maniera onnivora, sino all’ossessione. È un io immerso nella pratica quotidiana, frammentato anche se presente con la sua consistenza fisiologica, con la sua vitalità enfatizzata o repressa, trasgressiva o residuale, che nulla ha da spartire con l’io lirico istituzionalizzato e canonico»[4]. Siamo negli anni della psicanalisi e della linguistica.

 

Fisicità del segno e antilirismo

Che tale “deriva” non fosse affatto il sintomo della perdita definitiva del soggetto protagonista della percezione (o della visione), era testimoniato anche dalla preponderanza che assumeva, talvolta proprio in riferimento alla diffusa e cercata oralità della poesia, il senso della corporalità, con annesso repertorio poetico che non può considerarsi di esclusiva pertinenza dell’esperienza femminista. La poesia, in quanto performance vocale, rivendicava una chiara valenza gestuale, fissando nella materia del segno il proprio valore di traccia psichica, di realismo anti-mimetico a tratti ancora sperimentale (l’opera della neoavanguadia lasciava eredità anche agli oppositori). E pure nei poeti di più ardua lettura il testo, contaminando generi e registri per diretta conseguenza del decentramento dell’io (e non dunque della sua scomparsa), accoglieva lacerti pulsanti del quotidiano, scene e personaggi da offrirsi come emblemi fragili di una deriva avvertita veramente come epocale.

La tensione realistica, tutta interna alla traccia della pagina nel momento stesso in cui presumeva di sfuggire a una manipolazione ideologica e di trasformarsi in programma, si avvaleva di un tono prevalentemente antilirico.

Entro queste coordinate assai generiche (decentramento ma non scomparsa dell’io, poetica del corpo, antilirismo sperimentale) si accostano esperienze poetiche davvero dissimili se non addirittura antitetiche; ma è proprio questo a denotare, fin dove ancora ha senso farlo, l’importanza del “clima culturale” di una stagione.

 

La stretta editoriale e il distacco dall’Accademia

Cavalcando l’onda del superamento (con atteggiamento talvolta però ambiguo e non privo di aspetti di connivenza) del movimento che era riuscito a imporsi negli anni precedenti, vale a dire il Gruppo ‘63, un’intera generazione si è affacciata sul palcoscenico nazionale prima che si verificasse una clamorosa chiusura degli spazi editoriali vitali per la poesia. Si tratta di quelli che Raboni ha catalogato come «Generazione del ‘68», fra i quali ricorderemo almeno Bellezza, Conte, Cucchi, Frabotta, Lamarque, Viviani, Cavalli, Carifi e De Angelis[5]. Mentre l’Avanguardia si confinava negli ambienti accademici, ai nuovi movimenti spettava il compito di spartirsi l’attenzione ormai decrescente dei mass-media e conservare il prestigio acquisito presso gli editori che mantenevano qualche interesse per la poesia.

Questa è la cornice che ha caratterizzato almeno i primi anni Ottanta, il decennio, per usare espressioni di Niva Lorenzini, «dell’edonismo e del disimpegno, dei progressi tecnologici e delle catastrofi ecologiche, del pensiero debole e del postmoderno: un periodo in cui i rischi dell’appiattimento e della rinuncia alla prospettiva critica controbilanciano in abbondanza le nuove opportunità dell’ampliamento dei punti prospettici, delle infinite risorse combinatorie»[6].

La poesia degli anni Ottanta va dunque rintracciata oltre l’orizzonte manifesto, in una zona impervia e fittissima del lavoro letterario costituita dalle riviste, dalle piccole case editrici, da una dimensione spesso provinciale dell’impegno letterario che non implica affatto un depotenziamento qualitativo della scrittura, ma semmai un suo profondo attingere a linee della tradizione misconosciute eppure vitalissime. Ciò da una parte ha rafforzato non soltanto la riscoperta del dialetto, da tempo avviata, ma ha ingenerato una difficoltà di percezione della tradizione poetica, sempre più confusa con la cattiva poesia pronta ad allignare non soltanto negli stessi spazi, ma a guadagnarsi maggiori settori della società: «La poesia – ricorda Raboni – è entrata nella cultura di massa; anche se non è entrata la poesia vera, ma il replicante della poesia, la simil-poesia, la cattiva poesia»[7]. Posta in questa dimensione di marginalità, che naturalmente ha comportato anche una “sofferenza della scrittura”, nessuno sguardo critico ha saputo per lungo tempo rintracciare il lavoro di una nuova generazione e di quant’altri proprio in quel periodo hanno proposto la loro opera, tanto che si è potuto credere di ravvisare un limite di creatività interno al succedersi anagrafico delle generazioni: «da una decina d’anni a questa parte le manifestazioni di poesia si sono fatte improvvisamente rare, episodiche, discontinue, come se alla diffusa, debordante creatività degli anni Settanta e dei primi Ottanta fosse repentinamente subentrata una devastante aridità, un deciso rigetto della comunicazione in versi: le voci nuove affiorate nell’ultimo decennio si contano sulle dita di una mano, e l’ultima generazione complessivamente attestata e individuabile resta quella dei nati fra il ‘40 e il  ‘50, con un’età media vicina ai cinquant’anni»[8]. Questo il giudizio autorevole di Giovanardi, esteso fino al ‘95.

Si è dunque dato credito a un clamoroso equivoco: che la condizione di esilio in cui si è trovato a operare il poeta, portata all’esasperazione in questi anni, fosse il segno di una povertà di voci e di progettualità che denotava una crisi della scrittura, dimenticando che «Il chiamarsi fuori dal mondo, un atteggiamento aristocratico e di sdegno sono purtroppo indispensabili se vogliamo continuare a tenere viva l’idea della poesia come qualcosa di estremamente specifico, come un modo di comunicare, ma soprattutto di esprimersi, che non assomiglia ai suoi surrogati volgari. In questa situazione, chiedere alla poesia di uscire allo scoperto, di affrontare i grandi temi, di entrare nell’agone è un po’ intempestivo. Il momento è quello della concentrazione, e della difesa dei valori veri contro i valori falsificati».[9] L’idea di un improvviso interrompersi “anagrafico” della storia della poesia italiana veniva acuito, paradossalmente, dalla continua crescita del pubblico “potenziale” di lettori – e basti il caso di una rivista come «Poesia» per rendere ragione di tale assunto, fermo restando che la crescita di lettori potenziali non ha risolto i problemi dell’editoria italiana: i libri di poesia continuano, salvo rare eccezioni, a non essere letti.

 

 

La “generazione invisibile” e la crisi della critica

Le “colpe”, se di colpe si può parlare, che hanno condotto, nell’importante senso di continuità di una storia letteraria, allo smarrimento di una “generazione invisibile”, il cui lavoro rischia ancora oggi di essere perduto nel moto di sfaldamento della tradizione a vantaggio delle singole linee regionali che dovrebbero, e forse non riescono più, a costituire un unico complesso (il corpo del gigante Poesia che sottostà al nostro discorso) – le colpe, si diceva, della perdita di un “anello” nel progresso della nostra storia poetica andranno sicuramente ripartite su tutti i fronti: sarà in parte dovuto all’anelito di autonomia dei cinquantenni[10], alla crisi dell’asse editoria-giornalismo-università in seguito al suo assestamento intorno alla “massa” e alle sue esigenze, all’incapacità stessa, da parte dei diretti interessati, di creare nuovi spazi propositivi in grado di imporsi, pur movendo da una marginalità “necessaria”, fuori dal circuito dei rapporti personali, e così via. Ma qui interessa additare il fatto che la temuta “morte” della poesia, da tanto tempo annunciata, non si è mai verificata; semmai, abbiamo assistito a una morte della critica, a una perdita della sua credibilità mentre non riusciva più a inseguire le inedite modalità di sopravvivenza del poetico. Intendiamoci: non sono mai mancati ottimi critici, ma quanti di loro hanno saputo seguire il fil rouge delle generazioni senza impaludarsi in giudizi sommari, additando opere e voci con un minimo di arrischiata autorità? (E si richiama qui, per critica, propriamente il discorso organico e approfondito intorno alla poesia e le sue singole manifestazioni, non la promozione di taluni autori o la loro pubblicazione, che è cosa altrettanto meritevole ma differente e, semmai, complementare, che non può sostituire l’attività critica).

A rendere giustizia, almeno in parte, alla poesia degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, ancora da monitorare in modo completo, sono stati giovani critici come Roberto Deidier e soprattutto Roberto Galaverni[11]. I nomi che trovano spazio nell’antologia di quest’ultimo sono quelli di Benzoni, D’Elia, Magrelli, Mussapi, Pagnanelli, Ceni, Scarabicchi, Valduga, Salvia, Pusterla, Rondoni, Fiori, Damiani, Villalta, Albinati, Anedda, Gibellini, Riccardi. Ma vorrei ricordare anche, fra i molti nomi che ancora si potrebbero fare, altri autori fra quelli inclusi nell’Omaggio alla poesia contemporanea del numero 10 della rivista «Atelier» (ed è pur significativo che a farsi carico di un tale omaggio sia, in pratica, la generazione dei trentenni che ora invece riesce a proporsi con maggiore coesione e intensità[12]): Benedetti, Bocchiola, Bonito, Dal Bianco, Deidier, Di Palmo, Donati, Farabbi, Gardini, Guzzi, Iacuzzi, Marotta, Munaro, Ritrovato, Sissa, Tarozzi, Vitale e Zuccato. Con questo elenco sommario si rende già l’idea della complessa ricchezza di una stagione creativa semisommersa e misconosciuta, della coralità e della solitudine in cui si sono occultamente elaborate, all’ombra dei grandi “maestri” ancora all’opera e delle altre generazioni, nuove forme e linguaggi.

Non andrebbe infatti dimenticato che, mentre in questa sede ci si sforza di seguire la linea “anagrafica”, per così dire, della storia recente della nostra poesia, la letteratura vive nel concerto di varie generazioni e tendenze: sarebbe ingiusto non riconoscere che le figure di maggior prestigio, anche nel secondo Novecento e pure in questi ultimi decenni del secolo, sono autori anagraficamente appartenenti al primo Novecento. A loro si devono ancora le opere fondamentali di questi anni, ben oltre il loro identikit scolastico[13].

Proseguendo comunque lungo il taglio prospettico di questa analisi, benché indicare alcune coordinate valide per tutti gli autori sopra menzionati sia ancora più arduo rispetto a quelle fornite per il decennio precedente, diremmo che i dati acquisiti per la poesia degli anni Ottanta, a livello generale, sono quelli che riconducono a un complessivo rilancio del soggetto – l’io che presiede all’opera, in virtù di un’idea sapienziale di poesia –, cui si contrappone (in modo spesso complementare) un minimalismo di ascendenza lombarda contraddistinto dal forte timbro etico. A queste tendenze va però aggiunta la crescente attenzione alla struttura testuale, tale da dar vita a una vera e propria moda neo-formalista.

 

Neoromanticismo e neocontenutismo fenomenico, neoformalismo

Mentre emerge in questo frangente una nuova «centralità che sta assumendo la ricerca letteraria, nell’affievolirsi e indebolirsi del pensiero utopico e delle ideologie, nella perdita di primato delle discipline e dei saperi universali», a proposito dei primi due orientamenti sopra evocati Niva Lorenzini parla di neoromanticismo e neocontenutismo fenomenico: «Neoromanticismo […] o neoclassicismo, neomiticismo, nuova metafisica, a significare l’opzione per un linguaggio originario, luogo di essenze turbate o luminose, di un mito riscoperto sull’anima del mondo, tra icasticità e stupefazione, nel solco di ascendenze in prevalenza anglosassoni, tra Yeats e Blake… Neocontenutismo fenomenico […] o laica enunciazione dell’evento minimale, privo di profondità e tenuta nel suo soggettivismo spento e inerte»[14]. Di seguito, il critico approfondisce la distinzione: «Da una parte […] si enfatizza il potere della parola, idealisticamente sottratta alla storia, vagante “in una regione mentale enigmatica e astratta” […], col rischio, insieme, di una disseminazione e riabilitazione dell’io, di cui viene esibita la scomparsa, e di un feticismo del Testo, luogo heideggeriano dell’evento e della verità, polemicamente contrapposto a un extratesto in disarmo. La parola si impone qui come metafisica presenza, indifferente ai referenti, sottratta alla finitezza, desiderante e assoluta: in essa convivono ineffabile, visionarietà onirica, tracce memoriali trasfigurate in mito.

Dall’altra si pratica la riduzione del Testo all’anticanto, contro ogni certezza sapienziale, nell’opzione per un linguaggio dialettico sede di conflitti, che insegue tracce minuscole dell’esperienza operando slittamenti metonimici tra ironia e allegoria. Qui la Storia si frantuma in storie dissonanti e marginali, il Senso si rifrange nei sensi aleatori attivati da un linguaggio che si espone alla pluralità non calcolabile e non prevedibile degli eventi, concentrandosi sulla intensità del referto, nella scomparsa di ogni ipotesi totalizzante»[15].

Queste tendenze possono in vario modo considerarsi eredità del decennio precedente; basti pensare alla figura di poesia che, al di là degli effettivi riscontri testuali dei diversissimi poeti giustapposti, emergeva dalla Parola innamorata e dall’attività della rivista «Niebo» (1977-1980). La complementarietà tutt’altro che antagonistica che talvolta hanno assunto le due tendenze in questione sono evidenti nella scelta dell’antologia Anni ‘80, curata da Luca Cesari[16]. Invece, la novità più cospicua è rappresentata in questi anni dalla preferenza, avvertita con sempre crescente intensità da più parti, per una formalizzazione distintiva del testo, come se il ritorno alla metrica e alle strutture chiuse rappresentasse per molti poeti l’unico elemento di resistenza da opporre alla deriva, l’unica connotazione ancora possibile per salvaguardare la poesia dalla sua omogeneizzazione collettiva. Dietro a questo orientamento, comunque, non si muove solo tale consapevolezza storica, pronta peraltro a degenerare in molti casi in semplice moda, ma la vera riscoperta della funzione gnoseologica e liberante che, paradossalmente, proprio le strutture canoniche svolgono, nel momento in cui vengono attivamente reinventate e non ripristinate supinamente.

 

La parola ritrovata

Se gli anni Ottanta segnano una riscoperta dell’individuo, dopo il bagno collettivo degli anni Settanta, ciò ha comportato pure una lenta ricomposizione del soggetto poetante all’interno del testo, e una ripresa lirica ancorata a un’idea dello stile meno vaga e oggettivabile attraverso il ricorso alle forme chiuse.

Sono state queste le premesse che hanno reso possibile, negli anni Novanta[17], il ricorso a «una parola “forte”», intendendo con questa definizione «l’accentuato grado di responsabilità verso la poesia come luogo di definizione e di illuminazione di una figura individuale e ancor più del rapporto di quella con le cose della vita»[18]. La parola ritrovata è il titolo efficace di un volume che raccoglie gli atti di un convegno romano[19]: in questa sigla possiamo scorgere l’anelito a una poesia densa ma leggibile, legata a un tenue filo lirico mai preponderante, e soprattutto il ritorno a una soglia minima di visibilità delle immagini e di narratività dei testi, fuori dalle alchimie assolute del verbo, alla ricerca di un più incandescente punto di contatto fra l’esperienza individuale e la storia (sia tal punto rappresentato da una prima persona discreta, da un io demiurgo che si svuota e annulla divenendo cassa di risonanza di visioni mitopoietiche, o ancora da forme anonime di rappresentazione in terza persona).

Prototipo assai precoce e probabilmente involontario di un’ipotetica linea di razionalità e chiarezza è stato lo straordinario primo libro di Magrelli, Ora serrata retinae, che risale addirittura al 1980. Ma è fuor di dubbio che quella esperienza, presto avviluppatasi in un percorso personale sempre più asettico, è stata variamente ripresa da molti, tanto che non sarebbe difficile rinvenire negli anni Novanta altri poeti, per esempio Umberto Fiori, che assumono un’analoga rappresentatività in un’ideale scelta di campo espressiva a vantaggio della trasparenza, densissima, dell’espressione poetica.

Andrà pur rivelato che talvolta una simile volontà di chiarezza si associa a manierismi di varia natura, disinnescando in forme di intellettualismo e di ironia quella carica etica ed epistemologica di cui invece si sarebbe voluta fare carico; ciò avviene in particolar modo, per esempio, nella moltiplicazione di moduli e stilemi tipicamente caproniani, ma dovremmo a questo punto ribadire l’importanza della coesistenza di più generazioni all’interno della storia letteraria, complicando ulteriormente il discorso.

 

Fine o inizio?

E siamo, con questo, al presente. Tentare di lanciare qualche sguardo sul futuro per capire se siamo al mezzo oppure alla fine di una stagione letteraria che ne presuppone l’inizio di una nuova risulta naturalmente intempestivo. Certo è che stiamo vivendo l’ennesima trasformazione degli assetti sociali che può dar adito a rinnovate forme del poetico, all’interno di una realtà sempre più globale; a patto, naturalmente, che la poesia abbia però appreso dall’esilio e dalla deriva epistemologica il segreto per salvaguardare la propria specificità e, soprattutto, la propria ragion d’essere etica.

Nel corso del nostro rapido sguardo sugli ultimi decenni, pur restando entro prospettive necessariamente generali, abbiamo fatto qualche nome di autori. Ora sarebbe il caso di citare più apertamente i libri – e sono parecchi – che hanno visto la luce in questo scorcio di millennio e che rappresentano sicuramente un patrimonio fondamentale, sebbene talvolta non riconosciuto, della nostra letteratura.

Ma a questo punto i lacci del nostro discorso vengono definitivamente strappati e ha inizio un’altra sfida. Il gigante riprende a muoversi.

 

NOTE

[1] Ci sono fiori che fioriscono al buio. Antologia della poesia italiana dagli anni Settanta a oggi, a cura di Simone Caltabellota, Francesco Peloso e Stefano Petrocchi, Milano, Frassinelli, 1997. L’opera dispone gli autori secondo una scansione temporale (Gli anni Settanta, Gli anni Ottanta e Gli anni Novanta) che si impone, nell’indubbia praticità, restando sostanzialmente estranea all’elaborazione letteraria. Non parlerei nemmeno di criterio storicistico in quanto la scelta e la disposizione dei testi non è stata approntata in base a una effettiva corrispondenza con l’inquadramento storico. Basti un esempio, per intenderci: all’ampio risalto attribuito all’assassinio di Moro, in sede introduttiva, non fa riscontro la lettura della celebre poesia di Luzi dettata proprio da tale avvenimento. Del resto, fin dalla presentazione del volume si rinunciava apertamente a difendere «una categorizzazione storiografica che isoli un’idea di poesia a dispetto di ogni altra possibile» (si parla dunque di «Anni Settanta» e non di «Poesia degli anni Settanta», cioè di un canone letterario che si conforma in qualche modo in base alle vicende storiche), finendo col confondere ancor più le carte senza permettere che qualsiasi altra idea di poesia nascesse in virtù (e per merito) di una critica costruttiva rispetto al punto di vista adottato.

[2] Ivi, p. 3.

[3] Il pubblico della poesia, a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, Cosenza, Lerici, 1975. Le altre antologie cui si allude sono La parola innamorata. I poeti nuovi 1976-1978, a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro, Milano, Feltrinelli, 1978, e Poesia degli anni settanta, a cura di Antonio Porta, Milano, Feltrinelli, 1979. Per un panorama più completo andrebbero tuttavia menzionate anche altre opere, seppure differenti per metodi e intenti: Donne in poesia. Antologia della poesia femminile in Italia, a cura di Biancamaria Frabotta, Roma, Savelli, 1976; Poesie e realtà ‘45-75, a cura di Giancarlo Majorino, Roma, Savelli, 1977; Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondatori, 1978.

[4] Niva Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 164.

[5] Giovanni Raboni, Poeti del secondo Novecento, in Storia della Letteratura Italiana, nuova ed. accresciuta e aggiornata diretta da N. Spegno, vol. IX: Il Novecento, t. 2, Milano, Garzanti, 1987.

[6] Niva Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, cit., pp. 168-9.

[7] Giovanni Raboni, in Per la poesia tra Novecento e nuovo Millennio, Atti del convegno di Letture, Milano, San Paolo, 1997, p. 38.

[8] Stefano Giovanardi, Introduzione, Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995, Milano, Mondatori, 1996, pp. LV-LVI.

[9] G. Raboni, in Per la poesia tra Novecento e nuovo Millennio, cit., p. 39.

[10] Si veda, in merito, il contributo teorico di Cesare Viviani, Una generazione di anarchici e di autolesionisti, «Atelier», IV, 13, marzo 1999, pp. 25-7.

[11] Le regioni della poesia. Riviste e poetiche degli anni Ottanta, a cura di Roberto Deidier, Milano, Marcos y Marcos, 1996; Nuovi poeti italiani contemporanei. Antologia a cura di Roberto Galaverni, Rimini, Guaraldi, 1996.

[12] Si vedano in merito le recenti antologie L’opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, a cura di Giuliano Ladolfi, Borgomanero, Atelier, 1999; I cercatori d’oro. Sei poeti scelti, a cura di Davide Rondoni, Forlì, La Nuova Agape, 2000; I poeti di vent’anni, a cura di Mario Santagostini, Brunello, Stampa, 2000.

[13] «Per venire al concreto: se Caproni o Sereni, Luzi o Bertolucci conoscono, tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, una ripresa di tensione vitalissima, è importante ascoltarli assieme ai più giovani compagni di sperimentazioni. Non perché si vuole appiattire, uniformando, l’orizzonte della poesia in un indifferenziato amalgama, in un approccio polivalente che abolisce le distinzioni, ma semmai perché quel che interviene su certe esperienze consolidate si pone come acquisizione dinamica, dialettica, nel momento in cui si trasforma in gesto attivo il già dato, sottraendolo a parametri irrigiditi» (N. Lorenzini, Il presente della poesia. 1960-1990, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 215).

[14] Ivi, p. 185.

[15] Ibidem.

[16] Anni’80. Poesia italiana, Antologia a cura di Luca Cesari, Introduzione di Roberto Carifi, Milano, Jaca Book, 1993.

[17] Naturalmente la scansione cronologica è pretestuosa e fornisce discrimini di pratica utilità che vanno necessariamente affinati rispetto alla reale fenomenologia letteraria.

[18] R. Galaverni, Nuovi poeti italiani contemporanei, cit., p. 9.

[19] La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio, 1995.

 

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