Claudio Damiani, fotografia di Dino Ignani

Poeti contemporanei: Claudio Damiani

(La fotografia in copertina è di Dino Ignani.
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La poesia di Claudio Damiani muove da ragioni e intraprende modalità espressive del tutto analoghe a quelle testé riportate per Gabriella Sica. Potremmo dire, sintetizzando, di trovare in lui la medesima poetica, ma spinta a un tale grado di oltranza da trasformarne i dati peculiari in una sottile forma di ossessione.

Ricorriamo a quanto sintetizzato da Umberto Fiori a proposito della raccolta La miniera:

Diminutivi, vezzeggiativi, esclamativi, interiezioni, effusioni, idilli: Damiani “si permette” pressoché tutto quello che le regole non scritte di un galateo poetico ormai secolare proibiscono (o quanto meno sconsigliano); si può dire, anzi, che l’identità del suo lavoro – un’identità nettissima fin dagli esordi – abbia preso forma proprio da un sistematico, caparbio rovesciamento di quel galateo. Leggendolo si pensa ai crepuscolari (soprattutto Corazzini direi) poi magari a Penna, a Saba, a un certo Caproni, e ancor più a quel diffuso e variegato antinovecentismo che ha fatto da antifona al Novecento più accreditato; ma la trasgressione “dolce” di Damiani mi sembra assumere – in questa fine di secolo – caratteri ancor più estremi ed estremamente anacronistici. Di un tale anacronismo l’autore è tutt’altro che inconsapevole e si affretta anzi a suggerirne – in versi – un’interpretazione forte, dove la polemica è appena attenuata dal tono mansueto: «Che bello che questo tempo / è come tutti gli altri tempi, / che io scrivo poesie / come sempre sono state scritte». Siamo di fronte, insomma, a un’idea radicalmente antimoderna di poesia, nata dal rifiuto di ogni avanguardismo, di ogni “progresso” in arte, di ogni feticismo del Nuovo; non per caso La via a Fraturno (la raccolta che è un po’ il cuore di questo libro) elegge Orazio a proprio nume tutelare e a proprio scenario il paesaggio arcaico e appartato della Sabina [1].

L’atteggiamento altrettanto disinibito del poeta nei confronti del canone suggerito dalla modernità sembrerebbe nascere da una disarmante constatazione storica, come già avviene per Gabriella Sica, circa il riconoscimento di quello che i versi hanno sempre rappresentato, con le forme e il linguaggio elaborato dalla tradizione, all’interno della nostra civiltà, se non addirittura di ogni civiltà (e si potrebbe aprire qui una finestra sulle frequentazioni della cultura orientale che a tratti vengono esibiti). Del tutto estraneo all’ansia (decadente e nevrotica) di rinnovamento che l’arte ha sofferto nel nostro tempo, Damiani prende atto serenamente di quello che la poesia è, nelle forme che ci vengono tramandate fin dalla scuola, nell’idea di poesia più semplice e schietta (e dunque del tutto riconoscibile come tale) che tutti hanno.

Ora, a prescindere dal fatto che ormai anche la tradizione moderna fa parte della nostra storia e le nuove forme letterarie da essa elaborate sono ampiamente filtrate anche nella cultura popolare, benché a diversi livelli e con un noto pericolo di perdita di specificità, di scadimento in poeticità diffusa e banale; e a prescindere dal fatto che questa posizione è, a partire esattamente dai suoi presupposti anti-ideologici, una presa di posizione ideologica bella e buona, nient’affatto innocente, va dato merito a Damiani di riuscire a bruciare tutte queste resistenze interpretative, portando la maniera assunta a un tale livello di ossessività da rovesciarla in uno stato di naturalezza di secondo grado (e andrebbe osservato come il passaggio dai versi – su tutte le forme la più tipica è l’elegia in endecasillabi, che trascolora poi in uno schietto versoliberismo – alla prosa sia del tutto indolore: le parole si dispongono in verticale con la stessa noncuranza con cui si inseguono in orizzontale, proprio per il principio classico della disinvoltura conquistata con esercizio dissimulato).

Giustificata con il rifiuto degli psicologismi in cui la poesia si è impaniata, liberata quindi dalla sofferta necessità di giustificarsi in quanto poesia (per chissà quali sensi di colpa), la voce di Damiani torna a concentrarsi sulle cose. I suoi versi godono di uno stupore persino troppo innocente, ma creano dentro la finzione lo spazio per una rappresentazione del reale. Per mostrarci il mondo, il poeta non ha bisogno di metafore, di preziosi analogismi, di oscurità verbali che nascono da un desiderio di potenza del soggetto. A ogni poetica che valorizzi tali strategie, egli contrappone un abbandono ai valori oggettivi della lingua, che è un patrimonio non plasmabile a capriccio: ecco perché, paradossalmente, la fiducia accordata alla tradizione poetica (riconducibile anzitutto agli snodi rappresentati dalle esperienze magistrali di Orazio, di Petrarca e di Pascoli[2]) si risolve in una mozione a favore del mondo, come se la poesia non dovesse essere inventata, ma fosse già lì, pronta a essere riconosciuta.

Da ciò deriva la gioia della nominazione che si concretizza in strutture di coordinazione e nel ricorso al polisindeto, in sequenze interrotte da frequenti fioriture emotive (esclamazioni, domande, espressione di stupore), come ha rilevato Galaverni. Da qui nasce il senso animistico con cui il poeta si rivolge alle cose e, come un fanciullino, le interpella.

Eppure, l’«aura di innocenza, la gioia di un’epifania o d’una visione, la prospettiva che s’indovina nella memoria dietro ogni sguardo presente, non cancellano l’inquietudine del mancamento», ha osservato Febbraro. «La casa del poeta reca anch’essa i segni della storia: l’infanzia che pascolianamente rappresenta può essere recuperata solo a partire dalla sua perdita».

Il ricorso a urticanti (per la sensibilità moderna) e iterati diminutivi, la pretesa di una candida immediatezza («Tu dici: perché scrivi a ruota libera / i versi, non ti sembra che dovresti / meditarli di più, farli più densi / di contenuti?… […] non sei tu tesoro / a dirmi queste cose, ma è una voce / dentro di me»), le inflessioni patetiche e svenevoli, conducono a un’implicita estenuazione del poetico, che insieme a un’esuberanza percettiva creano uno stato di euforia, di ebbrezza – al di qua della quale, peraltro, tale poesia non può che essere respinta. Con ciò, si prenderà coscienza del fondo doppio che essa nasconde: come un senso di tristezza di fronte alla constatazione che la nostra fede nelle cose coincide con un atto di autentico nichilismo: «Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà, / che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano». La profondità ambigua di tale bellezza risulta a questo punto evidente, e inquietante.

Ha probabilmente origine qui il senso di eroismo della poesia di Damiani, portato a galla con più veemenza nell’ultima raccolta, intitolata appunto Eroi. In tale libro, egli raggiunge sicuramente gli esiti più convincenti. Le sue prime opere, infatti, sollevavano il dubbio della costruzione e della chiusura in una personale arcadia (rischio che in effetti cercava di scongiurare sottraendo, a partire dai testi più recenti della Miniera, i suoi versi al loro habitat per costringerli a un confronto con la storia, e piuttosto al mito). Malgrado questo tentativo, allora ancora involuto, il dettato restava infarcito di forzature manieristiche, che andavano dalla citazione alle più discrete e raffinate inversioni sintattiche e, soprattutto, alla coraggiosa ma estremistica ripresa della lingua della tradizione (per gli arcaismi lessicali e grafici basti la citazione di un brano emblematico: «Il mio tesoro viene ogni mattina / al suo giardino e di cure lo copre / d’ogni genere e d’opre: qua una stipa / leva, là un sasso allontana, qui uno / stelo paziente districa, poi a lungo / tutto lo mira stupita e lo guata / ferma reclina sui piccoli fiori / ad arco, muta coi riccioli d’oro / che quasi toccan le punte dei petali…»; con il finale: «Questo è il giardino; se lo guardi è forte / il lume che ti fere gli occhi / e ti rivolti, ma subito apprendi / che tutto è vero, ogni cosa che vedi / è vera, e svolge la vita nel tempo / e è intera…».). Il risultato era di creare una sorta di crepuscolarismo sereno, tenero e non lagnoso.

Ora, con la seguente raccolta, gettando anzitutto sui familiari lo sguardo inquieto, animato da una dolorosa felicità del vivere, Damiani dà voce all’eroismo quotidiano che regge l’umanità nel suo effimero passaggio terrestre: il tema della morte è assolutamente centrale, per quanto essa venga indagata e disarmata con il disincanto di un fanciullo, con la disillusione di chi non vuole, perché sa di non poter, opporre resistenza. E, finalmente, riesce a farlo riducendo al minimo la maniera, semplificando il linguaggio, insomma ripulendo il dettato da tutto quello che risuonava ancora palesemente letterario. Ciò non significa che abbia rinunciato allo choc generativo che si fonda su quell’anacronismo, su quell’atto di fede nella poesia di cui si è ampiamente detto; semplicemente, adesso si riconduce tutto a una dimensione più profonda. Il poeta raccoglie quasi completamente tale choc nella pronuncia, limitandosi semmai a riproporre il proprio antagonismo alle involuzioni della modernità parlando di Ade, di patria, di eroi, insomma trovando idoli ad altro livello. Inoltre, i nuovi esiti della sua poesia accolgono, sebbene con estrema discrezione, anche un leggero soffio metafisico: gli episodi di vita quotidiana lievitano, facendo propria una minima aura allusiva. Se prima l’autore vigilava per non cedere a momenti di riflessione che staccassero lo sguardo dalle cose, ora sembra invitare il lettore, alla fine del componimento, ad alzare gli occhi e a meditare su ciò che è stato suggerito surrettiziamente. C’è dunque un acquisto di profondità e ciò risulta evidente nella prova di poesia visionaria compiuta nel capitolo L’isola natante e negli immediati dintorni di esso. Si tratta di una ripresa del tema (dantesco, non solo classico) del dialogo con i morti (tentativo peraltro maldestro in alcuni passaggi), che può ricordare certe esperienze contemporanee come Il cimitero dei partigiani di Mussapi. Con un rapido trapasso onirico, il poeta sente la propria isola muoversi e, prima di imparare a congedarsi da essa e lasciarla al suo viaggio surreale, incontra e dialoga con le ombre dei defunti. Il primo gli si presenta e dice, con esiti involontariamente comici: «Salve, sono Leone Damiani».

Resta comunque intatto il dubbio che la vera sfida sia recuperare una pronuncia semplice e potente attraversando il Simbolismo (inteso come ripiegamento dell’arte su di sé per una presa di coscienza fondamentale), non restandone al di qua. La crisi di identità della poesia va risolta, non rimossa. È la scommessa di una poesia che, senza far violenza alla natura, anzi interpretandola, participi davvero alla creazione, sia opera responsabile dell’uomo, non soltanto stupore infantile.

(da Poeti nel limbo)

[1] Umberto Fiori, rec. a La miniera, «Atelier», II, 7, sett. 1997, p. 65.

[2] La figura di Pascoli è diventata sempre più significativa per la scuola romana e per Damiani in particolare, come dimostra il suo saggio Pascolo dopo il ’900, apparso su «Nuovi Argomenti», n. 8, Quinta Serie, ott.-dic. 1999, pp. 110-119. Ne riporto i passaggi determinanti: «Ho detto Salvia e Tripodo, ma tutto il gruppo di giovani scrittori che ruotavano intorno alle riviste Braci e Prato Pagano era coinvolto in una sorta di rinascenza pascoliana. Sentivamo, chi più chi meno, che Pascoli non era stato capito, e che noi finalmente lo capivamo» (pp. 110-111); «Più che pre-novecentesco, come è stato definito, io penso che Pascoli sia, invece, anti-novecentesco, ossia che faccia parte a pieno titolo del ’900, ma sia in polemica con lui. O forse, a giudicare da questo risveglio di interesse ora a fine secolo, potremmo pensare che Pascoli sia, addirittura, post-novecentesco» (p. 111); «Ma più che di edificazione della nuova Italia c’è in Pascoli un’idea di edificazione in senso assoluto, che non ha niente a che fare con la patria nazionale. Per dirne meglio il senso ho bisogno di un altro concetto che usavamo tantissimo ai tempi di Braci, quello di lingua. Già, che cosa intendevamo con lingua? Se adesso volessi darne una definizione direi proprio questo: dire la cosa senza voler esser essenziali. Dire la cosa ma seguendola, amandola, accarezzandola, con affetto schietto, netto. Edificazione come scoperta dell’esistenza delle cose, come conoscenza, e amore, dei loro contorni, della loro natura. Lingua, dunque, come dicibilità del mondo. Ma dicibilità perché il mondo esiste, viene prima e fonda la lingua» (p. 112); «Il ’900 è succube della lingua (e della lingua di Pascoli). Assume tutto come dato, per lui la lingua è sacra, intoccabile. E il poeta impotente (le “fruste voci di dizionario” di Montale). Sente che deve scrivere nella lingua “vera”, ha orrore della lingua letteraria. Non ha il coraggio di dire ciò che Pascoli è l’ultimo ancora a dire: il poeta scrive in una lingua letteraria, poetica, artificiale, morta» (p. 113).

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