Stefano Dal Bianco

Poeti contemporanei: Stefano Dal Bianco

C’è, congenita alla nostra cultura occidentale, la sottile tentazione del suicidio, la malia dell’annullamento, il desiderio della scomparsa. Su tutti gli esempi possibile, campeggia il silenzio di Rimbaud, con la sua fuga o forse con il suo affondo nel mondo, dopo essersi spogliato degli infingimenti dell’uomo di lettere. Di questo enigmatico desiderio di sparizione (che talvolta giunge al feticismo di una poetica di oggetti, al più sottile anelito all’anonimato, alla regressione in un ambito culturale ai margini della contemporaneità) ci parla Dal Bianco. Questo, precisamente, è il tema che pare dominare la sua opera, processo alchemico al cui interno è possibile giocare la decisiva partita con sé stessi, in modo asettico (ma subendo naturalmente la seduzione di passare ai fatti). Per questo il suo minimalismo e il suo classicismo addirittura petrarchista, esibito fin da La bella mano, assumono connotati funebri.

In effetti, la poesia introduttiva di quella raccolta era già chiarissima, pur nella laconicità sibillina: «Per quanto sia stretta la nascita e la morte qui / ti lascio il posto, ti assicuro / farò come se tu ci fossi, / quasi per distrazione». Al di là del corsivo e del “tu” di ascendenza montaliana, il poeta afferma risolutamente che la dimensione vitale, tra la nascita e la morte, nel qui della scrittura, finisce per coincidere con la scomparsa del soggetto: il dramma è allora tutto in quel «come se» che congela l’ipotesi nello spazio di una finzione tragica, di un inganno che l’intelletto continua a nutrire, «quasi per distrazione» (e non sfugga la potenza dell’ultima parola, che ritroveremo nella raccolta più recente come titolo di una sezione).

«Ora tutti i poeti hanno creduto all’uscita dalle gabbie storiche e dalle ansie affettive del soggetto e ne hanno elaborato varie forme», ricorda Cesare Viviani nella prefazione al volume, ma nel caso di Dal Bianco «questa soggettività crede alla poesia come spazio in cui si dà la trasformazione dell’io». (A ben vedere, questo potrebbe rappresentare un sottile filo che congiunge l’opera poetica dello stesso prefatore a quella del più giovane poeta, benché naturalmente il tema della sparizione dell’io nella scrittura sia svolto dal primo con modalità differenti). Ora, per coerenza e sincerità, Dal Bianco non sfrutta tale questione cruciale per ripristinare la centralità del soggetto in modo surrettizio, ovvero esaltandone espressionisticamente la lotta contro sé stesso. Il campo di battaglia, quindi, non sarà a livello dei contenuti, ma a livello della forma: «l’enunciazione non vale per le qualità dell’enunciato, ma per il battito che è, per le limitazioni che ha, per la voragine che ogni volta spalanca in sé», annota ancora con acutezza Viviani. Ecco perché La bella mano risulta una raccolta sfuggente, come un terribile specchio del nulla.

C’è, in questo atteggiamento, una precisa consapevolezza critica: «Siamo qui a vedere, eravamo / malati. Siamo qui a parlare, / camminiamo indietro, non c’è più / neanche la nebbia». Dopo le nevrosi del personaggio novecentesco e le sue figurazioni sempre più degradate, questa generazione di poeti giunge al grado zero e consuma il «male di vivere» in una chiarezza assoluta, come se ci si trovasse in presenza ormai di un autonoma. E tutto questo si compie senza nemmeno lasciare troppo spazio alla speranza: «non so se i prossimi miglioreranno».

Si sta qui, naturalmente, forzando l’interpretazione di versi quasi incolori (a parte rari barbagli surreali: «Ho questi vermi e nella bocca, la clavicola / fra le mani gronda»; «Nella gola i cavalli hanno criniere»), giostrati su equilibri delicatissimi (secondo la poetica dello scarto minimo, nome della rivista che Dal Bianco ha diretto con Mario Benedetti), ma basterebbe riprendere qualche dichiarazione teorica dell’autore per avallare questa lettura. Ci troviamo di fronte, in questa poesia, a un protagonista giunto allo stadio terminale, in cui tuttavia ricompaiono spesso i sintomi riconoscibili delle nevrosi novecentesche: «Perché non viene / questo tramonto o questo mezzogiorno / non mi riesce di piangere, / se l’unghia e il polso passano la luce, / devo pensare poco». Un protagonista malato di intellettualismo, ipersensibile, saturo di cultura, spesso relegato in uno spazio magrelliano di estremo controllo rappresentato dall’ambiente interno («In camera le cose vanno bene, sulla strada / si parla per metafore»), in sottile opposizione con l’esterno, dove spesso si incarnano, nelle epifanie della natura, le pulsioni di una «volontà cosmica» (Viviani), di una forza cieca che oscuramente rappresenta il luogo consacrato a un’esistenza realmente libera.

Questa contrapposizione fra interno e esterno si illimpidisce nelle Stanze del cattivo gusto. Ecco due fra i testi più belli della raccolta, dalle movenze che possono anche ricordare la poesia di Riccardi:

Io sono nascosto dalle piante, ogni giardino
copre altre persone, e io conosco male
chi cammina con il vento sulla strada.

Di notte la casa è scoperchiata
e con il buio entra la polvere
e io sento precisa la mia vita

* * *

Viene silenzio con l’inverno
con la forza del grappolo e dell’uva.
Come la regola di un’arte
il mio tempo è lontano.
Non mi difenderanno sempre queste stanze.

Sembra quasi che ci sia un sussulto di vita nella forza maggiormente icastica di questi versi: si vedano per esempio le poesie che iniziano perentoriamente con un imperativo: «Guarda», «Prestami», «Conoscimi». Ma si tratta, appunto, di un’azione invocata. Coessenziali ai versi sono sempre gli spazi bianchi, le intercapedini di silenzio che definiscono l’architettura della raccolta, non senza avanzare qualche suggestione orfica, rafforzata dalla sua esplosione attutita: «Quello che non è scritto è il mio / cattivo gusto. / Lontano ardono i morti».

La ricerca di una pronuncia atonale, che sostanzia una voce puramente psichica, permeabile a qualsiasi esame esteriore, conduce al paradosso di mettere in scena un classicismo senza modelli, vuoto, con la necessità di trapassare dalla poesia alla prosa con totale disinvoltura, per non dare adito nemmeno a una ricorsività distintiva tanto generica come l’inarcatura versuale. In tal modo, si vuole rafforzare il senso stesso della scrittura, ripristinare l’orrore che dovrebbe scaturire dalla ferita del gesto arbitrario dell’inarcatura versuale o, in questo caso, della sua assenza. La vigilanza ossessiva, la mania di controllo, ha bisogno di mantenere in vita l’assurdo, il mostro celato dalla parete. La definizione di ogni geometria (l’abitare fisico o il consistere nella scrittura) risplende alla luce di uno spavento della ragione. E in questa compenetrazione tra poesia e prosa il lavoro di Dal Bianco è davvero solidale fin dalla superficie testuale con quello di Benedetti (mentre la consonanza tematica gira attorno al tema dei morti).

Ma, se la pronuncia del poeta deve farsi permeabile a qualsiasi esame, nessuna fissazione è tollerabile, non solo quella fra prosa e poesia, ma anche quella fra interno ed esterno, e infine fra vita e morte. È ciò che ci ricorda la poesia introduttiva della nuova raccolta poetica, Ritorno a Planaval: «Il pesco fiorito tra i cumuli della città di Milano non è l’idea della vita che vince il cemento ma solo un’aria di cemento, una vita di cemento nel pesco, la mia vita. La nostra vita elusa sopra i tetti». Dopo questo attacco lineare, ancor più sorprendente perché all’inizio dell’opera, ecco la verticalità dei versi, nello stesso testo che, come nei casi dei libri precedenti, ha forse un grado in più di densità e di mistero, qui ritualizzati nella rassegna degli arcani «sensi» della percezione fisica (tema che impronta il libro) e dell’interpretazione dell’opera. Chiude, con un’impennata evidente fin dalla discreta ma suggestiva allitterazione, una dichiarazione esplicita: «Umanità minuta, / della stessa sostanza del mio cuore, / fammi dei morti e io sarò salvato».

Bisognerà attendere, però, la fine del libro, prima di imbatterci in un altro testo (sempre isolato), altrettanto ricercato nella struttura e nel gioco interno degli specchi, volti a dissimulare, in certo senso, tutte le acquisizioni che parevano fissarsi di pagina in pagina.

Ben riconoscibili, infatti, nell’ottica dell’analisi delle raccolte precedenti, sono le sezioni che costituiscono il corpo di Ritorno a Planaval, benché questa terza uscita di Dal Bianco segni uno sviluppo più marcato della sua ricerca (attorno al dato macroscopico di componimenti immediatamente intelligibili e più lunghi). Per esempio, i titoli delle due sezioni che seguono il «limite» di partenza, rispettivamente Una vita nuova e La distrazione, ci riportano in contatto con una poesia che ammicca a qualche precedente letterario celebre, per via di scarti minimi (come per esempio l’articolo indeterminativo sulla matrice di un titolo dantesco), oppure tramite la ripetizione di una parola tematica (che peraltro è titolo anche di una poesia di Una vita nuova), fissata al primo incontro con i versi di questo autore. (L’attimo della distrazione è quello in cui interno ed esterno, libertà inconsapevole della natura e controllo della ragione si abbracciano: «Una volta, guardando un ramo, o un passero, o una foglia stagliarsi oltre la finestra, era sempre aperta la possibilità che ramo, foglia, passero uscissero dai loro contorni, facessero corpo con noi, con l’aria tra di noi»). Lo scenario della vicenda, come possiamo attenderci, è di un minimalismo radicale: si racconta di un trasloco, di attimi contemplativi suscitati da oggetti o scorci domestici, di incroci ossessionanti di sguardi e di pensieri con la compagna o soprattutto con i vicini muti, sguardi e pensieri che si annodano sempre in una condizione di nevrotica consapevolezza, rivolta tanto all’atto della scrittura (l’autore, magrellianamente, si vede scrivere, e ne sopporta la colpa: «È una specie di rigurgito, di cui mi vergogno») che al pensiero stesso, come con la signora spiata in una schermaglia di sguardi, eroicomica vicenda di un uomo senza qualità: «Questa sera ho vinto. […] La mia forza è che io ci ragiono sopra: la signora non regge, non si fa tutti questi pensieri e men che meno ne scriverebbe. Ma stasera forse la signora è partita veramente. Se n’è andata al mare e mi ha lasciato qui come un cretino». Questi dati impediscono, in effetti, di dare risalto alla vita nuova: lo scarto evolutivo è anche questa volta minima. Sul versante del tema della percezione, paradigmatica è la poesia Il vetrino: in una scrittura di così fervente minimalismo da affidarsi a una rigorosa, quasi ascetica legge dell’inversamente proporzionale, che rovescia il quasi nulla esperito in una luce introspettiva prossima all’assoluto, il residuo insignificante si trasfigura in emblema cosmico. Ma la collezione di tutti questi quadri domestici e banali avventure dello sguardo e del pensiero sollevano il dubbio che qualcosa della poesia di Umberto Fiori sia qui entrato, magari in sostituzione dell’ingrediente magrelliano finora annotato. Certe aperture poetiche, del resto, e certe strutture testuali, a mo’ di esempi sospesi, sono più che sospetti: si veda, in queste sezioni, la poesia Il rumore. Ma anche i titoli, a dire il vero, nella loro sinteticità, sarebbero un altro indizio, così come gli scorci cittadini della terza sezione, Fuori di casa, o quelli paesaggistici (in un crescendo di apertura dell’orizzonte percettivo) di Marine, con il poeta nella condizione di un moderno flâneur in vacanza. In questo crescendo, il mondo circostante finisce per comporre lo spazio della morte, di una morte finalmente entrata a far parte della vita come suo ambiente naturale. È quanto viene efficacemente espresso nella prosa Il posto di Nelly (alla quale era già dedicata l’opera prima di Dal Bianco), che riproduce in un solo testo la dilatazione suggerita dal percorso della raccolta: «Tutto un mondo-Nelly anche fra me e le pareti del salotto, fra me e il divano, fra la mia mano e la tastiera […] Adesso che sei dappertutto è una vita da cani. Ti sei minuziosamente consustanziata al divano, all’impianto stereo, al tagliacarte e perfino alle cose che non esistevano prima di te, che sono nate dopo, con l’avanzare della mia vita […] e ti riconosco perfino sulla facciata del palazzo grigio che non sarà a meno di un chilometro dalle mie finestre, ma ti riconosco è dire troppo, sarà meglio dire che ci sei, che sei grande come il mondo e forse anche di più».

L’itinerario sinteticamente delineato non fa che caricare di attesa l’ultima sezione, che dà il nome alla raccolta, come se il poeta trovasse nel villaggio valdostano di Planaval un approdo, nel grembo della natura: «Come una trota che risalisse la Dora / vengo di nuovo nell’azzurro / alla tua pace senza forze». Ma quella che sarebbe una meta serena, dentro un paesaggio di monti e lune e azzurri e alberi, rivela presto la carie del pensiero che si insinua anche fra le pieghe di questo scenario, come nell’emblematica (fin dal titolo!) Natura morta: «Ci sono piante che una volta strappate appassiscono subito. Così la menta cede la sua forza a chi la coglie […]. La maggior parte delle piante invece qui resiste a lungo […]. Di queste si compiace la vista, anche se il nostro cuore batte per le prime». Solo nell’ultima poesia della sezione il poeta, direttamente rivolgendosi all’autore, rivela (ri-velandolo) il proprio ubi consistam: «Adesso mi rivolgo a te che per amore vero verrai qui, sul filo delle mie parole scritte». Si tratta di un altro gesto di primo acchito eclatante, ma gli intenti esibiti di radicale novità della raccolta sono rimastri frustrati nella lettura. Il ripiegamento del pensiero su di sé si compie abbracciando, infine, l’intera opera: «Così, per questo, adesso mi rivolgo a te per dirti / che se per caso ti sarà sembrato / di trovare nuova ogni cosa, / allora vorrà dire che mi sarò sbagliato / o non mi avrai amato a sufficienza». La schermaglia di sguardi alla quale prima assistevamo, tra il protagonista e la vicina, ora chiama in causa il lettore senza mediazioni. E così accade pure nella poesia posta a limite estremo del libro (Poesia che ha bisogno di un gesto), un monologo giostrato cervelloticamente sulla difficoltà di comunicare, rappresentata dall’atto di porre una ciotola di sassi fra il protagonista e gli ideali astanti. Questi sassi diventano il correlativo delle poesie e della realtà che infinitamente sfugge al nostro dire, del nostro imbarazzo di fronte alle cose inerti («Noi dobbiamo stare con i sassi. / Sono una cosa del mondo»), come se l’unico luogo in cui veramente risulti ancora possibile il dialogo fosse il silenzio stupito di tutti al cospetto della morte: «Adesso io starei qualche secondo in silenzio, pensando ai sassi».

Nel classicismo di Dal Bianco pulsa dunque il desiderio della scomparsa, che si concretizza nel progetto di una fuga dallo stile, ultimo idolo in cui l’io può trovare ricovero: come nel silenzio in cui si ritira la voce teatrale di fronte alle pietre.

Ma dove può condurre ancora questo gioco di specchi così profondamente novecentesco? Qual è il varco per cui scappare dal labirinto della vita e della sua consapevolezza, talvolta così atroce? Se questo «diario» (è la definizione che il libro dà di sé stesso in alcuni passi) riconduca in una torre d’avorio iperletteraria o apra all’inferno dell’esistenza (se mai sia sensato distinguere le due soluzioni), non è dato sapere, ma su questo crinale si attenderanno le prossime prove dell’autore.

(da Poeti nel limbo)

 

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