La rivista Atelier

Paradigma Atelier

Questo testo era stato preparato per il convegno organizzato a Firenze da Atelier, per celebrare il ventennale della rivista (La critica letteraria oggi: la fucina ventennale di Atelier). È ora accolto nel fascicolo n. 85 della rivista (marzo 2017).

Mi viene chiesto, per l’occasione celebrativa del ventennale di Atelier, di volgere lo sguardo indietro e di offrire un resoconto del lavoro critico svolto nell’ambito della gloriosa esperienza di questa rivista. Si potrebbero passare semplicemente in rassegna certi numeri speciali, i miei libri di critica che hanno poi raccolto il lavoro sparso su quelle pagine, ricordare le incursioni nel web e tutto il lavoro di scouting rivolto in particolare verso la generazione dei Settanta, ma senza disdegnare acquisizione di voci significative che hanno definito sconfinamenti su qualsiasi generazione.

Si tratta, però, di dati già abbastanza noti tra gli esperti e comunque facilmente reperibili da eventuali interessati. Mi sembra allora più proficuo cercare di definire il “Paradigma Atelier”, evitando una lettura puramente celebrativa a vantaggio di un ripensamento interpretativo. Cercherò quindi di spiegare quali tratti distintivi abbiano caratterizzato e orientato il lavoro critico compiuto su quelle pagine, in particolare gli ambiti direttamente riferibili al sottoscritto (la rivista, come è noto, ha avuto una duplice direzione e Giuliano Ladolfi si è dedicato in particolare alla teoria e alla rilettura del Novecento, a partire dai “classici” contemporanei). Procederò sinteticamente per punti, come mi è stato richiesto.

  1. Anzitutto, l’impegno di Atelier nasceva da una constatazione (tale, almeno, era la percezione di chi scrive): non esisteva più una critica militante seria e costruttiva. La critica accademica era attardata su temi, voci e strumenti incapaci di monitorare la poesia contemporanea, socialmente ed editorialmente affossata. Ciò che di saliente si poteva riconoscere nel dibattito (scomposto, estemporaneo), che solo l’occhio di un cultore appassionato rintracciava, scadeva a polemica partigiana, precipitava immediatamente nella rimozione complessiva (andando, semmai, a nutrire l’humus segreta su cui i poeti poi muovevano i loro passi). Serviva un luogo che garantisse un impegno prolungato negli anni, per cominciare a dare una forma alla contemporaneità, attraverso una pratica interpretativa allo stesso tempo militante e accademica, ovvero critica, criticabile e costruttiva.
  2. Costringere la cultura accademica a scendere nelle trincee della militanza significava assumere una prospettiva decisamente glocal: pensiero globale applicato a una dimensione artigianale. Penso ad Atelier come a un’anomalia di sistema, che ha proficuamente vissuto a cavallo tra l’epoca delle ultime riviste cartacee e le nuove realtà del web. “Anomalia”, dico, perché si è trattato di un periodico che non si è appoggiato a un editore o a una rete già esistente. Atelier è un’avventura che partiva realmente dal basso, pur guidata da una visione globale. La sua debolezza poteva diventare la sua forza, ovvero la garanzia di credibilità e indipendenza. Oggi, molto più comodamente, le voci che, partendo dal basso, puntano dritte e consapevoli al cuore del sistema, si muovono direttamente nel web: ma questa comodità si paga in termini di autorevolezza e si scontra con tutti i limiti di una realtà (quella di internet) ancora troppo liquida, e liquidabile. E gli autori restano monadi funzionali al sistema stesso.
  3. Lo sguardo critico si era subito applicato sul punto di rottura della tradizione, ovvero sui poeti giovani di allora, quelli del tutto ignorati dalla critica ufficiale. Si tratta della generazione che ho poi descritto in Poeti nel limbo, nati negli anni Cinquanta e Sessanta, in grado forse di produrre opere non inferiori, in molti casi, a quelle dei poeti allora più riconosciuti (Cucchi, Viviani, De Angelis, Magrelli, Conte…), ma incapaci di elaborare un pensiero sulla poesia o anche solo un impegno non individuale che si facesse riconoscibile.
  4. Tutto ciò è stato ovviamente inquadrato in una prospettiva generazionale, benché Atelier fosse molto di più di questo. Interpretarla come l’espressione di una nuova leva di poeti che volevano raggiungere la notorietà è semplicistico, infatti non spiega perché tanta energia si sarebbe dovuta spendere a favore di una generazione precedente (quella “del limbo”, appunto) che poteva rimanere ancor più proficuamente negletta; e non spiega nemmeno perché gli autori allora in auge fossero per la prima volta oggetto di una critica serrata, anche forte e fuori dal coro, e per di più agguerrita filologicamente (mentre il successo di quella generazione, figlia del divorzio che si era storicamente consumato fra Università e cultura militante, era per lo più meramente giornalistico ed editoriale). Insomma, Atelier non poteva non incappare in chiavi di lettura puramente “local” della sua esperienza.
  5. L’investimento di visione e di prospettiva era invece più alto, ma il punto di applicazione scelto è risultato infruttuoso. La generazione del limbo si è sclerotizzata in una minima visibilità di sopravvivenza. I giovani del Settanta si sono lasciati catturare dalla smania e dall’eccitazione di quel frangente, che sembrava favorevole al loro successo (tante antologie a loro dedicate segnalavano la fretta di registrare una novità, un movimento vitale e propizio). La mancanza di un nucleo ideologico o poetico è risultata determinante: il cardine etico non ha tenuto. Il contesto ha vinto. L’opera comune ha sfondato qualche barriera ma, invece di crescere in coesione, si è dispersa, adattandosi al panorama.
  6. Dunque, siamo tornati al punto di partenza. Le voci contemporanee sono misconosciute, l’eventuale successo sporadico di qualcuno sembra quasi casuale, perché nessun Discorso Critico riesce a restare in piedi, nella società attuale. L’opera comune è stata risucchiata nel limbo e qualsiasi aggiornamento della tradizione finisce in un lembo sfilacciato, in un elenco vasto e variabile all’infinito.
  7. Personalmente – ma questo, al fine, lo dico davvero a me stesso – credo che l’opera sia ancora possibile e che forse i libri di (ri)fondazione di un nuovo scenario siano già stati scritti o si stanno scrivendo. Del resto, dopo tanto lavoro critico, svolto per colmare un vuoto storico, l’unico margine che mi interessa, adesso, è la scrittura creativa. Perché un’opera (qualora ci fosse) possa venire innescata, occorrono anche i lettori e le condizioni storiche adatte. L’innesco tentato da Atelier è fallito. Ma resta un fallimento glorioso. E, forse, si rubricherà un giorno fra i fallimenti che hanno pur contribuito a preparare un vero e radicale cambiamento di scenario: un nuovo *Rinascimento…

 

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