Silvia Bre, fotografia di Dino Ignani

Poeti contemporanei: Silvia Bre

(La fotografia in copertina è di Dino Ignani.
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Le barricate misteriose è titolo che promette qualcosa di battagliero, una pronuncia frontale e impegnata, benché si intuisca già nella connotazione data dall’aggettivo una sfumatura attenuante. Infatti, leggendo il volume, ci si trova di fronte a una scrittura raccolta in una specie di stupore sospeso. Lo spazio che si apre innanzi alla barricata è «un campo di silenzio», non ci sono slanci combattivi, dal momento che mancano persino i nemici. La promessa del titolo si scioglie pertanto in un senso minimalistico di resistenza al divenire, al passaggio quotidiano dell’esistenza. Ci troviamo coinvolti in un eroismo privato, persino squisitamente femminile in taluni accenti e pose. Già le sigle interne delle sezioni smentiscono l’impennata del titolo generale, a partire dal più importante di essi, I riposi, che suona come un invito a «concedere un’apertura ai tempi morti, agli spazi inconsapevoli, alla consapevole incertezza, all’imperfezione», come ebbe a dire a suo tempo Giuliano Donati.

I componimenti sintetizzano in un elegante equilibrio due elementi fondamentali: un discreto gusto formale che, per l’esattezza musicale di alcuni versi (soprattutto endecasillabi) e per le preziose inversioni sintattiche (come per esempio nell’attacco: «Ma quali più avventure schiuderanno») si può definire classicistico; e un andamento libero e leggero, a tratti apparentemente svagato (nelle sprezzature di qualche verso volutamente inesatto all’interno di una sequenza quasi perfetta). Tale equilibrio conferisce alla scrittura un carattere moderno e tradizionale, piano e fruibile; a tratti, in certi appoggi del discorso alla seconda persona (quel “tu” che funge da interlocutore e insieme da proiezione per l’io), si risente la lezione di Montale. Anche l’uso delle rime si conforma a una regola di estrema discrezione, così come tutti i contrappunti fonici interni restano lievi, appena percepibili. Per esempio, nella poesia Ascolta, un viale avevo…, la rima di chiusura dita : vita libera musicalmente il testo, anziché suggellarlo, dopo i più allusivi richiami interni fra rose : amorose : cose. In altre circostanze, invece, qualche rimbalzo di suono svolge una funzione di rilancio del componimento: «E dunque il mio partire non riposaosa, s’alza», «d’un invito / non udito mai», «è già caduto / perduto rincorrendo». Ma per un esempio sufficientemente rappresentativo del sottile riverbero eufonico interno alla voce di questa poesia, si può citare per intero un testo:

 

Chiamo, ed è qualcosa o l’universo
a farsi avanti sterminato – a stare

quieto, interrato, come se fosse
il mio grande inverso
da scavare piano, con il timore

che alzi una mano prodiga d’attesa
le dita luminose,
.                               e dica: siamo –

la formula paurosa della vita.

Se alcune rime interne potrebbero dirsi di primo acchito casuali (sterminato : interrato), cominciano ad acquistare pregnanza a cospetto dell’analogo riscontro fra piano : mano. Evidente invece è la rima, nella sede esterna canonica, fra universo : inverso, così come la rima di chiusura, già rinvenuta altrove, fra dita : vita, in questo caso puntellata dall’assonanza intermedia con dica. Tanta ricchezza di richiami in un testo breve conferisce una certa rilevanza anche all’altra ripresa spontanea di due verbi all’infinito stare : scavare. Ma, senza insistere in altri possibili dettagli fino a un’analisi viziosa, il vero, più profondo contrappunto affiora nella rilettura complessiva, che prende l’abbrivo da un chiamo isolato, quasi a congelare lo slancio dell’apertura, e si chiude (prima dell’endecasillabo che suggella il componimento svelando la «formula») nell’altrettanto isolato e perentorio siamo. Ecco, in questo movimento musicale si esprime il senso di stupore sospeso che contraddistingue la raccolta. Del resto, non mancano anche dichiarazioni esplicite a definire la resistenza privata dell’autrice: «So a cosa penso: al verso buone e chiaro / che cerco di comporre […] La mia conversazione con la vita / può solo somigliare alle parole / che tentano un momento di quietarla». In questa dimensione di conchiusa e delicata sensibilità, «Non è accaduto nulla di più vero / del passare del tempo / fino a che il giorno è diventato intero».

E tocchiamo con ciò il limite del libro, quel restare, della voce, protetta dietro alla barricata, come se l’ardore del tempo che si consuma restasse attutito, come se l’autrice trovasse la condizione prediletta nell’osservare la vita dietro «ai veli d’una finestra», incapace di corrispondere a un «invito» (parola che mi sembra davvero cardinale), conchiusa entro la sfera di un estenuante ascolto: «Ci vorrebbe del tempo per spiegare / che allargando lo sguardo / si sparisce, e quanto è bene». In particolare, proprio con il tema della sparizione, Silvia Bre dà sfogo a una fragile sentenziosità dickinsoniana, che fa leva su una ritualità semplice e domestica: «stringo il mio tempo in un cerchietto scuro / come lego i capelli la mattina», «a noi che del tempo eseguiamo / le parti modeste», «abitudini care / che mantengono il mondo». Non è un caso che venga ospitata al centro del libro una traduzione da Emily Dickinson. La forza suggerita dal titolo della raccolta, quindi, è la stessa delicatezza di un poetare per minime cesellature, per frammenti che naufragano nella convinzione che «ferma è la vita», se non addirittura «inutile, ignota». Legati «al tempo / come a una carovana nel deserto», questi versi ci raccontano, con una sobria e un po’ vacua eleganza (talvolta crepuscolare, persino nei temi), la muta rassegnazione del vivere.

(da Poeti nel limbo)

 

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