Narrativa d’oggidì: Gianluca Morozzi
Asimov, King, Hornby, Bukowski… Gianluca Morozzi dichiara subito gli autori prediletti, che lo hanno spinto alla scrittura
Perché scrivi?
Bella domanda. Perché a dodici anni ho letto l’autobiografia di Isaac Asimov e ho pensato “lo voglio fare anch’io, questo mestiere!” Perché due anni dopo ho letto La lunga marcia di Stephen King e ho pensato “Lo voglio scrivere anch’io, un libro così!”. Perché a ventisette anni ho letto Alta fedeltà di Nick Hornby e ho pensato “Questo forse lo saprei scrivere anch’io!”. Oppure perché, come diceva Bukowski, è il miglior modo di passare la notte che sia mai stato inventato. O perché se avessi fatto un lavoro un po’ più tradizionale, con la sveglia alle sette del mattino, l’avrei fatta finita col cianuro. Magari, semplicemente, perché è l’unica cosa che so fare. E a qualcuno, a quanto pare, piace.
Qual è il tuo scarto rispetto alla narrativa odierna?
Mah… diciamo che io cerco di non avere limiti e di non piantare paletti intorno alla mia scrittura. Non sono della scuola del “si deve assolutamente scrivere del momento storico che stiamo vivendo e dell’Italia di oggi e di Berlusconi”, né della scuola “non si deve assolutamente scrivere del momento storico che stiamo vivendo e dell’Italia di oggi e di Berlusconi”. In generale detesto le grandi affermazioni di principio del tipo “si deve scrivere così!”, “non si deve scrivere così!”. Io sono libero di scrivere quel che voglio come voglio, per fortuna. Vedo molti colleghi che hanno davanti un pianoforte e si ostinano a suonare solo i tasti neri… io non sono ancora all’altezza di inventare sonorità nuove dallo strumento, per il momento, ma i tasti li voglio usare tutti quanti.
Indicami un ingrediente a te caro per l’elaborazione del capolavoro di domani.
Ce l’ho qua, rinchiuso in un cassetto, a doppia mandata. È segreto. Lo vedrete nel mio romanzo del 2012. Se quell’anno non finirà miseramente il mondo.
Strappa un angolo dalla tua veste perché ci si possa fare un’idea del tessuto: autocìtati.
«Mi piaceva una ragazza, volevo impressionarla, per impressionarla avevo scritto un romanzo, nove racconti e trenta poesie. È sensibile all’arte, avevo pensato, di certo la impressionerò con un romanzo, nove racconti e trenta poesie. Lei aveva letto il mio romanzo, i miei nove racconti, le mie trenta poesie. Sei bravo, aveva detto, scrivi bene, io li adoro, gli artisti. Poi si era messa con un ultrà neonazista del Lecce.
Non ho ancora capito dov’è che ho sbagliato.»
Come si forma un’opera nella tua officina?
Io inizio a scrivere un romanzo solo quando ho deciso come inizierà e come finirà. Non sono capace di andare avanti per accumulazione, aspettando l’illuminazione per il finale lungo la strada. Poi amo inventare lungo il percorso dal primo capitolo all’ultimo… Per parlare in senso pratico, scrivo al computer, in casa mia, qualche volta in treno. La prima stesura (se di stesura si può parlare, al computer) è quella orribile, che leggerò solo io. La seconda è quella divertente, in cui aggiusto, rimonto, taglio, incollo, magari faccio leggere a qualche amico fidato, o alla fidanzata del momento. La terza è quella che mando alla mia agente.
Qual è il tuo maggior cruccio, rispetto a quanto hai finora scritto?
Nessuno. È andato tutto nel migliore dei modi, fin qua. Anzi, sì: avrei voluto che L’era del porco diventasse un film con un’attrice italiana bellissima e tormentata nel ruolo di Elettra, io sarei stato sul set come sceneggiatore, io e l’attrice avremmo iniziato una storia d’amore complicata e torbida dietro le quinte del film, che sarebbe finita in modo teatrale. Abbastanza teatrale da scriverci il romanzo successivo.
La critica più intelligente che hai ricevuto diceva che…
«Morozzi è un narratore nato.»
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