Oltre la struttura lirica (di Roberto Bertoldo)
L’assenza quasi totale in questo libro della “struttura” lirica, però, non deve far pensare allo smarrimento dello stile lirico
Presentando nell’aprile del 1999 su Hebenon la silloge Stelle imperfette di Andrea Temporelli concludevo il mio discorso, che insisteva sul dissidio presente nella silloge tra la poesia, da una parte, e la vita, l’amore e la donna, dall’altra, dicendo che la scrittura, infine abbracciata con coraggio nonostante il suo preteso «alibi», diveniva “specchio del dissidio, dissidio essa stessa”.
Il cielo di Marte, invece, a parte il proemio che però, con i suoi «occhifamelici» e «il coltello del loro amore» che «nel petto scatta a tradimento», è quasi il commiato dal dissidio e dalla liricità, II cielo di Marte, forse perché aperto direttamente su un dramma collettivo, senza negare l’adesione alla scrittura, tuttavia sempre vissuta con responsabilità – e quest’ultimo mi pare fino ad ora il significato più caratteristico del lavoro di Temporelli –, II cielo di Marte, dicevo, si sveste della struttura lirica, ad eccezione di qualche passo qua e là come nella poesia Innominata (occorrerebbe ridiscutere il concetto di “lirica”, troppo riduttivo nel panorama della poesia contemporanea. È per questo che parlo di struttura lirica, perché non si intenda semplicemente soggettivismo ma s’intenda l’operare dal di dentro, attraverso il nostro reciproco rapporto con la natura, la funzione referenziale).
L’assenza quasi totale in questo libro della “struttura” lirica, però, non deve far pensare allo smarrimento dello stile lirico, per quanto presente solo nelle parti di contorno e non nei punti semanticamente cruciali, che comunque non mi sembrano mai in Temporelli quelli nevralgici (così il poeta, a parte i “contorni”, si fa cauto, perché il senso di colpa, evidente in Stelle imperfette, sembra questa volta, da sotto la cenere, costringerlo a separarsi, dal punto di vista della creatività, dall’uomo). Nella gozzaniana Ballata del mese di maggio, per esempio, i cori sono come in Manzoni il luogo deputato all’espressione simbolica e musicale. Chiamo coro il refrain perché in esso il dramma collettivo, che si fa intimo, lirico, è tutto presente, e dico “tutto” perché ne sono presenti l’immagine, il suono, i rimandi simbolici: «Pristina rosa, rosa dolorosa, / stelo ubriaco e vulva spappolata, / dei figli che tu spandi / ne farò marmellata»; una presenza mediata appunto dal poeta, nel quale l’uomo torna dentro anche creativamente, come può testimoniare la sensualità pascoliana e la sua ispida resa sonora, fatta di anadiplosi, allitterazioni, aggettivi crudi e sostantivi eclatanti.
«Scrivere / … quando la voce viene come un tuono», ribadisce Temporelli nel Congedo dopo averlo già rilevato, in modo meno gnomico (c’è un altro verso che mi ricorda ancora nella struttura e nell’invenzione veristica Fiori, modello molto più attivo in Stelle imperfette, ed è nella poesia La città delle streghe che conclude «viene solo / un pianto nero come innanzi al diavolo»), in Agli amici, dal fronte, in un sogno: «un’esplosione / di sillabe pensate apposta / per non uccidere», nonostante ci sia «chi scrive / per uccidere» come ci ricordava il poeta nel proemio. Ebbene questo libro è sì una serie di “tuoni”, e non sempre connettibili, ma lo è non per coltivare un’esplosione mortale o meno, ma perché l’urgenza del “dire”, di fronte alle guerre che incombono come un «cielo», richiama il poeta al mondo, agli uomini, con una scrittura in cui l’elaborazione formale, pur mantenendosi presente come diaspro, non travalichi con la sua durezza la durezza del reale.
(Roberto Bertoldo, «Hebenon», V, 5, apr. 2000, pp. 78-9)
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