Una poesia ostinatamente accampata nella Tradizione (di Matteo Marchesini)
Eppure, il punto di maggior rischio è anche il luogo in cui Temporelli raggiunge talvolta una piena autonomia di sguardo.
Un discorso diverso, infine, va fatto per Andrea Temporelli, nom de plume di Marco Merlin. Temporelli, infatti, ha davvero trovato in Sereni il suo poeta, l’adeguato catalizzatore delle ossessioni di morte che invadono i suoi versi e delle immagini gioiosamente feroci che li solcano, il patrimonio poetico attraverso cui soddisfare la necessità subito avvertita di forgiarsi un timbro insieme dichiarativo e lirico, colloquiale ed “eroico”, privo di paracadute autoironico (si veda a proposito il frequente protagonismo di una terza persona “assoluta”, spoglia, quale proiezione autorevole della riflessione universale dell’Io). Se si aggiunge l’importanza che rivestono per questa poesia la lezione luziana, quanto ad altezza di pronuncia e levigata musicalità, e la ricezione partecipe del segreto, sospeso orrore annidato nei versi di Raboni, si avrà la misura di un punto di partenza che testimonia, assai più degli altri, una necessità autentica nella scelta della propria tradizione.
Sereniane, eppure intimamente legate ai nuclei affettivi di Temporelli, sono infatti l’oscillazione tra le minacciose atmosfere oniriche e la dura resistenza al quotidiano della veglia, l’ossessione della «cecità» e l’immaginazione della propria morte, guardacaso fantasticata anche qui in un’alba milanese, e anche qui incarnata da un sicario che minaccia alle spalle, l’immaginario al limite del macabro, che serve in realtà a dare voce a tutti i sentimenti di saturazione, di orgasmo, di salvifica e a un tempo fatale “pienezza”. Indicativo è poi il fatto che la figura eroica per eccellenza sia quella di colui che è colto nell’atto di scrivere, di prestare «un dolore nuovo a parole di calce», di apprendere, detto in figura, il «lavoro duro» del «parlare ai fiori». In Temporelli, insomma, l’ipercoscienza critica e la scelta di portare sulle spalle un tale peso letterario sono componenti intrinseche dell’ispirazione.
Questa autenticità, se pure permette di partorire testi a volte più solidi, non allontana però i rischi già sottolineati, ma semmai li moltiplica. E non riguardano l’eccessivo stridore del verso, la farraginosità sereniana – riassorbita qui in un dettato più lento e piano, quasi la progressiva messa in luce di quadri coperti da un leggerissimo velo – bensì un’altezza di pronuncia che risente troppo spesso della ormai fisiologica, ma non per questo meno fastidiosa, impostazione preventiva della voce, e in secondo luogo una retorica “onnicomprensiva”, tesa a spogliare le cose dei loro contorni e a unificare i piani del discorso fino a portare il nucleo tematico a un grado di indistinzione tale, per cui ad apparire in evidenza è soltanto il volontarismo etico che una tale poesia, ostinatamente accampata nella Tradizione, rivendica per sé a ogni passo. Eppure, il punto di maggior rischio è anche il luogo in cui Temporelli raggiunge talvolta una piena autonomia di sguardo. Quando infatti i topoi retorici (l’esilio in una terra deserta o devastata, la resistenza dolorosa e comunitaria, la redenzione e la trasmissione ereditaria di una universale “memoria delle cose”, dei doni e delle perdite, il cerchio di una Storia che sovrasta e sospende le azioni e i destini) vengono sussunti in quel limbo che somiglia per metà a una scena da parabola fiabesca e per metà allo spazio naturale e geometrico di un esercizio psicofisico di meditazione e ascesi, evaporano in quanto zavorre, e la poesia conquista una sottile concretezza, non soltanto visiva, ma anzi spesso tutta filtrata dalla tessitura linguistica e musicale, rarefatta eppure non evanescente. Sono questi i casi in cui la confluenza e l’elevazione dei diversi materiali a un piano di uniformità parallelo al realismo non sfocia in indistinzione: qui anche l’opzione morale e comunitaria, pur nutrita di un sostrato pericolosamente mitizzato, acquista spessore poetico, per via di una felice combinazione di urgenze affettive e di un equilibrato gioco delle forze stilistiche in campo.
(Matteo Marchesini, Il pubblico del mito. Ovvero: come il Kitsch sedusse l’Engagement, in Poesia 2005. Annuario a cura di Giorgio Manacorda, Roma, Castelvecchi 2005, pp. 80-82)
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