La generazione da trovare (di Paolo Febbraro)
Generazione è proprio il termine su cui Merlin scommette molto, e non da oggi.
Sono tutt’altro che convinto del fatto che, per trovare un oggetto sfuggente, occorra allargare i fori del setaccio. Accanto alle imprese antologiche, il 2004 ci ha consegnato due volumi critici dedicati alla poesia degli ultimi decenni. In maggio è apparso Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei (1970-2004) (Fratelli Bocca), un volume curato da Gabriela Fantato, che in dieci raggruppamenti tematici propone ottantasette autori, ognuno col suo ritratto critico di due-tre pagine, a cura di critici come Mauro Ferrari, Edoardo Zuccato, Flavio Santi, Simone Giusti, Sandro Montalto o Luigi Cannillo. A dicembre è giunto invece il volume che Marco Merlin ha dedicato ai Poeti nel limbo, con un sottotitolo che recita Studio sulla generazione perduta e sulla fine della tradizione (Interlinea). Il direttore di «Atelier» divide i sessanta autori di cui si occupa in otto sezioni i cui titoli sono mutuati da dichiarazioni di poetica o collocazioni geoculturali, tranne l’ultima, intitolata La felice influenza.
Alla disamina di questo secondo volume saggistico, devo premettere una divagazione apparente, di ordine teorico-pratico.
I poeti vogliono fare quello che pare a loro, ma sempre conservando un margine di socievolezza per rendersi accettabili. Hanno due facce, quella autoctona, espertissima di sé, sordamente egemone, sornionamente tirannica, e quella conciliante, politica, che aiuta a definirli, a sistemarli e a tollerarli, piena per questo di segnali, di rughe, sorrisi e sensi, o anche di tradizioni personali. La prima faccia rappresenta ciò che essi compiono senza dirlo a nessuno, le libertà o le servitù che si prendono nei confronti del loro intimo essere e della loro lingua, scatto e miseria, opportunismo e feroce tristezza, o geloso rapimento. La seconda faccia solo apparentemente è più negoziabile della prima, poiché alla sua solidità i poeti tengono tantissimo, e sono pronti a fornire addirittura giustificazioni teoriche o storico-culturali che la legittimino: si tratta della funzione storico-letteraria che si attribuiscono, della marca pubblicitaria, dello stemma nobiliare che si riconoscono e che desiderano venga loro applicato. Per questo, i poeti istigano i critici, li indirizzano, soprattutto con le citazioni in esergo che scelgono – rigorosamente post factum – con parsimoniosa intensità, come fossero versi propri di assoluto e qualificante rilievo. È il loro modo abile e surrettizio di affiancare l’autocritica alla poesia, e di ipotizzare – predisponendola – una visita guidata nella loro espressione, o esposizione.
Se Merlin ha un difetto, è che prende troppo sul serio questa seconda faccia, o ciò che i poeti dicono di sé. Li classifica per le poetiche che ostentano, o per le tradizioni che mostrano di amare e che vorrebbero continuare. In questo, Merlin ottunde un poco il critico con le lime cesellatrici dello storico della letteratura. Nella sua introduzione, ad esempio, Merlin concede grande spazio a una dichiarazione di poetica di Dal Bianco, datata 1996, che finora non avevo mai letto, incardinata su proposizioni come queste: «A me sembra che le opere della mia generazione siano effettivamente povere. […] Anche nei casi migliori, la quantità di mondo veicolata è poca. […] La letteratura che produciamo non funziona perché non abbiamo nessuno a cui rivolgerci, e soprattutto: non l’abbiamo mai avuto. […] Siamo perciò condannati a restare piccoli, nella sicurezza che il nostro mondo non è fatto per accogliere la poesia». Il torto di Merlin è quello di abboccare all’amo di queste dichiarazioni, di sposarle troppo facilmente a quella semplificata rete di proiezioni e scoramenti collettivi che chiamiamo realtà contemporanea. Cosicché ognuno dovrà convenire sul fatto che la poesia non può essere che piccola, che veicola poca realtà, che la generazione dei quarantenni è costituita da malinconiche monadi…
Ho compiuto un errore nell’Editoriale dello scorso Annuario. Ne ho intitolato un paragrafo I poeti della mia generazione, quando, com’era molto chiaro dal contenuto del mio argomentare, si trattava di alcune note critiche – a volte molto critiche – su alcuni poeti della mia generazione, da cui evidentemente intendevo smarcarmi proprio per l’eccessiva capacità rappresentativa che essi hanno oggi. In realtà, ho dunque usato una categoria orizzontale come quella di “generazione” solo per qualche esponente della stessa. Generazione è proprio il termine su cui Merlin scommette molto, e non da oggi. Critico e poeta ispiratore di una betocchiana opera comune, Merlin ha il grande merito di ricondurre lo sparso vociare dei poeti reciprocamente contemporanei a un orizzonte storico che lo influenzi e ne sia influenzato. Il suo atteggiamento è davvero quello dello storico della letteratura, interessato alla successione dei fenomeni, fra i quali quelli numericamente più coinvolgenti sono anche i più rilevanti. È per questo che convoca nell’indice del suo volume ben sessanta autori per rappresentare una generazione perduta nel limbo della fine della tradizione. Sembra un controsenso. Forse, però, il ragionare per generazioni implica questa dismisura, e la giustifica anche. Probabilmente, un insieme di sessanta scriventi più o meno coetanei non può non essere una generazione perduta: sicuramente perduta di vista dai più. Merlin non vuole compiere lo stesso errore di trascuratezza: vuole proiettare sul vasto affresco storico-letterario il discrimine critico. Per questo nell’introduzione sembra oscillare fra la consapevolezza di non aver dissodato l’intero campo e quella della necessità di una sua «restrizione». Il problema è sempre lo stesso: trovare un criterio per leggere la contemporaneità. Se ho intenzione di procurare una mappatura del territorio, devo scrivere brevi profili di duecento autori. Se invece voglio dare vita a un’operazione critica di proposta, devo sceglierne quindici e scrivere su di essi saggi di dieci pagine, preceduti da un’introduzione storico-letteraria o sociologico-letteraria che dia conto dell’insieme.
Forte di un eccellente, quasi decennale lavoro e di una notevole capacità di dislocazione, Merlin ha cercato la via di mezzo. Anche nei confronti di un insieme di autori che in essa non si sono riconosciuti, ha voluto adoperare la categoria di generazione, come se chiamarla perduta potesse qualificare i risultati dei singoli. Ma cosa è perduto davvero, secondo Merlin? Egli ha scritto e scrive ancora di «una soluzione di continuità nella tradizione letteraria». Gli errori più importanti, direi, Merlin li compie proprio maneggiando in senso assoluto i concetti antagonistici di Generazione e Tradizione. Ascoltiamolo più a lungo dove la sua ipotesi storiografica si precisa:
Mancando, in questa “generazione perduta”, persino la percezione di se stessa, non si è neppure prodotto un confronto con la “generazione della protesta”. Assestati su una blanda accondiscendenza (un’invidia latente?) per i “fratelli maggiori” […], in campo letterario questi poeti si sono trovati, come si è detto, tutti gli spazi occupati […]. Il colpo di grazia, però, inferto ai quarantenni e cinquantenni di oggi, ci riporta finalmente in territori squisitamente letterari: come avrebbero potuto, essi, “attaccare”, dal fronte improbabile di una divaricazione generazionale, autori di libri dal valore assoluto come II disperso di Maurizio Cucchi, Somiglianze di Milo De Angelis, Ora serrata retinae di Valerio Magrelli o L’opera lasciata sola di Cesare Viviani?
Se si ragiona in termini di generazione, fra accondiscendenza e attacco, Merlin ha ragione. Ma è proprio questo che non regge. Fra le poche certezze che ho, c’è quella relativa al fatto che per alcuni autori della “generazione perduta” i libri di Cucchi, Magrelli e Viviani, ad esempio, non hanno costituito nessun ostacolo, nessuna montagna da scalare. Se un problema essi hanno avuto, non è la grandezza dei padri, ma la loro insufficienza. E ancora: nella concretezza delle singole letture, nell’assunzione via via più consapevole di percorsi significanti e necessari, i poeti superano ogni astratta divaricazione generazionale con la continuità stabilita dalla loro esperienza di lettura, riscrittura e scrittura. Sono queste le vere attività dei poeti: le tradizioni, con l’iniziale minuscola e al plurale, il legame producente e vivo di ciò che funziona, ri-suona e parla, non necessariamente in generale, ma idiosincraticamente, nell’hic et nunc dei tempi storici e interiori della persona che fa effettivamente la poesia nuova. Tutto ciò sa anche Merlin, nei momenti teoricamente più alti della sua introduzione, come quando tenta di incrociare i referti sulle letture personali degli autori e sull’humus geostorico della loro provenienza:
C’è, insomma, una tradizione che implicitamente raggiunge lo scrittore non soltanto attraverso le sue letture private, ma per mezzo delle suggestioni dei coetanei, del desiderio comune di partecipare al farsi della letteratura a partire dai suoi aspetti umani e sociali, della ricerca di referenti: tutte esperienze che definiscono un clima condiviso, una traccia fosforica […]: il fantasma di una tradizione, appunto, “reale” almeno negli effetti. […] Rintracciare le fonti è prassi utile nella misura in cui riesce a conferire prospettiva al testo, sia per innestarlo entro la tradizione ideale che esso implica […] sia, soprattutto, per evidenziarne il processo formativo, in modo da indovinarne la tensione o, in termini più altisonanti, l’entelechia soggiacente.
Ma il punto è: se Merlin sa tutto questo, perché parla di soluzione di continuità della Tradizione, come se ce ne fosse una sola, con una sola Avanguardia, in un eterno, hegeliano rimbalzare dall’una all’altra? Davvero pensa che i migliori poeti quaranta-cinquantenni si sentano incapaci di confrontarsi emotivamente e criticamente con le opere di Cucchi, Magrelli e Viviani, o sia pure con quelle del più grande poeta degli ultimi trent’anni, De Angelis? Contrariato da ogni sospetto di epigonismo, Merlin giunge a un passo da una verità operativa: l’autentica opera comune non è quella che unisce i poeti di una stessa generazione (neanche quelli della sua), o che li oppone alle precedenti, ma è quella che lega autori vissuti anche in tempi diversi, che si rispondono e si contraddicono, o si ossessionano persino, in una tradizione ogni volta originale e risperimentata, segnata dalle storie, volta al futuro.
Ecco perché una “generazione” che comprenda Giselda Pontesilli ed Edoardo Zuccato, Luca Ragagnin e Roberto Deidier, Alessandro Ceni e Antonella Anedda è sì perduta, ma in partenza: semplicemente non esiste, e serve soltanto a dichiarare “perduti” dei poeti – pochi, probabilmente, come sempre – che perduti non sono affatto, e sanno benissimo dove si trovano. È una categoria che non fa capire nulla di concreto, che parifica ai nastri di partenza poeti che solo l’astrazione della comune contemporaneità può lanciare tutti insieme alla conquista della Grande Storia della Letteratura. Ma nessuna mappa onnicomprensiva potrà mai esimere il critico dall’atto d’imperio che è la sua gloria o la sua condanna: scegliere ciò che parla da ciò che, pur esistendo, è muto. Merlin, invece, ha avuto il 99 per cento del coraggio che occorreva a compiere l’operazione che si era prefisso.
(Paolo Febbraro, Editoriale, in Poesia 2005. Annuario a cura di Giorgio Manacorda, Roma, Castelvecchi 2005, pp. 13-17)
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