Marco Merlin, Poeti nel limbo (2005)

La generazione da trovare (di Paolo Febbraro)

Generazione è proprio il termine su cui Merlin scommette molto, e non da oggi.

Sono tutt’altro che convinto del fatto che, per trovare un og­getto sfuggente, occorra allargare i fori del setaccio. Accanto al­le imprese antologiche, il 2004 ci ha consegnato due volumi cri­tici dedicati alla poesia degli ultimi decenni. In maggio è appar­so Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei (1970-2004) (Fratelli Bocca), un volume curato da Gabriela Fantato, che in dieci raggruppamenti tematici propone ottantasette autori, ognuno col suo ritratto critico di due-tre pagine, a cura di critici co­me Mauro Ferrari, Edoardo Zuccato, Flavio Santi, Simone Giu­sti, Sandro Montalto o Luigi Cannillo. A dicembre è giunto inve­ce il volume che Marco Merlin ha dedicato ai Poeti nel limbo, con un sottotitolo che recita Studio sulla generazione perduta e sulla fine della tradizione (Interlinea). Il direttore di «Atelier» divide i sessanta autori di cui si occupa in otto sezioni i cui titoli sono mutuati da dichiarazioni di poetica o collocazioni geoculturali, tranne l’ultima, intitolata La felice influenza.

Alla disamina di questo secondo volume saggistico, devo pre­mettere una divagazione apparente, di ordine teorico-pratico.

I poeti vogliono fare quello che pare a loro, ma sempre conser­vando un margine di socievolezza per rendersi accettabili. Han­no due facce, quella autoctona, espertissima di sé, sordamente egemone, sornionamente tirannica, e quella conciliante, politi­ca, che aiuta a definirli, a sistemarli e a tollerarli, piena per que­sto di segnali, di rughe, sorrisi e sensi, o anche di tradizioni per­sonali. La prima faccia rappresenta ciò che essi compiono senza dirlo a nessuno, le libertà o le servitù che si prendono nei con­fronti del loro intimo essere e della loro lingua, scatto e miseria, opportunismo e feroce tristezza, o geloso rapimento. La secon­da faccia solo apparentemente è più negoziabile della prima, poi­ché alla sua solidità i poeti tengono tantissimo, e sono pronti a fornire addirittura giustificazioni teoriche o storico-culturali che la legittimino: si tratta della funzione storico-letteraria che si at­tribuiscono, della marca pubblicitaria, dello stemma nobiliare che si riconoscono e che desiderano venga loro applicato. Per questo, i poeti istigano i critici, li indirizzano, soprattutto con le citazioni in esergo che scelgono – rigorosamente post factum – con parsimoniosa intensità, come fossero versi propri di assolu­to e qualificante rilievo. È il loro modo abile e surrettizio di af­fiancare l’autocritica alla poesia, e di ipotizzare – predisponen­dola – una visita guidata nella loro espressione, o esposizione.

Se Merlin ha un difetto, è che prende troppo sul serio questa seconda faccia, o ciò che i poeti dicono di sé. Li classifica per le poetiche che ostentano, o per le tradizioni che mostrano di ama­re e che vorrebbero continuare. In questo, Merlin ottunde un po­co il critico con le lime cesellatrici dello storico della letteratura. Nella sua introduzione, ad esempio, Merlin concede grande spa­zio a una dichiarazione di poetica di Dal Bianco, datata 1996, che finora non avevo mai letto, incardinata su proposizioni come queste: «A me sembra che le opere della mia generazione siano effettivamente povere. […] Anche nei casi migliori, la quantità di mondo veicolata è poca. […] La letteratura che produciamo non funziona perché non abbiamo nessuno a cui rivolgerci, e soprat­tutto: non l’abbiamo mai avuto. […] Siamo perciò condannati a restare piccoli, nella sicurezza che il nostro mondo non è fatto per accogliere la poesia». Il torto di Merlin è quello di abbocca­re all’amo di queste dichiarazioni, di sposarle troppo facilmente a quella semplificata rete di proiezioni e scoramenti collettivi che chiamiamo realtà contemporanea. Cosicché ognuno dovrà con­venire sul fatto che la poesia non può essere che piccola, che vei­cola poca realtà, che la generazione dei quarantenni è costituita da malinconiche monadi…

Ho compiuto un errore nell’Editoriale dello scorso Annuario. Ne ho intitolato un paragrafo I poeti della mia generazione, quan­do, com’era molto chiaro dal contenuto del mio argomentare, si trattava di alcune note critiche – a volte molto critiche – su alcu­ni poeti della mia generazione, da cui evidentemente intendevo smarcarmi proprio per l’eccessiva capacità rappresentativa che essi hanno oggi. In realtà, ho dunque usato una categoria oriz­zontale come quella di “generazione” solo per qualche esponen­te della stessa. Generazione è proprio il termine su cui Merlin scommette molto, e non da oggi. Critico e poeta ispiratore di una betocchiana opera comune, Merlin ha il grande merito di ricondurre lo sparso vociare dei poeti reciprocamente contempora­nei a un orizzonte storico che lo influenzi e ne sia influenzato. Il suo atteggiamento è davvero quello dello storico della letteratu­ra, interessato alla successione dei fenomeni, fra i quali quelli nu­mericamente più coinvolgenti sono anche i più rilevanti. È per questo che convoca nell’indice del suo volume ben sessanta au­tori per rappresentare una generazione perduta nel limbo della fi­ne della tradizione. Sembra un controsenso. Forse, però, il ragio­nare per generazioni implica questa dismisura, e la giustifica an­che. Probabilmente, un insieme di sessanta scriventi più o meno coetanei non può non essere una generazione perduta: sicura­mente perduta di vista dai più. Merlin non vuole compiere lo stesso errore di trascuratezza: vuole proiettare sul vasto affresco storico-letterario il discrimine critico. Per questo nell’introdu­zione sembra oscillare fra la consapevolezza di non aver disso­dato l’intero campo e quella della necessità di una sua «restri­zione». Il problema è sempre lo stesso: trovare un criterio per leggere la contemporaneità. Se ho intenzione di procurare una mappatura del territorio, devo scrivere brevi profili di duecen­to autori. Se invece voglio dare vita a un’operazione critica di proposta, devo sceglierne quindici e scrivere su di essi saggi di dieci pagine, preceduti da un’introduzione storico-letteraria o sociologico-letteraria che dia conto dell’insieme.

Forte di un eccellente, quasi decennale lavoro e di una note­vole capacità di dislocazione, Merlin ha cercato la via di mezzo. Anche nei confronti di un insieme di autori che in essa non si so­no riconosciuti, ha voluto adoperare la categoria di generazione, come se chiamarla perduta potesse qualificare i risultati dei sin­goli. Ma cosa è perduto davvero, secondo Merlin? Egli ha scritto e scrive ancora di «una soluzione di continuità nella tradizione letteraria». Gli errori più importanti, direi, Merlin li compie pro­prio maneggiando in senso assoluto i concetti antagonistici di Ge­nerazione e Tradizione. Ascoltiamolo più a lungo dove la sua ipo­tesi storiografica si precisa:

Mancando, in questa “generazione perduta”, persino la percezio­ne di se stessa, non si è neppure prodotto un confronto con la “ge­nerazione della protesta”. Assestati su una blanda accondiscendenza (un’invidia latente?) per i “fratelli maggiori” […], in campo letterario questi poeti si sono trovati, come si è detto, tutti gli spa­zi occupati […]. Il colpo di grazia, però, inferto ai quarantenni e cinquantenni di oggi, ci riporta finalmente in territori squisita­mente letterari: come avrebbero potuto, essi, “attaccare”, dal fronte improbabile di una divaricazione generazionale, autori di libri dal valore assoluto come II disperso di Maurizio Cucchi, Somiglian­ze di Milo De Angelis, Ora serrata retinae di Valerio Magrelli o L’o­pera lasciata sola di Cesare Viviani?

Se si ragiona in termini di generazione, fra accondiscendenza e attacco, Merlin ha ragione. Ma è proprio questo che non regge. Fra le poche certezze che ho, c’è quella relativa al fatto che per al­cuni autori della “generazione perduta” i libri di Cucchi, Magrelli e Viviani, ad esempio, non hanno costituito nessun ostacolo, nes­suna montagna da scalare. Se un problema essi hanno avuto, non è la grandezza dei padri, ma la loro insufficienza. E ancora: nel­la concretezza delle singole letture, nell’assunzione via via più consapevole di percorsi significanti e necessari, i poeti superano ogni astratta divaricazione generazionale con la continuità stabi­lita dalla loro esperienza di lettura, riscrittura e scrittura. Sono queste le vere attività dei poeti: le tradizioni, con l’iniziale minu­scola e al plurale, il legame producente e vivo di ciò che funziona, ri-suona e parla, non necessariamente in generale, ma idiosincraticamente, nell’hic et nunc dei tempi storici e interiori della persona che fa effettivamente la poesia nuova. Tutto ciò sa anche Merlin, nei momenti teoricamente più alti della sua introduzio­ne, come quando tenta di incrociare i referti sulle letture perso­nali degli autori e sull’humus geostorico della loro provenienza:

C’è, insomma, una tradizione che implicitamente raggiunge lo scrittore non soltanto attraverso le sue letture private, ma per mezzo delle suggestioni dei coetanei, del desiderio comune di par­tecipare al farsi della letteratura a partire dai suoi aspetti umani e sociali, della ricerca di referenti: tutte esperienze che definiscono un clima condiviso, una traccia fosforica […]: il fantasma di una tra­dizione, appunto, “reale” almeno negli effetti. […] Rintracciare le fonti è prassi utile nella misura in cui riesce a conferire prospet­tiva al testo, sia per innestarlo entro la tradizione ideale che esso implica […] sia, soprattutto, per evidenziarne il processo forma­tivo, in modo da indovinarne la tensione o, in termini più altisonan­ti, l’entelechia soggiacente.

Ma il punto è: se Merlin sa tutto questo, perché parla di soluzio­ne di continuità della Tradizione, come se ce ne fosse una sola, con una sola Avanguardia, in un eterno, hegeliano rimbalzare dall’una all’altra? Davvero pensa che i migliori poeti quaranta-cinquantenni si sentano incapaci di confrontarsi emotivamente e criticamente con le opere di Cucchi, Magrelli e Viviani, o sia pure con quelle del più grande poeta degli ultimi trent’anni, De Angelis? Contrariato da ogni sospetto di epigonismo, Merlin giun­ge a un passo da una verità operativa: l’autentica opera comune non è quella che unisce i poeti di una stessa generazione (nean­che quelli della sua), o che li oppone alle precedenti, ma è quel­la che lega autori vissuti anche in tempi diversi, che si rispondo­no e si contraddicono, o si ossessionano persino, in una tradizio­ne ogni volta originale e risperimentata, segnata dalle storie, vol­ta al futuro.

Ecco perché una “generazione” che comprenda Giselda Pontesilli ed Edoardo Zuccato, Luca Ragagnin e Roberto Deidier, Alessandro Ceni e Antonella Anedda è sì perduta, ma in parten­za: semplicemente non esiste, e serve soltanto a dichiarare “per­duti” dei poeti – pochi, probabilmente, come sempre – che per­duti non sono affatto, e sanno benissimo dove si trovano. È una categoria che non fa capire nulla di concreto, che parifica ai na­stri di partenza poeti che solo l’astrazione della comune contem­poraneità può lanciare tutti insieme alla conquista della Grande Storia della Letteratura. Ma nessuna mappa onnicomprensiva po­trà mai esimere il critico dall’atto d’imperio che è la sua gloria o la sua condanna: scegliere ciò che parla da ciò che, pur esisten­do, è muto. Merlin, invece, ha avuto il 99 per cento del corag­gio che occorreva a compiere l’operazione che si era prefisso.

(Paolo Febbraro, Editoriale, in Poesia 2005. Annuario a cura di Giorgio Manacorda, Roma, Castelvecchi 2005, pp. 13-17)

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