Marco Merlin, Poeti nel limbo (2005)

Frontalità dell’antinovecentismo (di Giampiero Marano)

il segno distintivo della generazione perduta pare essere proprio l’assenza di comunità

Poeti nel limbo di Marco Merlin (ed. Interlinea, Novara 2005) è un documentato studio di trecento pagine sulla «generazione perduta»: quella che, situata anagraficamente a metà strada fra la generazione del ‘68 (De Angelis, Conte, Cucchi, Viviani, Magrelli) e i poeti nati negli anni Settanta, è stata secondo l’autore trascurata sia dalla critica militante sia dalla critica accademica e ha trovato alla fine «tutti gli spazi occupati». L’attento lavoro di Merlin, grazie al quale è lecito smentire ancora una volta alcune non disinteressate banalità circolanti riguardo alla crisi della critica militante, muove del resto dalla convinzione implicita in ogni atto di vera militanza, cioè che il presente debba salvaguardare le proprie opere attraverso una cèrnita iniziale prima di consegnarle all’eventuale giudizio del futuro. E che questa prima scelta risulti decisamente relativa (Merlin finisce con l’occuparsi di ben sessanta poeti!) non sta a significare incertezza o rifiuto di prendere posizione quanto, al contrario, l’impossibilità di accreditare ai poeti studiati una voce originale e potente.

Infatti la generazione perduta, Merlin lo afferma espressamente, è una generazione di transizione, priva di «esperienze forti e veramente corali», alla quale «non resta forse che ricordare o attendere un’esperienza decisiva, che si faccia sostanza di una parola meno intimamente consunta». Notando di sfuggita l’uso nient’affatto innocente dell’aggettivo decisiva, che è lo stesso adoperato da Giuliano Ladolfi nella prefazione all’antologia L’opera comune in riferimento alla generazione dei settantini, resta aperta la questione già segnalata a suo tempo da Dal Bianco: il segno distintivo della generazione perduta pare essere proprio l’assenza di comunità – intendendo il termine, si badi, non nel senso della società letteraria o del Volk sangue e suolo di stampo organicista ma in quello agambeniano della comunità a venire. Se però l’alternativa poetica a un così drammatico vuoto è quella chiaramente propugnata da Merlin nelle pagine del saggio (e forse praticata con la maggiore coerenza e qualità dall’ultimo Viviani in La forma della vita), credo che la questione sia ancora dolorosamente attuale e destinata a rimanere apertissima. Il pessimismo deriva soprattutto dalla modalità e dalla struttura presentate dal logos critico di Merlin, il cui tratto più evidente consiste nella frontale reazione identitaria all’apertura straniante tipica dei non-luoghi postmoderni, alla «tradizione rivolante in mille direzioni, ognuna egualmente possibile» di cui tratta Stefano Guglielmin in un altro saggio importante di questi anni, Scritti nomadi. Merlin conosce la tesi fondamentale del suo conterraneo Carlo Dionisotti, che attaccando la critica nazional-unitaria scriveva: «Si può discutere se quel che in una letteratura più importa, l’offerta che essa reca di umana poesia, soffra o no distinzioni e definizioni di spazio e di tempo. Ma discutibile non sembra il principio che, ove a tali distinzioni e definizioni per qualunque motivo si ricorra, esse debbano farsi avendo riguardo alla geografia e alla storia, alle condizioni che nello spazio e nel tempo stringono ed esaltano la vita degli uomini» (Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi 1967, p. 45). Ora, il principio di fondo enunciato da Dionisotti viene assunto e sviluppato da Merlin in senso integrale (o, se si vuole, esteticamente integralista), vale a dire enfatizzando la centralità delle categorie spazio-temporali fin quasi a imprigionare i singoli autori all’interno della duplice gabbia dell’appartenenza geografica, incentrata sulla fondamentale polarità Milano-Roma, e ovviamente generazionale. Ciò, beninteso, sia detto con l’intenzione non di negare ma di avallare con la massima radicalità possibile quanto afferma Merlin riproponendo quasi alla lettera il nucleo del pensiero di Dionisotti: «la poesia si radica su un terreno che può certo aprirsi a uno sguardo complessivo, ma senza perdere il contatto con gli umori, le zolle, i frammenti di un’esperienza personale anche geograficamente determinata». Il rischio insito nelle opzioni teoriche di Poeti nel limbo è, in altri termini, che la frontalità dell’antinovecentismo si traduca in una paralisi di segno opposto rispetto al proprio oggetto polemico: se, per esempio, una certa visione novecentesca del critico come artifex additus artifici è obiettivamente incapacitante quando si traduce in esercizio estetizzante che dissolve le proprietà veritative del testo, non lo è meno l’idea del critico come produttore di cadaveri e come vivisettore delineata da Merlin (www.atelierpoesia.it, post del 16.11.2004). Ed è appunto la forma di insistita contrapposizione alla cultura del secolo appena trascorso l’aspetto criticamente più debole dello studio di Merlin, che in modo unilaterale vede nelle «oscurità verbali», nelle «astrattezze eccessive», negli «irti analogismi» tipici della «densità lirica esasperata del Novecento» soltanto l’espressione di «un desiderio di potenza del soggetto»: quando invece l’oscurità può a ragione essere recepita come il correlativo di quella «emergenza del tremendo» di cui parlava Rilke, come la traccia insopprimibile di un inaudito shock storico ed esistenziale che attacca, stravolge, reinventa il linguaggio. Allo stesso modo non convincono i termini dell’approccio al «nodo irrisolto dell’intellettuale che non ha più ruolo e riconoscibilità, del poeta che ha perduto l’aureola», perché si ha l’impressione che per Merlin una crisi tanto delicata e complessa sia risolvibile, con un colpo di spugna che sarebbe semplicistico, eleggendone a capri espiatori i due versanti antitetici del novecentismo (di cui viene notata a ragione la contiguità – così evidente, ad es., nel percorso artistico di Aldo Nove): lo sperimentalismo e l’orfismo. La contestazione nei confronti dello sperimentalismo e in particolare della neo-avanguardia è costante: Merlin non ha tutti i torti, certamente, nel parlare in proposito di «temperatura algida e intellettualistica» e di «nichilismo dell’atto volontaristico», ma poi sembra “consolarsi” credendo possibile un inveramento della poiesis senza il lavoro sulla parola estrema ed enigmatica, senza la ricerca e l’azzardo anche violento che non sono necessariamente sinonimi di ludus autoreferenziale. Altrettanto netto è il trattamento riservato all’orfismo, di cui vengono ripetutamente censurate le «derive misticheggianti», le «trappole romantiche», la «combustione mitopoietica», la «vertigine espressiva dell’assoluto», insieme al «furore sacro dell’ispirazione» e alle «solite solfe filosofiche che fanno dell’io un feticcio dell’Altro». In sostanza, ciò che qui viene respinto è il concetto di non parafrasabilità del testo, come nel caso emblematico di Alessandro Ceni, a proposito del quale Merlin avverte il rischio «congenito all’oscurità poetica» di determinare una smaterializzazione degli oggetti «per estenuazione simbolica». L’elemento di resistenza che Merlin oppone alle derive sperimentaliste e orfiche va ravvisato nella «fede nell’esistenza della poesia al di fuori, e prima, del soggetto che la percepisce, e che semmai la ritrova nella tradizione e nella natura» che accomuna il suo “sistema” critico alla neoclassica linea romana della “parola ritrovata” (si veda il paragrafo dedicato a Claudio Damiani) e in generale ai poeti esordienti negli anni Novanta, con la loro caratteristica cifra della «chiarezza espressiva». Di qui la positiva considerazione riservata anche ad autori estranei a questa linea come Antonio Riccardi o Gian Mario Villalta, cui Merlin riconosce il merito di una lingua «trasparente» che nomina l’identità e l’oggettività delle cose («Il tiglio è adesso tiglio veramente», scrive infatti Villalta) mentre «la vita brilla nella verità dello sguardo e dei gesti, più che nel soggetto che si pensa e problematizza». La necessità di uscire dalle secche del Novecento, di creare nuovi orizzonti per la letteratura (e di riflesso per la critica) è sì condivisibile, ma a me sembra che le legittime aspirazioni palingenetiche di Poeti nel limbo costeggino troppo l’esaltazione della translucidità dello spettacolo e l’inaccettabile espulsione della “coscienza infelice” che marchiano la cultura e la società italiana (occidentale) della nostra epoca.

(Giampiero Marano sul sito dissidenze.com [non più attivo])

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