Il cielo di Marte (Einaudi, 2005)

Temporelli insiste a non esistere (di Stelvio Di Spigno)

E per questo, il discorso di Temporelli, non può dirsi né tradizionale, perché anche la tradizione va rinnovata, né innovativo, ma soltanto epigonistico

 

Sono anni che Andrea Temporelli insiste, per così dire, a non esistere. Ossia a presentare come del tutto arbitraria quella illusoria linea di confine che separa l’autore e la sua strategia di scrittura dall’uomo reale che incombe alle sue spalle. Intendiamoci. Il più delle volte è l’autore a sgambettare l’essere umano che ha deciso preventivamente di invadere. Ma per Andrea Temporelli non è così. Temporelli è il nom de plume di Marco Merlin, classe 1973, direttore della solida rivista di poesia e letteratura «Atelier», palestra e fucina di molti giovani scrittori nati negli anni ’70. Una rivista che ha tra i suoi principi fondativi una moltitudine, talvolta un po’ confusa ma quasi sempre stimolante, di notificazioni di esistenza generazionali. Ma che possiede, tra i suoi punti di forza, quello di non mandarla a dire, e di demolire puntualmente tutto ciò che passa sotto il nome di letteratura attraverso il gioco di specchi delle grandi aziende editoriali. Temporelli, anzi Andrea Temporelli è il nome di un congiunto di Marco Merlin, probabilmente un suo fratello morto in tenera età. Il suo nome presta a Merlin un’identità che gli permette (in modo salutare, direi) di tenere distinto il ruolo di critico e officiante delle materie letterarie dell’attualità culturale italiana, da quello di scrittore in proprio; ed è comparso in modo eclatante, per la prima volta, nel Settimo quaderno di poesia italiana contemporanea, curato da Franco Buffoni. Ma i risvolti di questa scelta di non-identità sono molteplici. Come quello di intestare ad un essere umano non più esistente il proprio resoconto esistenziale e poetico, come se la distanza tra Marco Merlin e la sua vita, quella di Andrea Temporelli, l’autore dei versi, fosse abissale. Invece, si può agevolmente credere il contrario. Temporelli è Merlin in tutto e per tutto. Attraverso l’altro nome, il giovane intellettuale di una provincia piemontese atavica e un po’ provinciale, può svincolare l’autore del discorso dal soggetto empirico e vivente, operando una sintesi tanto più vitale e costruttiva del proprio essere nel mondo, quanto più si sente libero da prigioni onomastiche e responsabilità editoriali. Mi spiego. La poesia di Temporelli è ancorata unanimemente a due categorie inscindibili, almeno al momento, dalla vicenda umana di Merlin. La prima è di natura intrinsecamente morale; e riguarda l’eticità della costruzione di un’esistenza rigorosamente (e scandalosamente) normale, il cui conseguimento sembra non conoscere lo scacco e la sconfitta, ma una passività accettata per grazia quasi divina. Il risultato raggiunto viene inscritto in una dimensione quotidiana nel quale lo scopo, e insieme il punto di partenza rasentano un senso di pienezza quasi immateriale, formato dall’abbandono e da una gioia schiettissima, sorrette entrambe da una profonda fede cristiana. Anche laddove essa sembra dettare quasi perentoriamente una lietezza comportamentale e una obbligatoria felicità che deriva dalla piena consapevolezza del proprio ruolo, sebbene marginale fino all’anonimato, nel mondo presente. La fede di Temporelli-Merlin è una fede immanente, difficilmente offuscata dal dubbio, proprio perché attraverso la pratica incessante della vita, evita di porsi interrogativi perturbanti e nebulosi. Si potrebbe scorgere, nel diventare scrittura poetica, la lezione di un certo Betocchi, quello dell’Opera comune: un realismo creaturale nel quale la persona, attraverso la propria realizzazione nel lavoro e nella famiglia, ritrova una sorta di paradiso perduto sottoforma di raggiante serenità. Se non fosse che per Betocchi questa situazione emotiva sembra essere piuttosto una premessa, mentre per Temporelli, in questo caso allievo fin troppo diligente, sembra trattarsi pericolosamente già di un esito. Ci introduciamo, così, verso la questione centrale dello stile; quella seconda categoria alla quale accennavamo nel menzionare la prima, quella morale. Questa seconda, invece, ha un nome e cognome precisi e, purtroppo, facilmente identificabili: Vittorio Sereni, assunto come nume tutelare della rappresentazione contraddittoria della realtà attraverso una formulazione imitativa che sfocia nell’epigonismo. Non è casuale che un suo verso, tratto da Gli strumenti umani apra Il cielo di Marte di Temporelli, come se l’autore intendesse, per una forma di straziante onestà intellettuale, dichiarare sin dall’inizio la propria dipendenza formale e retorica dal grande poeta lombardo. Attacchi perentori e spesso disgiuntivi, uso dei corsivi che mimano le famose riserve mentali di Sereni nei confronti del discorso precedente e susseguente, corroborate dall’uso della parentesi in funzione didascalica, la ricorrenza troppo frequente di stilemi sereniani, danno l’idea di una cospicua e rimarchevole presenza di interi blocchi strutturali del modello alto e riconosciuto attraverso i quali si snoda con facilità il tessuto esperienziale di Merlin. Manca del tutto quella scissione interna che in Sereni portava la tensione dell’enunciato a divaricarsi stilisticamente fino al raggiungimento sofferto della cosiddetta «arciparola». Come manca la netta e inequivocabile negatività sereniana, assunta più che altro come segno di insoddisfazione e spirito critico. La poesia di Temporelli, in questo senso, anche quando sembra voler dimostrare il contrario, è troppo acquiescente nei confronti della propria realtà emotiva perché le forme assunte possano dirsi personali. La sua poesia, in altre parole, si muove attraverso catene sintagmatiche non proprie. Temporelli, paradossalmente, è sereniano, almeno quanto Sereni era anti-simbolista e soprattutto petrarchesco. La differenza non è di poco conto. La trasparenza fonetica del dettato petrarchesco, spinto parossisticamente a scontrarsi con la contradittorietà del presente storico e politico, formano la cifra saliente del “parlato” sereniano. Con tutto ciò che ne deriva anche sul versante retorico e linguistico, fatto di iterazioni, ritardi dell’oggetto-sostantivo (o anche dell’aggettivo sostantivato), pause e riprese improvvise, vertiginosi ritardi del verbo, anacoluti, anafore, invettive, deissi, che avevano lo scopo, nell’economia testuale sereniana, di incrinare sul piano sintattico un certo appiattimento conseguito dall’uso della lingua quotidiana. In ciò consisteva lo scarto dalla norma operata da Sereni. Nell’essere preso a modello, questo scarto diventa a sua volta norma, e appunto, smette di essere interessante. E per questo, il discorso di Temporelli, non può dirsi né tradizionale, perché anche la tradizione va rinnovata, né innovativo, ma soltanto epigonistico. Anche il tentativo che l’autore fa nel tentativo di svecchiarlo, abbassando programmaticamente l’oggettività della percezione del mondo al rango di comunicazione effusiva (con l’inserimento, a tratti, di uno slang un po’ datato di derivazione rondoniana) convince poco. Eppure, se sul piano stilistico Il cielo di Marte non oltrepassa il valore di un esordio abbastanza in sordina, ciò che questo libro lascia in chi legge è la sua disarmante sincerità e purezza di intenzioni. Temporelli vorrebbe talvolta increspare questa purezza, consapevole, forse, dei suoi limiti tecnici, ma per fortuna non ci riesce. Se Temporelli-Merlin unirà alle sue prossime prove di poeta il suo ruolo di latore della verità del mondo (quindi anche della sua problematicità), l’autore troverà ad aspettarlo interrogativi, inquietudini, lacerazioni, che forse neanche il suo decoroso dettato potrà più eludere. Solo così si scrollerà di dosso la patina polverosa che sembra ammonticchiarsi sui suoi versi. Ma per far questo dovrà allargare, e di parecchio, la sua memoria letteraria, che allo stato attuale sembra confinata al solo secondo Novecento; e cominciare a sperimentare e a prosciugare sempre di più. La ricetta, in fondo, è sempre la stessa, da Leopardi a noi: maggiore la portata dell’interrogativo, maggiore il movimento della lingua e la sua coagulazione in formazioni e strutture personali. Per ora godiamoci questa piccola “Vita nuova” di stampo domestico e matrimoniale effettuata sotto la tutela del maggiore poeta italiano nato nel secolo scorso. Quel Vittorio Sereni che per parlare, forse, troppo chiaramente, è riuscito a diventare un mito per i critici più avveduti, un fantastico modello per giovani scrittori, e forse il più grande convitato di pietra della nostra recente storia letteraria e poetica. Ovvero un artista stratosferico che quasi nessuno conosce. Simile, in questo, al suo grande amico e mentore Umberto Saba.

(Stelvio Di Spigno, rec. a Il cielo di Marte, «Annali dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”», XLVIII, 1, gennaio 2006, pp. 258-61)

 

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