Il cielo di Marte (Einaudi, 2005)

Un poeta che rischia (di Alfonso Berardinelli)

Temporelli dimostra di avere un’eloquenza, un impeto che fanno pensare più a Luzi che a Sereni: monologhi drammatici di una voce in scena che non si dà limite

E Vittorio Sereni chi lo legge? Ci sarà qualcuno che sta imparando da lui? Me lo sono chiesto, in questi ultimi anni, ogni volta che mi capitava di rileggere qua e là “Gli strumenti umani” (1965) e “Stella variabile” (1981). Molti dei poeti italiani delle ultime generazioni si capisce che hanno cominciato a scrivere avendo in mente Penna, Amelia Rosselli, Caproni, Luzi, Giudici o Zanzotto, Pagliarani o Sanguineti, Pasolini e perfino Fortini, o chissà quale poeta straniero tradotto, o meglio chissà quale mescolanza di tutto questo. Ma Sereni? La verità è che dei poeti che ho appena elencato nessuno, singolarmente, ha fatto scuola (forse, per un certo periodo, solo Penna e la Rosselli). L’attuale orizzonte della poesia italiana rende visibili e include diversi presupposti. Anche Gianni D’Elia, Patrizia Cavalli, Valerio Magrelli, Cesare Viviani, Maurizio Cucchi, Patrizia Valduga, Milo De Angelis, Giuseppe Conte sono entrati da tempo nella categoria dei suggeritori, se non dei maestri. Il fenomeno formale più immediatamente visibile è comunque, mi sembra, il patto fra misure metriche tradizionali ri-usate (molti endecasillabi e settenari, molte rime, parecchi sonetti) e una discorsività a volte più esplicita e controllata, a volte simulata e informale: monologhi fra il teatrale e lo pseudoraziocinante.

Lo si vede bene se si legge l’antologia “Parola plurale” (pp. 1177, euro 20) uscita qualche mese fa dall’editore Luca Sossella, a cura di diversi autori, con due prefazioni generali di Andrea Cortellessa e Paolo Zublena. Un’antologia così voluminosa per poeti degli ultimi trent’anni, come pure i troppi Meridiani dedicati a Pasolini e a Calvino, fanno capire che in diversi casi cruciali la critica sembra paralizzata, non riesce a decidersi, è incapace di selezione. Più che scegliere si tende a fotografare tutto quello che c’è, a restituirlo al lettore così com’è, con sovrabbondanti introduzioni, chiose e glosse. Forse è nata una nuova etica letteraria politicamente corretta, che consiste nel togliere ai critici ogni delega, perché si pensa che nessuno abbia il diritto di giudicare al posto di altri, il lettore è libero e sovrano, sarà lui a decidere che cosa gli piace e che cosa no, di chi fare un mito e chi ignorare. La Democrazia Letteraria di cui parlava anni fa Vittorio Spinazzola è in corso di realizzazione progressiva. Non si possono accusare i curatori dell’antologia “Parola plurale” di non aver fatto scelte e di non aver selezionato. Mi sono accorto subito di alcune assenze che credo ingiuste: per esempio quelle di Giorgio Manacorda, Anna Maria Carpi, Bianca Tarozzi, Alida Airaghi, Alba Donati. Eppure, anche così, siamo a ben sessantaquattro poeti. Non pochi, se si pensa che la classica antologia di Pier Vincenzo Mengaldo ne includeva cinquantuno, partendo dall’inizio del Novecento e arrivando a Giovanni Raboni.

I poeti sono tanti, forse troppi. Ma ho l’impressione che i romanzieri siano di più. Anche perché, mentre la poesia è sempre di più autogena, si genera da se stessa, anche se nessuno la vuole leggere, né pubblicare, né recensire, la narrativa è invece da vent’anni il genere editoriale di gran lunga più desiderato, il solo, anzi, dotato ancora di un potente, spesso illusorio, magnetismo.

Torno al punto di partenza. Chi legge Sereni, chi impara oggi da un poeta come lui? Di Sereni si parla poco. Ma credo che il suo molto particolare linguaggio poetico, in sordina, a basso regime lirico, con qualche improvvisa accensione quasi inconsulta e con molta semi-prosa appena versificata, sia tuttora uno dei modelli italiani più mediamente praticabili, in via ipotetica e sperimentale, per chi voglia dire qualcosa nel genere letterario chiamato poesia. Sereni non gioca mai. Sembra perfino, a volte, un po’ stentato e quasi goffo. Nessun virtuosismo. Il minimo di parole, niente più del necessario. Eppure ragiona, monologa, descrive, racconta, nonostante sia pieno di dubbi e perplessità, anche e soprattutto a proposito di se stesso in quanto poeta. La sua ben nota poesia intitolata “I versi” si apre con questa constatazione desolata: “Se ne scrivono ancora”. Sereni non ha mai vestito l’abito del poeta. Non si è comportato né ha scritto come chi abbia ricevuto doni, investiture e privilegi speciali dalla poesia in persona.

Ma finalmente dovrò dire perché mi sono messo a pensare a Sereni. È perché ho letto “Il cielo di Marte” (Einaudi, pp. 66, euro 9,50), libro di esordio di Andrea Temporelli, come apprendo dalla quarta copertina, che purtroppo, però, non dà nessun’altra notizia sull’autore, neppure la data di nascita. Temporelli ha scelto per il suo libro un’epigrafe da Sereni. Deve essere per questo che ho notato subito la derivazione, le somiglianze, l’andamento raziocinante di Temporelli, i passi virgolettati, le allusioni dialogiche, il flusso metrico-prosastico, con gli endecasillabi e i settenari come misura costante che si percepisce quel tanto che serve per trainare la lettura e dare dinamismo al monologo. Ma oltre che agli “Strumenti umani” di Sereni, ho pensato a un altro libro fondamentale, uscito in quegli stessi anni (1963), cioè “Nel magma” di Mario Luzi, il suo migliore, il più audace e innovativo, il più vicino al racconto e al teatro, dopo l’originaria fase ermetica e prima della dilatazione cosmologica di tutti gli ultimi libri. In effetti, anche o proprio nei momenti più intensi, Temporelli dimostra di avere un’eloquenza, un impeto che fanno pensare più a Luzi che a Sereni: monologhi drammatici di una voce in scena che non si dà limite, tende a una totalità di discorso, vola alto e precipita. Rischia l’oratoria, ma rischia.

(Alfonso Berardinelli, Fra tanti, forse troppi poeti, eccone uno che rischia l’oratoria. Ma rischia, «Il Foglio», 15 febbraio 2006, p. 2)

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