Marco Merlin, Poeti nel limbo (2005)

Un tentativo di bonifica (di Francesco S. Mangone)

Marco Merlin tenta di bonificare, col suo lavoro, il pantano in cui sono “sommersi” questi nostri poeti contemporanei

Viviamo in un’epoca tragica, sospesa tra l’inessenzialità della parola (il suo svuotamento) e l’impossibilità di intravedere all’orizzonte un sistema di senso altro, radicalmente altro (mi verrebbe da dire) che la possa rinsanguare.

È in questa ferita aperta che si muove lo studio di Marco Merlin “Poeti nel Limbo, mentre si pone alla ricerca di una generazione perduta di poeti (nati tra il 52 e il 65) che fanno del loro rifiuto della tradizione la cifra essenziale della loro identità. Oltre “un elenco di nomi a guisa di titoli in borsa” che serve soltanto a “perpetua(re) l’impasse del pensiero”, Marco Merlin tenta di bonificare, col suo lavoro, il pantano in cui sono “sommersi” questi nostri poeti contemporanei, e riprendere a tesser un senso che li “mostri”, in quel luogo delle lettere ove da padroni la fanno il mercato (vedi tra tutti i il romanzo) e l’opacità della parola. L’autore ha scelto sessanta poeti, e levatrice di una tale scelta sono la serie dei Quaderni italiani di Poesia contemporanea curata da Franco Buffoni, la rubrica di Poeti di trent’anni curata da Milo De Angelis e l’Annuario di Giorgio Manacorda.

Lo studio, viste le difficoltà dei tempi che corriamo, opera in quel bosco semisconosciuto di “poeti non laureati” che non trova alcuna considerazione se non in una dimensione soprattutto militante e di semi clandestinità (anche se a voler fare le cose bene veramente vasto sarebbe l’ambito da perscrutare). Il lavoro di scavo è condotto con competenza, perizia e passione ed ha l’andamento dello studio archeologico (ove in questo caso vale la fase del ricostruire). La scansione che l’autore sceglie di dare alle singole fisionomie poetiche è quella di adunarle in “costellazioni”: per criteri geografici, per ciò che riguarda la linea romana (molto compatta stilisticamente, sottolinea l’autore) e quella lombarda, altrimenti poetico e programmatico, se si tratta di poeti lontani dalla geografia sopra nominata. La quarta delle “costellazioni” si ritrova intorno a una idea orfico-panteistica che tenta di superare l’aridità del fine secolo collegandosi alle radici romantiche europee. E ancora quella intorno allo sperimentalismo, titolando questa sezione “Dalla neoavanguardia all’avant-pop”, ove ricordando il Gruppo 63 (per riprendere da “i novissimi”) giungere alla “Terza ondata” e quindi al Gruppo 93, per continuare con il “Neometricismo e Postmoderno” e sottolinearne il rifiuto sistematico di formare identità e confini; e infine giungere all’ultima costellazione che il Nostro chiama de “La felice influenza”, ove viene assunta l’idea che nel Novecento esiste un vasto repertorio ove si può attingere liberamente per nuove coniugazioni.

Forse in questo tempo della sterilità (a voler generalizzare l’epoca della tecnica, al modo di T.S. Eliot), o come meglio temporalizza Stefano Dal Bianco parlando di “assenza di una comunità… a cui rivolgersi”, la funzione del poeta (questa generazione sommersa come la definisce Marco Merlin, ma non solo questa, mi parrebbe di aggiungere, visto l’incipit di questo testo) è quella di custodire il senso di una attesa… [i poeti a venire] che meglio di noi sapranno parlare del nostro tempo”, questo perché “anche nei casi migliori [i poeti ufficialmente riconosciuti tra i più rappresentativi, cioè], la quantità di mondo veicolata è poca”.

(Francesco S. Mangone, «La colpa di scrivere», II, n. 6, aprile-giugno 2006, p. 75)

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