Il cielo di Marte (Einaudi, 2005)

Il problema è il tempo, il problema è la parola (di Mimmo Cangiano)

Sbaglierò, ma il tentativo di […] Temporelli mi sembra sia tutto giocato sul problema del superamento della forma, e questa è una sfida etica che ha in sé dell’impossibile

Sono due a mio giudizio i versanti principali del libro einaudiano di Marco Merlin: la colpa e il problema del consistere, ci torneremo in seguito.

Cominciamo dall’epigrafe sereniana [1] su cui qualcuno troppo facilmente si è avventato pensando di aver subito trovato il grimaldello: i temi della gioia e della morte sono certo ovunque nei testi, attenzione però, bisogna saper distinguere fra una gioia che è reale superamento della morte, perché è superamento del tempo (luogo in cui colpa e violenza sono inevitabili), e dunque è anche superamento della paura della morte, e una gioia che già non è più gioia allorché mette in mostra la sua natura ambigua e problematica. Ma mettendo subito troppa carne al fuoco rischiamo di semplificare un libro che non ammette semplificazioni, quindi riprendiamo con ordine.

Sereni si diceva, ovvio, ma anche certo Caproni, e talvolta un andamento spiccatamente montaliano, si guardi la terza strofa di Verifica della storia:

(…) poi
saranno guerre mondiali, problemi
d’ecologia, proposizioni astratte,
ricerche, controversie, dati, schemi,
un lessico più ricco,
eroi, battaglie grandiose e disfatte
clamorose (…)

versi fra l’altro non estranei neanche al Luzi migliore, tante e diverse “esperienze” dunque. Credo però che le radici autentiche del libro vadano cercate più ad est, precisamente in quella linea che va da Trieste a Gorizia, dove si sono consumate le esperienze più “dannatamente” etiche della nostra letteratura.

Sbaglierò, ma il tentativo di Merlin-Temporelli mi sembra sia tutto giocato sul problema del superamento della forma, e questa è una sfida etica che ha in sé dell’impossibile. Il dolore, la nevrosi, trovano in ciò la loro origine. Questo perché la forma, detto in breve l’unificazione e l’attualizzazione posticcia, illusoria, che noi continuamente compiamo sulla realtà per poterci muovere in essa, non è una qualche chimera tirata in ballo da un ragazzino ungherese un centinaio di anni fa, ma è un processo cognitivo che implicitamente sancisce un fatto inquietante: la vita è in sé contraddittoria, si realizza nelle forme che sono la sua antitesi.

Il cielo di Marte è un tragico libro sul tragico. La forma chiusa, diciamo lo stile per non confondere i termini, è allora parte integrante del problema, e non è ovviamente un caso che si “liberi”, si sregolarizzi, solo nell’epifania conclusiva.

Salvare l’innocenza, l’infanzia, la purezza (Parsifal), è di questo che i testi ci parlano, ma senza sogni edenici, senza irreali fughe, senza semplificazioni, senza intendersela col mondo

C’è chi sperpera i punti esclamativi
ma nell’onestà di un’eticità disperata che vede bene come il primo nemico sia l’Io.
qualcuno spero che prima o poi arrivi
il dono giusto, il segno
che scioglierà dall’orrenda postura
la primogenitura
che estinguerà la colpa d’esser vivi

La colpa è quella di non poter essere fuori dal tempo, perché il tempo, il divenire, è il non-consistere, in esso non c’è giustizia. Nel tempo si è cosa fra le cose, il soggetto non può individualizzarsi, può solo entrare in relazione. Questa è vista come un battaglia, in ultima istanza come un atto di violenza. Si leggano questi versi:

(…) ma quello
che ancora ti dispensa
di sentirti felice in quei confini
è il tempo (…)
Penso a un incontro impossibile, fuori
tempo (…)

La relazione, se vuole superare il suo essere uno “stupro” (ed è uno stupro in quanto ogni entrare in contatto è un atto di “potenza”), deve spingersi al sacrificio di una delle due parti, al sacrificio del “giusto”:

(…) Il pensiero
della gioia è una fitta
che riconoscerai
quando cadrò felice sul mio dorso
pianterai la bandiera (…)

Si tratta di dare non di chiedere, in questo senso il libro è etico: soltanto chi ha saputo trarsi fuori dalla dialettica del dare per avere può realmente consistere, può trascendere il tempo. [2]

Ma i pericoli, le debolezze, sotto forma di premi e castighi (il tema del bambino e della sua educazione è ovviamente fondante. Come educare se noi per primi facciamo parte di questa “banalità del male”?), i pericoli, dicevo, sono ad ogni “incrocio”, ad ogni “incontro”, e l’illusione di aver trasceso il tempo è uno di questi:

adesso, se hai trovato il luogo, l’ubi
consistam del pittore. E non pretendi
bravure. Volta la pagina, subito

Veniamo dunque all’altro grande nodo del testo: linguaggio-nome-comunicazione.

Mi sembra che Merlin si serva della critica del linguaggio sulla scorta della sua visione etica. I nomi sono una forma, sono una sistematizzazione falsa del reale:

C’è scritto su un foglietto
un nome: un’altra traccia incontestabile

Fare davvero tua la lingua di un altro, comprendere realmente ciò che un altro sta dicendo, sarebbe come fare un passo in avanti, un passo in un’umanità diversa, oltre i nomi, in un uso esatto dei pronomi (“pidocchi del pensiero” non a caso li chiamava Gadda), oltre la contingenza dunque che, come abbiamo visto, è foriera di ingiustizie:

Il giorno che sarà quel giorno io
vedrò spaccarsi i nomi
(In quale lingua potrebbe consistere
l’attimo della gioia?)
(…)
Sarà un avvenimento strepitoso
il tuo sorriso. Il sangue abbatterà
i nostri corpi, credimi,
sentiremo la vita che ci chiama

Siamo all’interno di un sogno di Assoluto, quello vero, non quello di volta in volta modulato dalle nostre precomprensioni sul mondo. Non l’Assoluto romantico che in quanto positivo è pronto a sfociare nella passività, ma un Assoluto negativo, utopico, ancora una volta etico, di lotta, teso alla sfida contro l’inautentico. Ed così perché non lo si vede mai come raggiunto, ma continuamente si tende ad esso.

ma la voce insisteva a dire «sì,
il tempo esiste e io stessa non sono
già più, piegata al nulla, sfatta in suono»

Già, “i limiti del tuo linguaggio sono i limiti del tuo mondo”. Merlin utilizza questa sprachkritik per mettere in mostra un mondo monadologico (nel senso prima spiegato in virtù del problema relazionistico). Il parlare, direbbe un logico, è infatti un auto-riconoscersi fittiziamente, ma l’io che parla non arriva realmente ad un essere, ma si sa soltanto in quanto memoria di sé, e cos’è, ancora una volta, la memoria se non “un aggregato inorganico di nomi?”. Ma Merlin problematizza, teme che sotto ogni momento di serenità si nasconda l’inganno di una finta pace, quella pace che trasforma gli uomini in bestie. Così dopo il finale “sereno” di Canzone dello sposo riparte in Verifica della storia con

Sì, va bene, l’amore e tutto il resto,
ma qui fanno domande
precise, perché vivere non basta
e dio non è possibile (…)

Prendiamo un verso come «i segni, sono assenzio e terapia».

A mio parere ciò significa che i segni, i nomi, le forme, ma tutto ciò che pretende di immobilizzare l’immobilizzabile, sono illusioni di essere, illusioni di consistere, e sono assenzio e terapia perché sono “dimenticanza”. Ci appigliamo ad essi come alle ancore che ci salveranno, ma in realtà credendo di salvarci ci “danniamo”, rientriamo nell’inautentico paghi di questa illusione di autenticità.

In questa condizione il prezzo da pagare è quello della morte, ma di una morte continua perché è in primo luogo paura della morte:

Io non morirò mai
perché mi è già successo troppe volte

L’approdo ad una condizione diversa da questa (ha ragione Guido Mazzoni a chiamare in causa Kierkeegard) fugherebbe questa paura, ma non mediante lo stordimento della “vita sociale” (che è un tentativo che mostra in continuazione le sue aporie), ma mediante l’esistenza, come avrebbe detto Benjamin, “in un preciso presente”.

(…) proprio non puoi non capire
in quel frangente che nessuno mai
se ne è andato davvero

A questo punto molti di voi avranno già compreso dove sto andando a parare e qual è il nome che sto per fare: se proprio dobbiamo assegnare “maestri”, il nome che farei per questo libro è quello di Michelstaedter.

Ancora una citazione da Indagine domestica:

Giacché la morte impressa nella vita
non è prova di niente,
sola la vita splende nella morte
perfetta, esattamente
così: inconfutabile

con quei due verbi, “impressa” e “splende”, che mostrano subito una contrapposizione di valore e movimento, e che sono chiara citazione da Il canto delle crisalidi del goriziano:

morte, vita
la morte nella vita;
vita, morte,
la vita nella morte

L’altra via, quella che deve oltrepassare la nostra paura della morte e con ciò il nostro esistere nel tempo, balugina di tanto in tanto nei versi, in La cospirazione ad esempio:

Hanno trovato il varco,
sono eterni
(…)
«Bisogna alzare la posta», dice uno,
«rischiare tutto. Tutto.
Perché davvero il tempo è molto breve»

in La tenda di Mamre, e ovviamente in Primo passo su Marte. Un miracolo? Una strada del genere forse non può essere del tutto aliena da un briciolo di misticismo, ma devo dire che molto più cristiano (davvero “un cristianesimo che ha perduto tutto il dio e” quasi “tutta la speranza”) è il terribile senso di colpa e la conseguente volontà di espiazione che stillano dalle pagine del libro.

La via etica è una risposta alla paura della morte e a quell’illusione di vita che è la forma, processo inevitabile finché resteremo nel tempo.

Nei paraggi
non c’è nessuno: e allora spiega tu
questa smania di attenderti in virtù di
quella promessa di vincere il tempo

[1] “Potrei / con questa uccidere, con la sola gioia…”

[2] Quello del “tempo” è davvero un tema troppo ampio, gigantesco. Per questa sua natura è sconsigliabile prenderlo a specifico di un libro di poesia, ma ci risulta difficile parlare de Il cielo di Marte senza chiamarlo in causa. Solo la parola “tempo” ritorna nel libro 18 volte, e bisogna poi tener contro anche delle sue “declinazioni” come “attimo”, “momento”, “eternità”, “futuro”, “passato”, “ora”, ecc.

(Mimmo Cangiano, Il problema è il tempo, il problema è la parola, apparso sul web: http://www.fuoricasapoesia.blogspot.com)

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