Volto su Marte (foto 1976)

Terra chiama Marte… Marte chiama Terra (Gian Ruggero Manzoni)

Forse che un dolore, già vissuto esistenzialmente, non voglia essere riportato o non lo si possa riportare su carta, ma ne vengano accennati solo certi fraseggi, solo certe sfumature?

In copertina della Bianca Einaudi, sotto il bel titolo “Il cielo di Marte”, appare questo stralcio di poesia messo in prima, redazionalmente (cioè come scelta di collana, da oltre 30anni), quale introduzione-cardine (che si reputa significativa-portante) al/il libro del poeta che si è dato alle stampe (mantengo gli a capo tipografici di copertina, non quelli che figurano nel componimento all’interno della raccolta da cui è tratto): “Ecco, quello che pensi sia dio e in / fondo / non è che una radura / che ti comprende, come / su Marte una pianura / avrà la mia prima impronta, esattamente / si manifesta, tanto che non c’è / nulla da dire, niente / da domandarsi più, / nessun luogo in cui andare o far / ritorno. / Talvolta questo accade, certo, e tu / non ne hai né colpa né / merito. Accade questo, ogni giorno.”

Premessa non da poco, anche se due contraddizioni appaiono di già evidenti: “Nessun luogo dove andare > su Marte una pianura avrà la mia impronta / Talvolta questo accade > accade questo, ogni giorno”. Ovviamente, essendo uomo del paradosso, dell’iperbole, dell’estremo e della scelta, sono per le seconde affermazioni, cioè per quelle che Marco Merlin, in questo caso Andrea Temporelli, il nome che usa quando edita sue poesie, ribadisce con più certezza. Cioè opto per: “su Marte una pianura avrà la mia impronta” e, superando il ‘talvolta’, là dove afferma con determinazione: “infatti succede sempre”… e già da questo si può intendere il come la sua raccolta di poesie proceda, e dove le differenze, costituzionali, che corrono fra noi, anche se iniziare una sorta di analisi della scrittura di Merlin, ponendomi quale suo alter-super ego, non è assolutamente giusto (deontologicamente parlando), ma io non sono un ‘critico letterario’ (d’arte sì), mi considero, infatti, uno che a volte ha detto o che dice su ciò che degli altri ha letto o legge (con più o meno entusiasmo, con più o meno trasporto, con più o meno visceralità, con più o meno ‘professionalità’, e nel pieno antiaccademismo che mi riconosco), quindi mi si conceda tale ‘difetto’ di forma con bonarietà, seppure, in questa mia nota, mai più farò sì che accada.

Per chi conosce Merlin come critico (e un critico lui lo è, ne ha gli strumenti e l’acume), sa bene che non è intellettuale che le mandi a dire, anzi, oltre dieci anni fa (lui ancora giovanissimo), ebbi subito il modo di apprezzarlo, sulle pagine di “Atelier”, la rivista che ancora dirige assieme a Ladolfi, proprio per tale sua connotazione-dote (quel tanto da pedagogo) e per lo slancio che proiettava e che ancora proietta nei suoi testi anche teorici (…d’accordo o no, che si possa essere, con quello che diceva e dice riguardo i poeti e la poesia), ma, creativamente parlando, cioè lui come poeta, mi trascino, sempre da allora, alcune perplessità alle quali, ancora, lui non è riuscito (con l’espressività) a darmi risposta-sollievo. Una l’ho già indicata: prima che Marco dica in poesia, deve prendere la rincorsa (deve richiamare a sé tutto ciò che conosce per ‘tradizione’ o che gli è congegnalmente-congenialmente rassicurante)… deve fare un tot di rollate sulla pista, ascoltare il motore del suo monoposto, controllare e ricontrollare i livelli, la pressione, i manometri, aggiustarsi il sedile, chiamare la torre di controllo, richiamarla, ricontrollare, riaggiustarsi il sedile, allacciarsi le cinture di sicurezza, e, infine, alla buonora, dare manetta per il decollo. Per usare un’altra metafora: gira attorno all’argomento, lo volta e rivolta, lo lecca, lo aspira, poi lo rigetta, poi se lo mette, ancora, fra le labbra, quindi si ferma, medita sul sapore, lo ri-adagia, e, di nuovo, con delicatezza, lo mordicchia, ne asporta un tocco, e quindi se ne va, poi ritorna, per finire il pasto. Io, che sono un pescatore di fiume e lago, so di quale ciprinide si tratta: la carpa mangia così, in particolare le più vecchie e grosse, con diffidenza, soppesando, attente se c’è l’inganno, aspettando, in modo che tu, sulla riva, per catturarle, ti debba disporre con pazienza. Il suo ‘affrontare’, della carpa come di Merlin, lo definisco istinto di sopravvivenza. Ora resta da capire per quale motivo, in poesia, Marco adotti tale tecnica di approccio… o di preparazione al volo, e a cosa debba sopravvivere, e, soprattutto, perché non tiri, subito, ad addentare il cuore del problema (se problema c’è, e a quanto pare c’è!), oppure a dare gas e via, visto che in poesia l’unico pescatore (se pescatore c’è… oltre a Dio) è il proprio sé, così come, quando si parte su di un monoposto, l’unico che può fare il tonfo è chi lo pilota, considerato, appunto, che passeggeri non ce ne sono (al massimo, se tonfo deve esserci, lo si faccia lontano da un centro abitato, così come è già successo – con tanto di medaglia, e più che giusta, alla memoria dell’eroico aviatore).
Altra perplessità, e non da poco, è il come, la sua, sia una poesia che altalena tra “visione vibrante e alta” e tuffi a capofitto in un quotidiano che, per come viene messo su carta (e non riporto i passaggi perché troppo lunga diverrebbe questa nota, così da ritrovarmi a dover scrivere un saggio), dicevo… un quotidiano che infine risulta appartenere solo a lui, infatti tale quotidiano non è che venga usato in modo da assurgere alla visione precedentemente esposta fra virgolette, ma resta a quel livello, viene raccontato, Merlin tenta di trasformarlo in termine di paragone (almeno questo), ma ciò non gli riesce, resta diario, elencazioni di gesti, di oggetti, di interni, di giocattoli, di quadri famigliari, di dialoghi col figlio appena nato, con la sua compagna, con un’amica, col tempo epocale che sta vivendo, coi media, oppure camminata lieve, a momenti leggera, solfeggio, senza sprigionare alcuna nota evocativa, dando, all’insieme della raccolta, una sorta di immagine doppia, scissa, fratturata che, se espediente voluto: non s’intende, bene, il perché dello svolgerlo in tale maniere; se non voluto: infine si dimostra penalizzante là dove il verso azzeccato esce e la tensione tenta di alzarsi, seppure, anche detta tensione, pare, pur sempre, vincolata da un bisogno di costruzione formale e da un ‘carattere’ sintattico-sonoro che la frena, che non la rende esplosiva. Ecco, il tutto risulta frenato e attutito. Cioè quel ritardare il decollo e quel ritardare l’abboccata (tipica di certi ciprinidi e non, appunto, dei predatori… seppure gli argomenti ‘forti’ che si tenta di trattare), vengono, in risultanza, avvertiti come un freno… come incollati a un qualcosa che impedisce. E dire che nello stralcio di poesia messo in copertina (riportato all’inizio di questa mia) di carne (letterariamente e filosoficamente parlando) ce ne sarebbe da mettere al fuoco (o a fuoco): dio, Marte, l’impronta, il nulla da dire, il niente da domandarsi più, il nessun luogo in cui andare o far ritorno, la colpa, il merito, il ciò che accade (o non accade). Non dico che all’interno della raccolta non si faccia uso di riflessione… anzi, forse se ne fa anche troppo (includo, nella riflessione, anche quella quotidianità indicata in precedenza – e la scelta dei componimenti lunghi ne è una prova), ma il rischio è che, appunto, tutto il dire si risolva esclusivamente in un inseguimento riflessivo, in un’enunciazione di ciò che vive l’autore personalmente, senza, però, che Merlin (lo) attacchi a fondo o tocchi un fondo (sia materiale che celeste), cacci la lama, giri il dito nella sua piaga, lo rigiri nella nostra, fino al punto di dichiararsi e dare, appunto, le sue risposte al malanno (o a quel “rassegnato nulla”), forse nel timore di soffrire ancora di ciò che si è già sofferto in vita e in carne come uomo? Forse che un dolore, già vissuto esistenzialmente, non voglia essere riportato o non lo si possa riportare su carta, ma ne vengano accennati solo certi fraseggi, solo certe sfumature? Forse che abbia pudore di tale suo dolore… o del dolore in genere? Forse che non abbia, invero, alcuna risposta (o, almeno, che non ne voglia azzardare alcuna, se non quella che, titubante, risulta in prima di copertina)? Questo, nel corso della raccolta, non lo s’intende a seguito di un’analisi di tipo letterario, la costruzione non te lo permette, svicola-svincola, non pone punti fissi, quando ci si attende il ‘colpo’, la ‘mitragliata’ (e il sangue), ecco la cabrata, ecco il domandare alla torre di controllo il permesso di rientrare a terra; al limite, i perché e le risposte di Marco, li si potrebbero intuire affidandosi a un’analisi di stampo psicologico (seppure anche in questo egli resti molto abbottonato), ma già si è detto che tale approccio, in arte, non è quello ‘canonico’ (io credo l’inverso, mai disgiungendo l’arte con la vita, comunque, nel nostro caso, voglio attenermi al ‘canone’), così che (e qui tocchiamo una delle note più dolenti) l’aspetto del Merlin critico entra nel Merlin poeta, riducendo, il secondo, a figurazione fin troppo controllata dal primo. Si intende che Marco avverte note ben più sonore, ma le smorza. Parte, ci si attende il distacco (verso Marte? Verso quel dio del fuoco? Oppure verso… o, meglio, per almeno entrare – quale consolazione – in orbita terrestre – essendo, la Terra, appunto erranza circolare, così come lo può divenire un’esistenza – ?), ma il volo sembra di prova, sembra che chi ai comandi debba, ancora, “prenderci la mano”, non si senta sicuro, a volte s’impacci (e, qua e là, un certo ‘prosaico’, un certo ‘semplicismo’, nel rappresentato e nel come viene trattata l’immagine, affiorano), in modo che anche molte chiusure dei componimenti risultano soffocate da una costruzione rinunciataria. L’insieme, in questi casi (e a questo punto), non lo si può più ricondurre solo a una sorta di “istinto di sopravvivenza poetico” (e tale mia affermazione conterrebbe di già un mondo), ma, con dispiacere, devo ricondurlo a una “paura del poetico”, a un terrore del cimentarsi in opera, o con l’opera (da intendersi, in questo caso, come: Assoluto e come Uomo… perciò come Totalità). Siamo di fronte, quasi, ad “un’ansia da prestazione”, direbbe un mio vecchio amico centometrista che in allenamento segnava gli 11.4 netti mentre, in competizione, pur scattando per primo, agli ottanta metri, guarda caso, si strappava sempre, così da non terminare, mai, una gara. Detto questo, dopo la recente rilettura della raccolta di Marco, mi ritrovo ad attendere, ancora, il suo ‘ammaraggio’ sul pianeta rosso (o verde-blu… se prevale, sull’altra, come già so, la componente-metafora del nostro globo… che mai si è in grado, secondo lui, di lasciare), sebbene, e qui svelo l’arcano, l’ultima poesia della raccolta s’intitoli “Primo passo su Marte” e lo stralcio che ho riportato in apertura e che campeggia in prima di copertina del libro non sia altro che la chiusura della raccolta stessa… non siano che gli ultimi 12 versi a cui Merlin si affida e che ci affida. Che risulti, allora, la sua ultima poesia, in effetti, l’introduzione al volume… o di un prossimo volume (di vita)? Ma anche in ciò una contraddizione: come si può dar voce ad altra poesia (o ad altra vita) con tali premesse? Forse che la ‘paura’ scaturita dall’aver troppo letto… dal conoscere troppo ciò che è stata la (vera) poesia (la vera vita)… sia, nel suo procedere, la soggezione che frena Marco quando si cimenta in opera? A lui le risposte, io so che la sensazione avuta quando lessi per la prima volta “Il cielo di Marte” (a casa di Andrea Ponso) si è venuta a riconfermare in questa seconda lettura. Seppure le tristi (sebbene, per chi sa, condivisibili – a parte le contraddizioni insite e da me sottolineate) dichiarazioni che iniziano e che chiudono il libro (in mezzo ciò che vi ho detto… una sorta di summa – tra conoscenza, quotidiano, simboli, schegge, citazioni, algide parafrasi – spesso ripetitiva, che storna un’originalità formale, per affossarsi in un suo che non diventa nostro, se non a tratti, a balenii, a intuizioni – …ma non ci si può solo affidare all’intuizione del lettore quando si fa poesia, bisogna anche dire) il tutto risulta sconcertantemente ‘terreno’ (CVD), non certo ‘marziano’ (…comunque lui lo annuncia, in questo è sincero, lo comprovano i versi che precedono quelli che vi ho riportato, e che leggerete nel “Primo passo su Marte” quando comprerete il libro – versi in cui Marte, e lo ripeto, non è che la Terra, perché nessun Marte, per Merlin, infine esiste… così ho già detto… seppur cielo esista, e chi è pronto a sfidarlo; e seppur guerra esista, come il suo dio, e così chi la o lo combatte).
Ovviamente che Marco non se la prenda a male, visto che questo è il confronto che sempre lui mi ha domandato… cioè il misurarsi sull’opera, tramite i testi, e non sul personale.
E qui mi fermo, anche se, ovviamente, ho indagato ulteriormente sul senso e potrei riportare altri rimandi, altre componenti che comunque ho colto, anche in positivo (per quel che concerne: il ‘tentare’ di costruire un’opera totale alla Parsifal, personaggio che pare abbia ispirato l’autore nel formulare questo suo lavoro – …il ‘tentare’… così ho detto, si badi bene… non l’impegnarsi ’sacrale’, fino alla morte, per raggiungere la ‘consistenza’ o ‘l’evanescenza’ del Graal, lasciando, appunto, quell’impronta nella storia e nel tempo) ma ciò potrebbe sembrare una sorta di edulcorazione in chiusura di quel che infine resta dell’ossatura portante (cioè dell’anima) di questa sua fin troppo assemblata navicella spaziale “per sì breve viaggio”, direbbe Dante, (e da tale, ulteriore, metafora, il diramarsi di altri infiniti discorsi che non potrebbero che far capo a personali dichiarazioni di poetica – cioè a personali soluzioni del dilemma, al fine di cominciare a mettere un qualche punto fisso… e punti fissi, paletti, aste, torri, fari, pertiche, obelischi, per chi mi conosce, sa che son sempre pronto a conficcarli al suolo o in cielo, quindi non mi si provochi in tal senso, già risulto stucchevole nel solo dirvi questo).

Con grande affetto per Merlin, gli consegno questa lettera e la promessa che, se vorrà, un giorno, andati all’osservatorio di Trieste, gli mostrerò dove campeggia il mitico volto umano, già notato da secoli, che pare sbalzato su quel rosso e caldo pianeta (vedi foto in apertura).

(Gian Ruggero Manzoni, Terra chiama Marte… Marte chiama Terra, sul web: http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2007/02/26/terra-chiama-marte-marte-chiama-terra/)

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