Il cielo di Marte (Einaudi, 2005)

Una discendenza europea (di Salvatore Ritrovato)

Piemontese all’anagrafe, italiano di lingua, europeo di poesia

De Il cielo di Marte di Andrea Temporelli disarma, prima del titolo, il retrocopertina, privo di notizie biografiche ma pronto a fornire indicazioni su latitudine e longitudini poetiche (linea lombarda, impegno, quotidiano in forma di epopea, cronaca personale, fantastico…) intorno al noto melting pot tardo-novecentesco. Andrea Temporelli è Marco Merlin, e la sua poesia è anche il frutto di uno studio appassionato della poesia contemporanea (di cui è giusto rammentare l’ormai decennale direzione di «Atelier», e il recente saggio Poeti nel limbo, pubblicato da Interlinea). Piemontese all’anagrafe, italiano di lingua, europeo di poesia (se mai esiste una “linea europea”, all’insegna di quella «fermezza dell’articolazione del discorso» di cui parlava Mandel’štam a proposito di Dante). Mi pare fuorviante pensare, per Il cielo di Marte, a una linea lombarda. È un quadro ormai stantio di riferimento. Sarei per dare un altro suggerimento al lettore, partendo da aspetti più elementari. Composto di trenta poesie, senza stacco fra l’una e l’altra, la raccolta d’esordio di Temporelli appare come un continuum calcolato sì, ma senza astuzie, di situazioni in cui l’autore osserva e riflette, in una cadenza formalmente (e non a caso) “neometricista”, sulle modalità esistenziali della verità della poesia, sin dalla Diceria del poeta che inaugura la raccolta con un incipit decisamente, e dolorosamente, letterario: «“Poiché per lungo tempo ti ho aspettata / e vanamente alle solite vie”…». È una parola, questa di Temporelli, consapevole di essere stata già, attraverso la tradizione, pronunciata e, nella vita, ascoltata: una parola che si arricchisce del pensiero di sé nell’atto in cui si ripresenta nuovamente all’ascolto del prossimo. Non mi pare azzardato portare dunque l’accento su una discendenza europea (da Eliot a Heaney), passando naturalmente da autori italiani (dagli ultimi classici ai più giovani). E veniamo al titolo, così poco referenziale. Nulla ci dice se sostiamo nell’anticamera dei presagi simbolico-intimistici o esistenzial-minimalisti che allignano nell’odierno panorama poetico italiano. Per comprendere Il cielo di Marte, anzi per ‘vederlo’ non basta la sonda: ci vuole molta immaginazione. Il cielo di Marte non è un varco imperscrutabile, ma l’immagine – sbozzata quasi da una visione di fantascienza, tra Solaris e 2001 Odissea nello spazio – di un destino che ci lega fino alla fine, oggi non meno di ieri, all’universo. Il tempo del Primo passo su Marte, che chiude il libro, con versi di straordinaria intensità, è nientemeno il presente: «Talvolta accade (pensa al primo uomo / su Marte) di trovarsi dentro a un angolo / dell’universo vergine e inondato / di luce…»). Non si tratta di individuare un percorso fuori di questo mondo («Ecco, quello che pensi sia dio e in fondo / non è che una radura / che ti comprende…»), ma di intravedere lo scenario finale possibile, sorta di «nessun luogo in cui andare o far ritorno», che trascende le nostre possibilità e pure «accade […] ogni giorno». Il titolo apre al futuro, a un orizzonte limite (o ‘illimite’) in cui il gesto – lento, parsimonioso, paziente – della poesia riesce ancora, scevra di narcisismo autoriflessivo, non però di una sua ansia argomentativa ed educativa, a leggere nelle pieghe (ma mi vien da dire nelle ‘piaghe’) di ogni discorso, sia dell’autore sia dei suoi plurimandatari, sulla vita. La poesia, dunque, sonda da vicino la lingua di tutti i giorni, fra lacerti dialogici e sgranature liriche, tensione interrogativa e indagine gnomica: nulla, infatti, appare colto nella dimensione ‘pura’ (se questa ancora esiste) della canzone, cui insistentemente riporta la libera tessitura metrica di settenari e endecasillabi; piuttosto qualcosa lo allontana da quell’ideale, in una palude che ne invischia il ricordo in una trama apparentemente più ospitale, e intanto ne travasa, con esiti che trovo molto convincenti, senza cedimenti nichilistici, i vari registri in una corrosiva ironia epica del senso della storia, della poesia, e di ogni nuova sfida non superflua, anzi necessaria, al suo valore etico.

(Salvatore Ritrovato, rec. a Il cielo di Marte, «Poesia», XXX, 217, giu. 2007, p. 63)

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