Andrea Temporelli, Terramadre (2012)

Un’anticipazione in tre frammenti (di Rossano Astremo)

Una voce che fa i conti con la tradizione italiana, ma è sempre attenta a cogliere ogni possibile parabola di un suo oltrepassamento

Andrea Temporelli, pseudonimo di Marco Merlin, nato nel 1973 e direttore della rivista «Atelier», fucina di contenuti creativi e critici di alta qualità, lettura indispensabile per tutti coloro i quali amano la poesia italiana contemporanea, ha all’attivo la pubblicazione di un importante libro di versi, Il cielo di Marte, edito nel 2005 da Einaudi.

Nei versi inediti donati a «Ore piccole» Temporelli conferma, seppure nel respiro breve di tre composizioni, alcune caratteristiche emerse nel suo esordio. Una voce che fa i conti con la tradizione italiana, ma è sempre attenta a cogliere ogni possibile parabola di un suo oltrepassamento, in cui si assiste all’emergere di un dialogo intenso fra i piccoli eventi che scandiscono il quotidiano, declinati in forma di epopea, e il continuo interrogarsi sulla percezione dell’esistere: in sintesi, la fruttuosa disputa tra azione e pensiero. Una voce che, in opposizione all’irrompere dominante del verso libero, utilizza la docile gabbia dell’endecasillabo per condurci in una Terramadre, luogo da cui tutto parte e nel quale tutto ritorna, popolata di spazi, odori, corpi e voci colti in una sospesa dimensione teatrale.

In scena un tetro spettacolo, una sorta di ballo, «sopra il cenere muto della storia», nel quale prendono forma dialoghi minimi, in cui non c’è differenza tra attore e spettatore, tutti abitanti di questo spazio primigenio, «tutti esiliati in patria, / mocciosi capricciosi».

Tra la folla indistinta, spiccano alcune figure: i prediletti, «un ottimo / concime nel cortile disertato / dall’infanzia più feroce e felice», il giardiniere, che «abbandona i suoi figli nel fogliame / perché le spine diano ispirazione / da sole», e, infine, la sconcia locandiera dell’albergo, che offre il suo «grembo sterile», rubando la scena, brillando su tutti, invocando, nel dileggio, la protezione dei padri, «mentre gode».

Conclusione carnale all’interno di una partitura scenica nella quale il pensiero della fine aleggia imperante, nella certezza che il dio porco grufola sotto la pietra, profanando ciò che è materia. Ciò che resta è una «Terramadre più che morta / dimenticata».

(Rossano Astremo, nota introduttiva a Terramadre [tre frammenti inediti], in «Ore piccole», II, 5, apr.-giu. 2007, pp. 93-4)

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