Nel cuore pulsante dell’epoca (di Massimo Morasso)
E lo fa, tutto questo, con un candore radicale, quasi a riprendere, al di là del suo finora unico, “attrezzatissimo” volume di saggistica, lo strenuo corpo a corpo con l’idea della poesia che va inseguendo da anni nei suoi donchisciotteschi editoriali pubblicati su «Atelier»
Di questi tempi, ciò che salta agli occhi di fronte agli affondi militanti sulla poesia delle ultime generazioni in Italia è lo sforzo che la critica compie per consolidare un’autorità, dando per acquisito, ormai, l’oltrepassamento di quella “linea epocale” oltre la quale si va da anni preannunciando un al di là del Novecento (e del novecentismo).
In questo, molti dei critici oggi à la page si assomigliano. Prede anch’essi di un sogno immancabilmente progressivo, per loro l’interiorizzazione critica si realizza sempre ancora nel cono d’ombra di uno storicismo che in caccia del nuovo si imbatte immancabilmente nel fantasma di quella medesima tradizione che deputa al nuovo, appunto, di superare: arrendendosi così a una sorta di catalogazione fossile del fatto letterario, foss’anche, questo fatto, come accade, il frutto acerbo o acerbissimo di un’esperienza in via di formazione.
Tacendo di alcune rare eccezioni forti e alte, manca, in generale, l’esercizio di una critica antagonistica, frutto di una lettura “multipla” in grado di scavalcare d’un balzo ogni ossessione storica e disporre lo spirito contemplante a esaminare una pagina che meriti questa fatica su vari piani insieme: dal sentimento del destino, come scrisse sapidamente Cristina Campo a proposito del suo ideale lettore-paleografo, all’opportunità di evitare il concorso delle vocali. Ma se dire questo è dire una cosa ovvia (i talenti supremi alla Contini sono rari, si contano sulla punta delle dita di una mano, in un intero secolo), non altrettanto ovvio è rilevare come, oggigiorno, stiano diventando rari anche i lettori capaci di trascorrere indugiando senza troppi eccessi psicologistici fra i tre livelli più essenziali di una critica che sia degna di questo nome: il livello filologico-ermeneutico, naturalmente, il livello fisionomico e quello gestuale. Non è anche questo, dopotutto, un segno chiaro della meschinità dell’epoca in cui ci è dato di vivere?
A differenza di tanta critica centripeta, dove si avverte spesso come un ingombro l’impostazione della mente che gioca a rinchiudersi nel ciclo vertiginoso dei rimuginamenti libreschi, in Mosse per la guerra dei talenti Marco Merlin punta a collegarsi direttamente al cuore pulsante di quest’epoca, si apre sul mondo delle cose, cerca ogni volta daccapo di trovare la via che dalla lettura di un testo d’autor giovane al suo ripensamento conduce difilato nella realtà. E lo fa, tutto questo, con un candore radicale, quasi a riprendere, al di là del suo finora unico, “attrezzatissimo” volume di saggistica, lo strenuo corpo a corpo con l’idea della poesia che va inseguendo da anni nei suoi donchisciotteschi editoriali pubblicati su «Atelier».
Ma sull’apparente candore di Merlin occorre intendersi. Non esiste miglior critico del Merlin critico che Merlin stesso. I micro-articoli che ha raccolto in questo bel libretto sapiente, ci avverte l’autore in sede di Avvertimento (sic),
rappresentano un omaggio interessato ai poeti della mia generazione, che non esiste. Nascono da uno sguardo ambivalente, in parte critico e in parte strategicamente poetico; uno sguardo consapevolmente interno, con tutte le virtuose distorsioni che ciò implica, a partire dall’azzardo di un’indagine precoce e sommaria.
Ecco, non si potrebbe dire meglio, probabilmente, sul movente segreto e, insieme, sul destino di scrittura di un lavoro per tanti aspetti anomalo come questo: lo sguardo “strategicamente poetico”, le “virtuose distorsioni” che animano queste paginette leggere e vaganti non osano di meno, in realtà, che trasformare uno spazio sentimentale in uno spazio di umana dignità.
Frutto dell’eccellenza di Merlin è l’aver trovato lo stile adatto al compito inconcludibile che si è assegnato. Ma va anche detto che pur praticando con gusto e sobria dissimulazione l’arte del flaneur, talvolta neanche a Merlin riesce di sfuggire al peccato capitale della iperinterpretazione (che qui più che altrove non è, a conti fatti, che la conseguenza di un eccesso di generosità): non c’è chi non veda, spigolando fra i testi che fanno la smilza materia del libro, come certi commenti siano assai più raffinati ed interessanti del loro oggetto.
Grazie a un formidabile talento prospettico, in Mosse per la guerra dei talenti Merlin colloca la propria introspezione a un livello molto più elevato di quello psicologico, della semplice presa di coscienza. Raccolto interamente al centro di sé, nel vivo dell’esperienza del giudizio l’osservatore-commentatore dimentica, per fortuna, di guardare direttamente e troppo a lungo se stesso. Ora stabilisce en passant vincoli di complicità con la realtà testuale e umana di cui si occupa (talvolta fino al limite dell’identificazione: come quando parla dei presupposti del percorso poetico di Gabriel Del Sarto, uno fra i più interessanti dei poeti nuovi, dando per così dire il la a un piccolo, vibrante peana intorno al miraggio in fondo così caratteristicamente merliniano di una poesia
che nasca dall’esperienza umana e ne abbia le stimmate. Che patisca in ogni sua cellula la tensione alla comunicatività e, insieme, la pressione del mistero. Che si nutra di sapienza letteraria senza saturarsi, pronta invece a riscoprire il soffi o poetico della leggerezza che salva etc. etc.),
ora, all’estremo opposto, giunge alla dissociazione più completa, mantenendo le distanze e rifiutando l’identificazione. È proprio questo, in fondo, che colpisce anzitutto il lettore di questo Merlin soltanto apparentemente “minore”: la sua vigorosa capacità di restituire allo spunto interpretativo o all’abbozzo meditativo la consonanza con uno spazio interiore nel quale, ogni volta ex novo e senza garanzie, si dà quel fondamentale sdoppiamento autocritico con cui la mente accede alle sue profondità. Soltanto blandamente filosofica, nel complesso, la riflessione che percorre gli articoli di Merlin ha in molti punti il piglio sbarazzino e irriverente dei pensieri spettinati di Lec. La prosa, qui, si nutre tanto del sicuro talento dell’aforista (“La poesia sta alla giovinezza come l’innamoramento sta all’amore”) quanto della sorniona acutezza metacritica del critico scafato – un’acutezza sorretta spesso, fra l’altro, da un robusto, felice senso dell’autoironia (“Siamo diventati tutti lombardi da tempo”). Tuttavia, sarebbe un errore credere che fra nomi, temi ed esperienze stilistiche anche diversissime, le tappe di questo itinerario breve nell’alveo germinante della società dei poeti giovani delineino, per giustapposizione e accumulo, un cammino disomogeneo, meramente (sterilmente) “impressionistico”. Si è accennato prima al passo pseudo-voyeuristico che attraversa da capo a fondo questa raccolta scientemente antimetodica. Ma si tratta, a ben vedere, di un passo tragico, niente affatto autoreferenziale, di un passo che è mosso dall’ethos dell’incontro con l’altro da sé, di un passo, ancora, cui corrisponde in filigrana un’ansia implacabile di (auto)riconoscimento. Il lettore intrigato di Mosse per la guerra dei talenti non si soffermerà sulla noiosa questione delle presenze e delle assenze, ma troverà la propria più alta ricompensa nella coscienza riflessa di un’intima coesione.
(Massimo Morasso, postfazione a Marco Merlin, Mosse per la guerra dei talenti, Santarcangelo di Romagna, Fara 2007, pp. 150-154)
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