Il cielo di Marte (Einaudi, 2005)

La casa in cui hai sempre abitato (di Elisabetta Pigliapoco)

sembra che il poeta voglia sempre mantenere le distanze: in primo luogo da se stesso, scegliendo un altro sé, un’altra identità a partire dalla decisione di utilizzare uno pseudonimo, essere chi non è stato […], chi non è più; in secondo luogo dal lettore

È una poesia con la P maiuscola quella a cui guarda Andrea Temporelli, pseudonimo dietro il quale si cela/rivela l’identità di Marco Merlin, scelto per dare alla luce la sua creatura poetica, Il cielo di Marte (Einaudi, Torino 2005). Temporelli è un poeta padre (per parafrasare una formula cara a Pier Paolo Pasolini) che della paternità ha fatto metafora della poesia e dell’essere uomo. Essere padre significa fare i conti con la parola responsabilità («Quel giorno avrò sicura la pronuncia / mi farai responsabile») che esiste in ogni momento di incontro con l’altro; significa mettersi in ascolto, attendere la risposta silenziosa di colui che sa amare, affidarsi agli altri e al contempo a loro (al figlio, ai propri studenti, ai destinatari della propria esistenza, della propria voce) affidare una memoria da tramandare, individuale o collettiva che sia. Non è certo approdo semplice doppiarsi la pelle per rivestire un ruolo così profondamente impegnativo, occorre partire da lontano, indagare la propria origine, riconoscere le proprie radici per poi gettare il seme che apre le zolle e rinnova la memoria, trasferendola da un io a un tu sconosciuto, nello «spavento di somigliarsi», con lo «smarrimento […] con cui porti l’offerta del tuo niente», «nello spasimo di congiungersi agli altri».

Io, tu, noi: nella metamorfosi continua dei soggetti e dei destinatari dei versi si compone una partitura di voci da cui scaturisce un dialogo interrotto che spezza il discorso innervandolo di parentesi, corsivi, interrogazioni che immediatamente evocano un nume tutelare piuttosto comune a molti poeti dell’ultima generazione, Vittorio Sereni, chiamato esplicitamente a vegliare su questi versi nell’epigrafe che apre il libro.

Il padre, si sa, non può dare letteralmente alla luce nessuna vita, può essere il suo forse solo un percorso verso la luce («impara il giorno alla luce che sale»), che non è data senza l’ombra che essa proietta («e all’ombra della quercia… impareremo tutto da soli»). «La luce sarà un prodigio quieto»: non c’è posto per la folgorazione, l’evento nouminoso; è lenta a salire, è gioia impastata di dolore, se gli aggettivi a cui viene accostata, in efficacissimi ossimori, sono «feroce», «faticosa», nell’uomo che si definisce «felice e triste sempre». È umanissimo il passo incerto di chi intravede «ombre leggere», e incede verso un «buio tiepido» che lo attende alla fine del viaggio. Spesso si ferma sulla soglia, «che non offre riparo», ma è «confine aperto a ogni invasione di luce», e da lì percepire la distanza tra sé e gli altri, «la misura che non è sicura come credi», saperla scorciare, individuare il punto «dove io consumi e tu cominci in me», o saperla mantenere, perché «è la distanza che ci insegna a carpire / la luce delle cose». In effetti, più che altro, sembra che il poeta voglia sempre mantenere le distanze: in primo luogo da se stesso, scegliendo un altro sé, un’altra identità a partire dalla decisione di utilizzare uno pseudonimo, essere chi non è stato (se è vero che Andrea era il nome del fratello che lui non ha mai potuto conoscere), chi non è più; in secondo luogo dal lettore, contraddicendo la propria intenzione di coinvolgerlo rivolgendosi a lui talora direttamente («Volta la pagina, subito») o attraverso interrogazioni e dubbi a cui viene chiamato in qualche modo a rispondere.

In realtà il lettore viene continuamente depistato: ogni qualvolta crede di avvicinarsi a toccare il centro pulsante di questa poesia, la traiettoria devia improvvisa, il percorso scarta, l’io poetico si cela dietro una serie di figurazioni o allegorie che per un’intima contraddizione rispetto alla volontà dell’autore rendono il discorso più astratto. Il poeta si allontana, non si lascia prendere e non è facile dire se ciò rappresenti il limite o il fascino segreto di questa poesia. Chi è allora ad essere appena sceso su Marte? A chi appartiene lo sguardo che si alza verso quel cielo? È forse Parsifal (il cavaliere errante folle puro secondo un’etimologia indiana, colui che «penetra nella valle senza dubbi e senza fede»), e che deve scontare la sua purezza incrostandola di materia concreta, di vita vera, così come la stessa poesia deve incrinare la perfezione di una raffinatezza metrico-formale – la struttura che riproduce il modello della canzone petrarchesca – spezzando la sintassi, mescolando aulico e prosastico, con una operazione intellettualistica che a volte appare eccessivamente scoperta.

Marte non è il pianeta rosso scandagliato dalle sonde spaziali, è più vicino di quanto si pensi, è il mondo sconosciuto che pure viviamo tutti i giorni, e il cavaliere a volte si scopre nei panni terreni di un «eroe scassato». Il suo destino, come si è detto, è quello del viaggio, lento e graduale, verso la responsabilità di padre e di uomo in un tempo che è eterno e breve («è finito il tempo concordato») insieme, fatto di «stagioni» che portano sapori noti, dove «ogni stupore ha avuto un nome» anche se «il passaggio / dell’attimo presente / […] non rappresenta niente», ciò che davvero conta è rimanere «eterni e mortali». Da questo connubio impossibile, dall’apparente inconciliabilità, si dipana la poesia di Temporelli, nella coscienza di un destino conosciuto e nel tentativo indomito di superarlo. Un destino che va «tradito», «spezzato», disfatto, per trovare «un varco», essere appunto «eterni», ma comprendere anche «quanto resti insormontabile il valico d’anni». La finitudine si specchia nell’eternità come «la vita splende nella morte / perfetta».

La vita reale si incontra all’improvviso, alla fine del viaggio, è «la casa in cui hai sempre abitato» e che vedi per la prima volta, è un cielo inesplorato, tanto terso da essere insostenibile; è la vita dove si mescolano verità e menzogna: la verità di una poesia che sappia dire, prendendo le distanze da Montale, «ciò che sappiamo», consapevole tuttavia che prerogativa della parola è quella di mentire, con un senso che si gioca tutto sull’ambiguità etimologica del verbo.

Il viaggio della poesia di Temporelli è in realtà appena iniziato, nell’ultima poesia si intravedono i segni di un nuovo cammino dove il rigoroso formalismo lascia il passo a un dettato più sciolto, forse ne risulterà una poesia più nuda, fuori dal cono d’ombra proiettato dalla presenza di quei maestri (a Sereni si aggiunga Luzi) – ancorché qui pienamente consapevole quanto più esplicitata – e così finalmente libera da una lettura aprioristicamente condizionata.

(Elisabetta Pigliapoco, «La casa in cui hai sempre abitato», in «Pelagos» n.s., 11, settembre 2007, pp. 90-92)

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