Il cielo di Marte (Einaudi, 2005)

Quando il critico è anche poeta (di Carlo Cipparrone)

la sua produzione letteraria infatti non è mai gioco esibizionistico, compiaciuto exploit di erudito specialismo fine a se stesso, ma impegno totale, in cui si coglie etica e sentimento, slancio e conoscenza, profondità e disciplina tecnica, confessione e gusto della rappresentazione.

È accaduto spesso in passato che vari autori assumessero uno pseudonimo, usandolo stabilmente per firmare le proprie opere (vedi, per limitarci al Novecento letterario italiano, Svevo per Schmitz, Palazzeschi per Giurlani, Aleramo per Faccio, Moravia per Pincherle, Silone per Tranquilli, Banti per Lopresti, Fortini per Lattes, ecc.). Difficile era invece, fino a qualche tempo addietro, trovare un solo autore avvezzo ad alternare il suo vero nome e quello posticcio a seconda del diverso genere dei suoi scritti; ciò che, con un po’ di civetteria, fa oggi il critico (e poeta) Marco Merlin – alias Andrea Temporelli –, il quale suole firmare col proprio nome i suoi testi critici e con lo pseudonimo quelli di poesia. Evidentemente egli pensa così di poter sdoppiarsi nei due diversi ruoli e di riuscire meglio a esprimere una personalità poetica distinta da quella del saggista; ma la sua è una mera illusione, perché il diaframma che ritiene in tal modo di frapporre tra la sua produzione critica e quella creativa è come una sottile parete di cartongesso che divide un vano in due, ma che una porta rende comunicanti. Merlin non è il solo a ricorrere a questo espediente; analoghi sono infatti i casi, tanto per fare qualche nome, di Antonello Satta Centanin e di Tommaso Pomilio (meglio noti rispettivamente come Aldo Nove e Tommaso Ottonieri); per cui non è azzardato asserire che, in campo letterario, l’eteronimia sembra ormai diventata di moda. Ciò detto, mi affretto ad affermare, a scanso d’equivoci, che non intendo condannare tale utilizzo, né trarne motivo di facile ironia, essendo ogni scrittore libero di far uso di quanti più pseudonimi vuole (Pessoa ne adoperava addirittura tre o quattro), anche se la mia preferenza va a chi, restando fedele alla propria identità anagrafica, evita di creare ogni possibile confusione nei lettori.

Scusandomi per il lungo preambolo, dico subito che, delle nuove leve dei trentenni messisi in luce nell’ultimo decennio, Merlin-Temporelli è tra i più attivi, sia come critico che come poeta. Dalle sue note recensorie e dai suoi saggi, che puntualmente affida alle pagine della rivista “Atelier” – di cui è condirettore – e di altri periodici letterari, nonché dal suo recente Poeti nel limbo (sorta di excursus di falquiana memoria della più o meno “giovane poesia” d’oggi; e, più precisamente, indagine approfondita sui poeti d’età compresa tra i 40 e i 50 anni), traspare infatti il suo acume di attento studioso della poesia contemporanea. Egli da vari anni, oltre a dedicarsi ai poeti “laureati”, è seriamente impegnato a rintracciare voci valide tra i poeti delle nuove generazioni. Non mi interessa qui tanto discutere le regole a cui si attiene per procedere alle sue scelte, opinabili finché si vuole ma supportate sempre da motivazioni critiche intelligenti, quanto riconoscergli l’impegno costante con cui tenta di mettere ordine nello sconfinato dedalo dell’attuale poesia, cercando di togliere dal limbo autori ingiustamente ignorati dalla critica. Il suo lavoro insomma risulta utile, più di quello di tanti superficiali o faziosi compilatori di studi critici e antologie. L’unico appunto che gli si può muovere è forse quello di avere trascurato i poeti meridionali, visto che in quel suo libro, tra i sessanta poeti complessivamente trattati, ne figurano soltanto cinque (il lucano Salvia, i pugliesi Bonito e Damiani, il campano Frasca e il molisano Gardini).

Meno conosciuta, ma ugualmente degna d’attenzione, è la sua produzione poetica, che a tutt’oggi consiste nel volumetto di versi Il cielo di Marte, nella silloge La buonastella, e nella recente, organica e più folta raccolta einaudiana che riprende il titolo del libretto d’esordio e comprende, insieme a nuovi testi, poesie tratte dalle due sillogi precedenti.

Sia nei suoi scritti di critica che nelle poesie è evidente il suo serio proposito di approfondimento; la sua produzione letteraria infatti non è mai gioco esibizionistico, compiaciuto exploit di erudito specialismo fine a se stesso, ma impegno totale, in cui si coglie etica e sentimento, slancio e conoscenza, profondità e disciplina tecnica, confessione e gusto della rappresentazione. È, il suo, il caso in cui un autore si palesa diacronico tra le opere di saggistica e di poesia; anche se la sua scrittura, sempre lievemente eccitata, risulta più spessa, sicura e precisa nei saggi.

Infatti, pur riconoscendo allo scrittore piemontese una indubbia attitudine per i due diversi generi letterari, mi sembra legittimo osservare che, mentre il citato saggio (e tutta la sua produzione critica) si inserisce autorevolmente in un ricco fiorire di studi sulle nuove forme ed esperienze poetiche (apportandovi, come ho già detto, un contributo prezioso, consistente nell’individuare, nell’affollato panorama di presenze e di fermenti, autori meritevoli di attenzione), la sua recente raccolta di versi, seppure valida per i momenti di autentica poesia che riesce ad esprimere, stenta ancora a trovare una sua autonomia, risentendo palesemente dell’influenza di un retroterra culturale, tanto da far trapelare l’evidente consentaneità con la poesia novecentesca d’origine lombarda, e più specificatamente con certi modi prosastici, tra gli altri, di Raboni e Giudici; per sottacere dei tardi echi montaliani.

Nonostante le suddette affinità, che oggettivamente traspaiono dalla sua poesia, non si può tuttavia relegare il nostro tra gli epigoni, poiché, con gli ovvi limiti che quasi sempre per forza di cose rivela non solo l’opera di un giovane, ma ogni opera (come riconosce egli stesso quando afferma: nessuno è tanto abile / da occultare nei versi tutti i vizi), questa sua raccolta mi sembra complessivamente apprezzabile, perché reca in sé quel quid di verità che è sempre più raro trovare anche in opere di autori di più consolidata fama. Insomma Merlin-Temporelli non è certo un poeta velleitario o sprovveduto, anche se a volte la sua scrittura va oltre le righe, eccede in esuberanza, stenta ad adeguarsi alla misura concisa ed essenziale dei suoi stessi presunti modelli, e il gusto di strutturare entro una formula prosodica un po’ troppo ampia e generosa la sostanza del suo dire rischia di renderne incontrollabile il fuoco genuino, che egli non riesce sempre a dominare sufficientemente e che, talvolta, gli scappa da tutte le parti. Tuttavia occorre riconoscergli il coraggio di tentare di raggiungere un inesplorato cielo, per usare una sua suggestiva metafora.

Se è ovvio dire che non tutte le sue poesie sono di uguale livello e spessore, è giusto invece riconoscere che ognuna contiene in misura diversa spunti e intuizioni accattivanti, anche se in alcune la parola si fa greve, s’intorbida e annaspa, quando il poeta mostra una troppo tesa volontà d’impegnarsi con le cose del quotidiano. In altre poesie, che costituiscono la maggioranza, emerge la forza ideologica di una poetica fermentata da lieviti sostanziosi; e il suo modo migliore di porsi di fronte alla realtà è esprimere il proprio sbigottimento al cospetto di una tormentata storia di accadimenti pubblici e privati.

Va anche aggiunto che i versi di Merlin-Temporelli non sono facilmente estrapolabili dal loro contesto, poiché costituiscono una poesia dove il costante flusso ideologico difficilmente si rapprende in immagini di particolare evidenza, tanti sono i motivi che la alimentano; essa ha origine da una personale visione del mondo, che sarebbe molto interessante, avendo tempo e spazio a disposizione, portare compiutamente in luce. La sua poesia esula da ogni classificazione definitrice per assumere in sé quella pluralità di valori che ha la propria origine in un’esperienza totale di vita. Calza a pennello qui ciò che da più parti si sostiene, ossia che all’operazione artistica e creativa non nuoce, ma semmai ne rafforza il tessuto connettivo, una visione precisa del mondo e della vita, una preparazione critica e latamente filosofica che agisce da elemento chiarificatore nel magma confuso e incandescente dell’ispirazione immediata. Ne risulta, infatti, come in questo caso, una poesia dove la trama, insieme razionale e fantastica, riesce a fondersi, a combinarsi nella costruzione delle immagini, rivelando un amore-dedizione che spesso raggiunge l’obiettivo prefissato. Il lettore sente sotto gli occhi, pagina dopo pagina, verso dietro verso, crescere un mondo vivo, quell’universo di sentimenti e pensieri in cui egli stesso è radicato. Pur con tutti i suoi accennati limiti, questa poesia infatti mostra spesso una pelle nuova, si fa comunicazione suadente che stabilisce un rapporto al di fuori degli schematismi e degli sperimentalismi limitanti e soffocatori della comune pratica poetica. Per cui, quella di Merlin-Temporelli, è già una voce di distinguibile timbro, in stretta sintonia con quella stessa del critico.

La rottura con un linguaggio duro a morire (che evidenzia ancora in tanti giovani autori la presenza di scorie ermetiche o della neoavanguardia); la cadenza plurima che si fonde sempre con l’ampiezza dell’immagine, il ricorso a un’aspra musicalità che ricrea nel tessuto della poesia l’atmosfera drammatica della storia dell’uomo contemporaneo: la parola che perde l’ambiguo valore soggettivo per farsi mezzo preciso d’oggettiva scoperta: sono le cose che più contraddistinguono quest’opera. Il tutto nel segno di una costante antiretorica.

Le accennate ascendenze culturali sono puramente indicative, perché è comprensibile quanto la formazione di Merlin-Temporelli abbia appreso dal rapporto di frequentazione con poeti, filosofi e critici. In proposito sarebbe quanto mai interessante rifare analiticamente il suo originale percorso culturale, alla scoperta di confluenze e rapporti che propongono all’attenzione un’opera e un sentimento poetico fuori dalle secche attuali di una letteratura / che puzza di pesce marcio e sparge cenere di versi inerti; mentre lui, applicando la sua ossimorica chimica grammaticale, diventa lirico e leggero, falso e vero mentendoci perché sempre sincero.

(Carlo Cipparrone, Quando il critico è anche poeta. Sulla poesia di Merlin-Temporelli, in «Capoverso», 14, luglio-dicembre 2007, pp. 72-5)

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