Il cielo di Marte (Einaudi, 2005)

Precondizioni interpretative o Nonostante la crisi (di Mimmo Cangiano)

La sua poesia lavora sui concetti di tempo e gioia, dove la seconda si caratterizza come superamento del primo (luogo in cui colpa e violenza sono inevitabili)

Retrocedo anagraficamente di qualche anno per parlare di quello che, a mio giudizio, è uno dei libri più interessanti di questi anni: Il cielo di Marte di Andrea Temporelli (pseudonimo di Marco Merlin, classe ’73).

La sua poesia lavora sui concetti di tempo e gioia, dove la seconda si caratterizza come superamento del primo (luogo in cui colpa e violenza sono inevitabili). A ben guardare però questa poesia si incentra soprattutto sul problema del superamento della forma e ciò continua a sembrarmi (si sarà ormai capito) una questione di importanza capitale, una sfida (anch’essa etica) che ha in sé dell’impossibile. Questo perché la forma, detto in breve l’unificazione e l’attualizzazione posticcia che noi compiamo sulla realtà per poterci muovere in essa, non è una qualche chimera tirata in ballo da un ragazzino ungherese un centinaio d’anni fa, ma è un processo cognitivo che sancisce un fatto inquietante: la vita è in sé contraddittoria, si realizza nelle forme che sono la sua antitesi. Il cielo di Marte è un tragico libro sul tragico, attraversato da parte a parte dalla colpa di non poter essere fuori dal tempo, perché il tempo, il divenire, è il non-consistere e in esso non c’è giustizia. Nel tempo si è cosa fra le cose, il soggetto in esso non può individualizzarsi, può solo entrare in relazione, e ogni relazione è vista come una battaglia, cioè come un atto di violenza. È dunque anche un libro sulle relazioni, ma ogni relazione, se vuole superare il suo essere uno “stupro” (ed è uno stupro in quanto ogni entrare in contatto è un atto di “potenza”), deve spingersi al sacrificio di una delle due parti, al sacrificio del “giusto”. «Poiché prendi parte alla violenza di tutte le cose», scriveva 99 anni fa Carlo Michelstaedter, «è nel tuo debito verso la giustizia tutta questa violenza. A togliere questa dalle radici deve andare tutta la tua attività: — tutto dare e niente chiedere: questo è il dovere»[1]. Soltanto chi ha saputo trarsi fuori dalla dialettica del dare per avere può realmente consistere, può trascendere il tempo.

VERIFICA DELLA STORIA

Sì, va bene, l’amore e tutto il resto,
ma qui fanno domande
precise, perché vivere non basta
e dio non è possibile. Da secoli
(Con questo inchiostro magari s’impastano
le loro voci? Presto
diventeranno calce senza eco)
Un confine, cos’è?
Un nome, lo spavento
di somigliarsi (Ora anche tu sei me,
proprio in questo momento)

Dirai che non c’è storia e forse annaspo,
che la morte non è
un privilegio, ma un punto di vista.
Non hai scelta. Pensaci bene. Qui
con me a rispondere (Ma un comunista,
in cosa crede?) Diaspora
di un popolo minuscolo tra il sì
e il no dei questionari,
patria non c’è, è importante
trovare le pianure, i fiumi, i mari
l’Ossezia sull’atlante

Quest’anno da una terra di ossa piccole
cominceremo, poi
saranno guerre mondiali, problemi
d’ecologia, proposizioni astratte,
ricerche, controversie, dati, schemi,
un lessico più ricco,
eroi, battaglie grandiose e disfatte
clamorose (Non sanno
con che angoscia li fissi.
Per loro cominciare anche quest’anno
sarà molto bellissimo)

Muori dunque nelle tue presunzioni,
muovi verso di loro
senza il fardello di cui t’ammantavi.
Che cos’hai da insegnare veramente
se non lo smarrimento agli occhi avidi
di tutte le visioni
con cui porti l’offerta del tuo niente?
Che sia un plagio d’amore
questo mestiere povero
e splendido, la pasta di scrittore
cotta alle loro prove

Non credere, perciò, che queste frasi
siano embricate male,
la storia c’è, la torsione di voce
non è questione di stile, non più:
si rischia d’essere se dalla foce
l’io si apre nello spasimo
di congiungersi agli altri. Dire tu,
dire io, dire noi
non è atto di superbia
davanti a questi volti, purché poi
passi a virgole e verbi

Ma le trappole sono ovunque, ed una di queste è proprio l’illusione di aver trasceso il tempo: «adesso, se hai trovato il luogo, l’ubi / consistam del pittore. E non pretendi / bravure. Volta la pagina, subito», questo perché trascendere il tempo, trascendere il luogo dell’inesistenza, non può voler dire creare forme, perché le forme sono solo l’illusione che il tempo ci elargisce, l’illusione, con effetti concreti e terribili, della sua non esistenza. Ma frequentiamo per un attimo anche l’altro grande nodo del testo: il linguaggio—nome—comunicazione. Temporelli si serve della critica del linguaggio sulla scorta della sua visione etica: i nomi sono anch’essi una forma, una sistematizzazione falsa del reale. Fare davvero tua la lingua di un Altro, comprendere realmente ciò che un altro sta dicendo, sarebbe come fare un passo in avanti, un passo in un’umanità diversa, oltre la forma e oltre la contingenza: entrambe foriere di ingiustizie.

LA TENDA DI MAMRE

Il giorno che sarà quel giorno io
vedrò spaccarsi i nomi
(In quale lingua potrebbe consistere
l’attimo della gioia?). Sarà il solito
vuoto a scandire il passo di chi viene.
E all’ombra della quercia, accanto al dio
che sconvolge i pronomi
(anche se non esiste)
impareremo ogni cosa da soli.
La tenda darà un tremito alle vene

Sarà un avvenimento strepitoso
il tuo sorriso. Il sangue abbatterà
i nostri corpi, credimi,
sentiremo la vita che ci chiama.
La voce che non oso
(Chi soffre più? Chi ama?)
quel giorno con il vento si alzerà
a fare terso il cielo. E sotto i piedi
la terra fiorirà con il tuo volto,
stupirà del raccolto

[…]

Poi lasceremo insieme anche la tenda
quando ogni cosa dovrà essere persa
perché più intera sia
nel fuoco che dà luce ad ogni male.
Farà di noi leggenda
la fiammata che sale
dal coro degli amici che riversano
su noi tutta la loro nostalgia.
Sarà questo il più caro dei preludi:
saremo moltitudine

Siamo all’interno di un sogno di Assoluto, ma quello vero, non quello di volta in volta modulato dalle nostre precomprensioni del mondo (le forme), e non l’Assoluto romantico che, in quanto positivo, è già pronto a sfociare nella passività, nell’incubo della sua realizzazione, ma un Assoluto negativo, teso alla sfida contro l’inautentico: punto d’arrivo a cui tendere, ma da non raggiungere, pena la sua trasformazione in forma. Prendiamo un verso come «i segni, sono assenzio e terapia»: i segni, i nomi, le forme, ma tutto ciò che pretende di immobilizzare l’immobilizzabile, sono illusioni di essere, illusioni di consistere, e sono assenzio e terapia perché sono “dimenticanza”. Ci appigliamo ad essi come alle ancore che ci salveranno, ma, in realtà, credendo di salvarci ci danniamo, rientriamo nell’inautentico paghi di questa illusione di autenticità, come una morte perenne.

[1] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica (1910), Milano, Adelphi 2002, p. 80.

(Mimmo Cangiano, Precondizioni interpretative o Nonostante la crisi (Note su alcuni poeti italiani nati negli Anni Settanta – prima parte), «Atelier», XIV, 54, giu. 2009, pp. 20-40, in partic. 35-38)

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