Rivista Atelier

Passione e ideologia (di Salvatore Francesco Lattarulo)

La «morte» della poesia, o meglio la sua condizione ‘sospesa’, data dopo i primi anni Ottanta, quando al boom creativo successivo al biennio sessantottino, caratterizzato da una produzione tracimante di opere in versi, segue una fase di stagnazione e riflusso

Passione e ideologia. Si può condensare in questo binomio il percorso della rivista, anche sulla scorta dell’articolo pubblicato da Giuliano Ladolfi, uno dei due fondatori, in occasione del decennale. La prima ha per oggetto la poesia. La seconda nasce dal bisogno di reazione al declino della critica, stigmatizzata come «omertosa». Lo stesso stato di salute della poesia, ormai agonizzante, richiede che qualcuno si sieda al suo capezzale. Ne discute Marco Merlin, l’altro co-fondatore, nell’editoriale dei primo numero uscito nel 1996. L’idea progettuale si mette sotto l’egida di un verso-chiave come «la morta poesì resurga» emblematicamente citato in epigrafe. Questo richiamo al Dante purgatoriale preannuncia la volontà di far venire alla luce un gruppo di poeti rimasto in una specie di limbo, «fioco» si direbbe, «per lungo silenzio», quella «generazione perduta» successiva al ‘68 esplorata dallo stesso Merlin in un libro di qualche anno fa. La «morte» della poesia, o meglio la sua condizione ‘sospesa’, data dopo i primi anni Ottanta, quando al boom creativo successivo al biennio sessantottino, caratterizzato da una produzione tracimante di opere in versi, segue una fase di stagnazione e riflusso. Il tema è messo bene a fuoco nell’ormai canonica antologia mondadoriana di Cucchi-Giovanardi che è stata data alle stampe proprio nello stesso anno in cui ha visto la luce «Atelier». Le cause di quest’emorragia della poesia, testimoniata dalla perdita di legittimità e dalla contrazione dell’offerta di testi, sono riconducibili alla posizione dominante assunta nella scala valoriale dalla civiltà dell’immagine dall’afflosciarsi delle energie antagonistiche dentro il dibattito politico e culturale. Al cono d’ombra in cui la poesia è stata relegata corrisponde per antitesi un’impennata d’interesse e di consenso verso la narrativa che ha conquistato ampie fette di mercato. Questa torsione assiale verso la forma-romanzo è stata impressa non solo dalle scelte espressive degli autori ma anche e soprattutto dalle strategie dei grossi gruppi editoriali tese ad assecondare i gusti dei consumatori, tra cui ‘il pubblico della poesia’, per citare ii fortunato libro di Berardinelli e Cordelli, si è ridotto a sparuta minoranza. Ebbene, «Atelier» si è impegnata a portare avanti un discorso proprio contro le politiche lobbistiche dell’industria libraria che strozzano la «qualità» e condannano la poesia a genere di nicchia. Va da sé che la morte di quest’ultima è solo apparente, «presunta», dal momento che se «muore una precisa pratica poetica» è solo «per lasciare spazio ad una differente coscienza creativa». D’ altra parte, il periodico non ha chiuso alla narrativa, come mostra la decisone di dare alle stampe un volume di soli racconti.

L’idea di mettere su una rivista è maturata nella realtà provinciale dei Liceo scientifico di Borgomanero, in seguito all’incontro tra il professor Ladolfi (oggi Dirigente scolastico) e l’allora studente Merlin. Un esempio d’imprenditorialità culturale, sia detto per inciso, che deve agire da sprone e da monito per quanti oggi vivono il mondo dell’istruzione come un luogo che frustra passioni e ambizioni e dove la relazione tra insegnanti e allievi si fa sempre più distante e problematica. Un modo, quello sperimentato dai due fondatori del periodico, di trasformare asfittiche e polverose agenzie educative in attive agenzie di senso critico. «Atelier» è tuttora stampata nel piccolo comune del Novarese e lì hanno sede l’omonima casa editrice e l’associazione culturale. Intorno a Ladolfi e Merlin si è formata ben presto una comunità di «appassionati», tra cui anche Paolo Bignoli e Riccardo Sappa, che si davano convegno intorno alla poesia un sabato al mese.Il titolo scelto dalla redazione ammicca a una concezione artigianale e officinale della pratica letteraria, a un’esperienza di bottega aperta alla «progettazione» e che non teme di «sporcarsi le mani». Non un ritrovo per dotte elucubrazioni, una «stanza di astrusi alambicchi», ma un luogo dove chiamare a raccolta le energie fresche e appassionate di un gruppo di giovani la cui età media si aggira intorno ai trent’anni. Una rivista militante ma non di tendenza, che non si vuole riconoscere intorno a un manifesto perché prende atto che l’epoca di derelizione in cui è costretta a operare, che vede le lettere ridotte a «letterine», rende vane ricette salvifiche. Contro questo clima di «stagnazione» è necessario continuare a dare «spallate», immuni da quella «tentazione del silenzio» cui in questi anni la rivista ha resistito doppiando il capo dei cinquanta fascicoli. Sullo sfondo delle macerie fumanti del presente si chiede alla poesia di issare dantescamente le vele dell’ingegno, di farsi «alta», in consonanza con la nota invocazione luziana («vola alta parola»).Sentirsi «artigiani della parola» non vuol dire tuttavia fare a meno delle moderne tecnologie. Il sito telematico della rivista contiene un cliccatissimo blog dove i materiali immessi danno la stura a discussioni vivaci e feconde. Né l’idea di «falegnameria» sottintende una rivista fatta alla buona. Il periodico si è invece da subito caratterizzato per la qualità elevata e lo spessore analitico dei suoi interventi. Ricchezza della documentazione, puntualità dei riferimenti, originalità dei punti di vista, rigore delle argomentazioni sono le parole d’ordine a cui la linea editoriale coerentemente si richiama.I1 trimestrale assume a oggetto d’indagine un presente senza «frenesia», visto cioè non come attualità spicciola, regno dell’effimero e della precarietà, ma come specchio che riflette quell’umano troppo umano che dovrebbe essere il connotato di fondo della letteratura. L’idea sviscerata nei vari numeri è che la poesia non sia solo un atto autoreferenziale, «ornamento» o «sovrastruttura», ma una pratica vocata alla dicibilità del mondo in quanto scaturita da una profonda istanza gnoseologica. L’attenzione si concentra su una letteratura compromessa con la vita in cui il baricentro non è l’avventura solipsistica dell’io ma l’esperienza delle cose. Si tratta di ristabilire la par condicio tra soggetto e oggetto superando l’antitesi vita / scrittura da cui sono stati affetti, per fare solo qualche nome, Gozzano o Montale, e che Pirandello esplicitava nel dilemma secondo cui la vita o la si scrive o la si vive. Le ragioni di una poesia vivificata dal contagio con la realtà Ladolfi le coglie nella generazione nata negli anni Settanta, cui appartiene lo stesso Merlin, e che viene esplorata nell’antologia L’opera comune (Borgomanero 1999), una summa degli autori apparsi su «Atelier». Strategico è nell’economia progettuale della rivista l’omaggio alla poesia contemporanea contenuto nel numero dieci composto di soli testi. È una già organica messa a punto della produzione degli anni Novanta, ascrivibile alla generazione spartiacque attiva a cavallo di due secoli. Sono presi in considerazione, si diceva, gli autori nati dopo il Settanta che nell’ultimo decennio del secolo non avevano ancora compiuto trent’anni. Costoro fanno parte di una «generazione che non c’è» nella misura in cui fino a quel momento non era ancora stata riconosciuta sul piano storiografico. ‘Precari’ della scrittura snobbati dall’industria editoriale e dalla critica ufficiale. La collettanea di «Atelier» non solo è stata utile per sdoganarli dall’indifferenza di pubblico e critica ma ha offerto loro uno spazio dove potersi incontrare e riconoscere a vicenda in una dialettica tra «solitudine» e «appartenenza». Pur smarcandosi da astratte categorie e rigidi canoni estetici, «Atelier» ha mantenuto in piedi l’idea di generazione poetica ritenendo che una situazione così fluida e sparig1iata renda necessario riunificare sotto il vincolo anagrafico singole personalità che altrimenti rimarrebbero voci isolate in un panorama occupato da consolidate cordate di intellettuali e dai poteri forti della cultura. Questa visione in termini corali non toglie nulla all’individualità e alla specificità delle proposte. Tanto più che data la loro giovanissima età questi autori hanno esordito senza ricondursi a ben delineate tendenze collettive, senza legittimarsi attraverso poetiche e sigle di gruppo. La scrittura di questi ormai ex ventenni può dirsi «sovversiva» non per eccesso di sperimentalismo ma al contrario per aver rinunciato alla trasgressione linguistica e alla furia iconoclasta assunta di norma come marchio di fabbrica dalla generazione dei «padri». A sua volta questa generazione un tempo ‘inesistente’ è stata poi costretta a «tradire la propria giovinezza» diventando adulta dopo aver superato una sorta di esame di maturità.In un siffatto censimento, da intendersi non in senso canonizzante ma come primo nucleo di «un lavoro più ampio», sono stati annoverati, tra gli altri, Antonella Anedda, Anna Maria Farabbi, Daniele Piccini, Fabrizio [Fabio, ndr] Pusterla e quell’Andrea Temporelli (alias Marco Merlin) che darà poi alle stampe nel 2006 per Einaudi Il cielo di Marte. Un faro costante sul panorama contemporaneo è la rubrica Voci, che, dopo una fase rapsodica, ha deciso negli ultimi numeri di mettere a fuoco non più di due autori per volta, presentati per mezzo di schede bio-bibliografiche dettagliate, antologie della critica, saggi, inediti, riletture di testi già pubblicati, opere in cantiere. II «giovanilismo» di «Atelier», contrassegnato anche da aperture alla poesia contemporanea europea, trova uno dei suoi risvolti più significativi nella lettera al Poeta giovane pubblicata sul numero cinquantuno della rivista. È un’epistola aperta in cui Merlin con sprezzante ironia descrive il prototipo dell’autore emergente, la cui vera musa è il carrierismo. La corsa sfrenata a ritagliarsi uno spazio sulle riviste che hanno voce in capitolo, il bisogno di autopromuoversi a causa della latitanza delle case editrici, la speranza di essere antologizzato nelle collettanee e nelle storie letterarie fanno di lui l’interprete di una poesia declassata a «vizioso gioco sociale» che vede accelerarsi il suo processo di rottamazione. L’artista narciso in cerca di una sua personale consacrazione, che scambia per nemici i propri compagni di viaggio, si condanna a fare la fine dei polli di Renzo. La poesia è invece «sacrificio di sé», percorso di intima «sofferenza» che mette la mordacchia all’ipertrofia dell’io. E veniamo all’istanza riflessiva e teorica che irrora l’altra arteria della rivista e che significa in una serie di inchieste a tema. L’interesse muove da quella che con una tautologia può essere definita la crisi della critica. Quest’ultima si è abbassata a ‘fare marchette’, a sponsorizzare libri per il mercato. Quasi una forma di pubblicità occulta. Limitandosi a schedare e presentare, ha rinunciato alla formula dei J’accuse, a quella pratica del biasimo e della stroncatura che era in fondo garanzia di un’etica della responsabilità. Questo «scarico di coscienza» ha prodotto una critica che non critica. A causarne la necrosi contribuisce la contrapposizione frontale tra esercizio accademico e militante. Dove il mestiere di critico si coniuga con la professione universitaria il risultato è un’attività specialistica, scientificamente fondata, caratterizzata da rigore metodologico e piglio dottrinario. Dove invece esiste la critica militante ecco allora che il discorso si riduce a un lavoro fai-da-te, senza base teorica, a un’esperienza a braccio, un po’ facilona. «Atelier» si sforza di attenuare lo iato tra questi due poli rintracciando la sintesi nel tessuto esistenziale della scrittura. La critica deve essere separata dalla poesia. Ragione e immaginazione vanno a braccetto lungo la via del «pensiero poetante» leopardiano, questione che viene indagata anche in numeri tematici su poesia e filosofia o poesia e conoscenza, secondo l’assunto dantesco che lega quest’u1tima alla virtù e le rende entrambe oggetto della prima. La fusione tra poeta e critico rientra in una visione neoumanistica della letteratura che, in quanto esperienza totalizzante, non può mettere fuori gioco il vissuto. Di qui l’indice levato contro approcci ermeneutici di tipo strutturalistico, semiotico e psicanalitico che tagliano fuori dal campo d’indagine il milieu storico, sociale e privato dell’autore. Mettere al centro la Weltanschauung dello scrittore vuol dire uscire da quella che Ladolfi chiama la «poetica autogiustificatrice» per cogliere la trama dei significati di un testo che sta dentro una tradizione che viene assunta e rielaborata. Il che rientra nell’attenzione riservata dalla rivista ai classici novecenteschi. Un elenco fittissimo di auctoritates che va dalla Negri a Gozzano, Montale, Gatto, Rebora Quasimodo, Jahier, Caproni, Pasolini, Sbarbaro, Betocchi, Penna, Saba, Sereni, Ungaretti, Bertolucci, Michelstaedter, Pavese, Fortini, Cattafi, Porta, Rosselli, Campana, Govoni, Palazzeschi, Corazzini, Luzi. Né mancano scelte un po’ sui generis per una rivista di letteratura: si veda l’inserimento tra cotanto senno di un ‘autore’ come Paolo Conte, nel segno di quella tendenza a considerare la canzone leggera una forma di lirica marginale. Dense e aggiornate riletture critiche, con al centro i testi, si associano a ampi resoconti di convegni a tema — come Novecento e oltre: le prospettive della poesia contemporanea — attraverso cui «Atelier» si è misurato con quella sorta di neomillenarismo dell’ultima fin de siècle che ha visto, lo si ricordava in premessa, il moltiplicarsi miracoloso di antologie percorse dalla frenesia di fare i conti in tasca a un’età «in liquidazione», sistemando e classificando gli orientamenti e le linee poetiche più recenti. La rivista ha fatto propria una visione olistica del Novecento in polemica con una diffusa interpretazione scismatica del secolo che abbiamo appena lasciato alle spalle. Il punto è che non esiste un primo e un secondo Novecento spaccato in due dalla deflagrazione della bomba atomica. Etichette come neoavanguardia e neoermetismo testimoniano in fondo l’ideale continuità tra un prima e un dopo. La sfida sta nel considerare in termini ‘globali’ quello che Quasimodo chiamava l’uomo del nostro tempo.

(Salvatore Francesco Lattarulo, Per «uno sguardo critico, sistematico, operante»: dieci riviste da Roma in su, «Incroci», X, 20, lug.-dic. 2009, pp. 61-86, in partic. pp. 82-86)

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