Andrea Temporelli, Terramadre (2012)

Perimetrare il disagio (di Paolo Febbraro)

Temporelli tende più alla parabola allegorica, che trasforma il piccolo in emblema del grande, e tuttavia è resa precisamente, con dei particolari ben nominati che non perdono, nell’ordine apparente, la loro carica accusatoria.

Chiamo questa antologia piccola perché è di necessità breve nel numero dei componimenti e ristretta in quello degli autori prescelti. Da tempo, siamo al centro di un apparente paradosso: si scrive troppa poesia, troppa se ne pubblica e pochissima se ne legge e se ne critica. Arte aristocratica ‒ dagli aedi nelle corti ai simposi, dai poemi sapienziali ai cenacoli umanistici, dalle accademie alle scapigliature giovanili ‒, la poesia ha visto il gran mare democratico giocargli un brutto scherzo: è aumentato a dismisura il numero di chi scrive e di pochissimo quello di chi legge. La spiegazione c’è, ma qui non è interessante ripeterla. Sta di fatto che per questo motivo proporre dei poeti all’attenzione di qualcuno implica il fatto che ci si interroghi a fondo su cosa e quanta è l’attenzione che si spera, e su chi sono i poeti. Così: spazio limitato, selezione massima, valore rilevante, giusto tempo di maturazione. Chiamo questa antologia maggiore, allora, perché ne sono protagonisti quattro autori notevoli, cui affido alti compiti di rappresentanza. Sono poeti abili nel conoscere sé stessi, colti di quella cultura che nutre l’immaginazione, capaci di concepire e reggere i loro strumenti ‒ il verso, la strofa, la partitura ‒ senza farsene strumentalizzare. In più, sono persone anagraficamente giovani: e dico anagraficamente perché non è mai stato importante per un poeta essere giovane, dato che in poesia ribellione, rottura, originalità non sono valori in sé: ogni poeta dovrà essere abbastanza vecchio per essere tale.

Massimo Gezzi (nato nel 1976) e Andrea Temporelli (1973) cercano di perimetrare il disagio: il primo guarda il mondo nella rifrazione che ne danno le finestre, quasi a cercare un rallentamento della visione, un modo per renderla meno contundente; ricerca l’atarassia, la sospensione sentimentale per acuire lo sguardo, la notazione e trattenerli in un serbatoio interno che dia loro spessore. Forse, davanti all’attuale ingorgo emotivo, non resta che mimare questo asciutto passo indietro. Però, senza fretta, il verso si allunga, sa impregnarsi, compiersi in pietà, come accade in Un congedo. Temporelli tende più alla parabola allegorica, che trasforma il piccolo in emblema del grande, e tuttavia è resa precisamente, con dei particolari ben nominati che non perdono, nell’ordine apparente, la loro carica accusatoria. In Fra te e il mondo l’autore sente la minima e dirompente inegualità del mondo infestargli la vista, che pure è netta. La visione di Temporelli è disponibile ma sovrana, il lutto sembra per contrasto arricchirla sobriamente; il massimo è riuscire a far sì che l’esistente si descriva da sé: «Da sola si bonifica / la terra vilipesa. Se io pure / procedo tutti i giorni a questi campi / è appena per vedere: / non attendo nessuno / non ho nulla da dire/ ed anzi prendo appunti / su questa pasta d’alberi».

Anche Paolo Maccari (1975) e Matteo Marchesini (1979) vedono benissimo. Maccari parla di «Dolcissimo e snervante realismo / copia fedele e irresistibile / di quei sogni che non capisci»: il mondo esterno è un adescamento e una falsa sublimazione dei propri incubi, in realtà è la ragnatela che ci irretisce, quella che il poeta riproduce nelle folte, assedianti metafore del suo dettato. Maccari cova deflagranti dissonanze, in ogni caso per nulla manieriste, ma sa tenerle dentro il verso: come un cavallo di razza riesce a non “rompere” nemmeno nel suo momento più affannoso. Cerca una grazia difficile, un pertugio che si schiuda dinanzi al patto siglato con la donna dei suoi pensieri, in passi di percussiva bellezza: «il tuo passaggio timoroso sbaragliava l’aria / e nella tua mente il presidio della luce / battagliava impavido contro i palazzi / sbadiglianti dalle cieche volute illividite».

Marchesini usa la poesia come battuta di caccia nei confronti della propria mente. Poeta dal verso lungo e articolato, sa far coincidere l’apertura di credito verso un’ampia realtà con la torsione di essa a scandaglio interiore; e la trama delle rime, non fitta ma sensibile, ci mette sempre in sospetto sull’avverarsi di una sigla, di una strettoia esistenziale: «Prima non sai, poi sai, poi non sai più / la verità che ti stringe in catene». Il mondo sembra chiuso come la donna della poesia Ritratto, salvo poi cedere ad appostamenti che solo la poesia sa produrre, poiché la poesia è essa stessa un tempo diverso di osservazione, un nuovo ordine della scansione. Così intriso del male di vivere, Marchesini per paradosso è forse il poeta più classico dei quattro qui presenti.

Da questa lettura si esce allarmati sull’oggi, ma l’allarme suona cristallino, dignitosissimo, circostanziato. C’è forza, frontalità, anche e soprattutto se il fronte è quello interiore, poiché è da ingenui pensare di tirarsi fuori con il colpo di reni della diversità. Ogni elevazione, come scrive Maccari in Verso l’alto, è illusoria: e l’estetica, nella stessa poesia, rischia di essere evasivamente anestetica. Eppure, queste poesie e questi poeti non vanno certo verso la rinuncia crepuscolare, né tantomeno si adagiano sulla tabula rasa della cultura o dell’intenzione. È da tempo, del resto, che abbiamo imparato ad attraversare le terre desolate. Gezzi, Maccari, Marchesini e Temporelli contestano molto alla realtà, ma sanno ascoltare i difficili consigli della parola.

(Paolo Febbraro, Piccola antologia maggiore. Quattro poeti d’oggi, «Lo straniero», XV, 138/139, dic. 2011-gen. 2012, pp. 138-139)

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