Da un punto di quiete (di Sebastiano Aglieco)
La ricerca di una comunità poetica, finisce per rappresentare l’estensione parenterale di costrutti emotivi, di sperequazioni significanti, persino nel chiamare in causa, attraverso la forma dell’invettiva, i poeti e la poesia, i fratelli e i nemici.
È lo stesso autore a rivendicare nelle note di questo libro, uno «sviluppo nervoso, con improvvisi scatti anche all’indietro» della sua scrittura, «agglomerazioni provvisorie di poesie collassate in scritture sommerse», implose o addirittura rifiutate, e tra l’altro il libro si situa nelle complesse vicende cronologiche di composizione che hanno interessato anche Il cielo di Marte, l’opera precedente di Temporelli. Ma, insomma, l’autore rivendica anche il raggiungimento di un punto di quiete, «una sosta al momento necessaria», nell’evoluzione della sua scrittura. È dunque un libro che, pur nella complessità della vicenda compositiva, si situa nella centralità tematica della “terramadre”, luogo della compilazione degli appunti diaristici dell’infanzia – scritti direttamente su un quaderno di carne – e delle rielaborazioni biografiche ed esistenziali dell’età adulta. Così questa terramadre fa i conti non solo col bagaglio della sua concreta mitologia ma anche con quello della sua metamorfosi simbolica:
Terramadre più che morta:
dimenticata, fa’ di questi segni
la tua ignizione, la nostra espiazione (p. 65).
Il libro si agglomera dunque, intorno al tema dell’origine, zavorra proiettata nel tempo dei figli non redenti, senza nome e depredati del senso forte ad essere, ad attraversare la propria stessa storia. Origine e parola, come sempre accade, visto che nominazione e agnizione procedono di pari passo, e costituiscono, in queste poesie, l’impulso a condurre l’oggetto fuori dall’oscurità del suo fango, verso la consumazione dei sensi nel mondo. Temporelli, quindi, aspira a raccontare qualcosa, ambizione che ne Il cielo di Marte si risolveva in un procedimento sofistico camuffato da lirismo e che qui maggiormente si distende in situazioni in cui ‘le immagini’ vengono a soccorso dell’astio della memoria; due, fra tante: quelle della rosa e dell’angelo, ricorrenti lungo l’arco del testo e variamente declinate in simboli naturali, concreti. O piuttosto nella ricorrenza di significati di espiazione – questa volta della parola -: l’angelo nomimatore, rilkianamente proteso alla durezza necessaria della carne; la rosa come luogo di tutte le nominazioni e dei ricongiungimenti. Essere nel tempo, insomma, presuppone per Temporelli un fare i conti con la sperequazione legge naturale a cui neanche gli uomini possono sottrarsi. Alla parola – alla poesia – egli non sembra attribuire il potere di sottrarre qualcosa dall’ingiuria dei rovi ma di prendere atto, di attenersi a uno stato di polemica attiva:
io assisto allo spettacolo da qui,
semplicemente
(…)
non attendo nessuno
non ho nulla da dire
piuttosto prendo appunti
su questa pasta d’alberi (p.87).
È un tema centrale, questo della scommessa a dire, nella poetica di Temporelli e dei poeti della sua generazione, non senza risvolti polemici, certo, soprattutto perché l’accerchiamento poetico intorno alla dispersione della parola, ha coinciso con la ricerca di una comunità aggregante, autorizzata a dire per diritto generazionale e anagrafico, tema che in questo testo viene chiarito da risvolti biografici, di assenza/presenza, di appartenenza/esclusione – «mi gioco la mia vita in questi versi» – dice Temporelli nel corso della presentazione a Trevigliopoesia, da me curata. La ricerca di una comunità poetica, finisce per rappresentare l’estensione parenterale di costrutti emotivi, di sperequazioni significanti, persino nel chiamare in causa, attraverso la forma dell’invettiva, i poeti e la poesia, i fratelli e i nemici.
Con la sua faccia da ribaldo figlio di puttana
che ha appreso infine a stare al proprio posto,
lo vidi a una serata di letture
che ascoltava tra il pubblico,
mentre il figlio di Rufo
faceva bellamente il compitino di poeta (p.55).
La poesia di Temporelli mi sembra aspiri a una lingua contadina, in cui le parole e le cose si sforzano di avere lo stesso senso. E per questo bisogna ritornare alla storia e alla memoria, per esempio nei bellissimi poemetti La piccola guerra e Nel nome della madre, ma anche nelle poesie in cui la lingua diventa cantilena semplice, piccola epica, e in cui il tema dell’origine è declinato nel compito del fare i conti con l’incompiutezza:
pregava forte e male
nel buio bisbigliando:
«Preservaci, preservaci dal padre»
Maria, mare che porti via… (p.17).
E ancora…
Divenne grande un’estate il ragazzo
prendendo sulle spalle il padre, dopo
l’ acqua del ’51 (p.16).
Questa terramadre è forse, un luogo da costruire e ancora da immaginare: la rosa nominata, l’angelo che
ritorna a fare piena
la gola coi ricordi,
a dare pena, erranza. Così lui
parole inumidisce
per l’umano poema che non sa
e va scrivendo (p.21).
La rosa cercata, nominata, è da codificare, sempre. E chi può fare questo se non la parola?
Chiama a giudizio tutte le parole,
ché non esiste un dialetto innocente.
E nessuno è mai solo… (p.23).
Mi sembrano versi centrali perché, come dicevo prima, qui la lingua è dialetto; cioè lingua vicina, e quindi tentativo di comunità. In un altro testo, poi, il poeta chiama a raccolta i poeti fratelli per rendere omaggio al corpo di Simone Cattaneo, poeta prematuramente e drammaticamente scomparso. Poesia impraticabile, insomma se non si condivide il pane, persino l’invettiva o il polemos, a patto che questi sappiano abitare il fronte di un bene comune….
(Sebastiano Aglieco, rec. a Terramadre, 27 giugno 2012, all’indirizzo web: http://samgha.wordpress.com/2012/06/27/andrea-temporelli-terramadre-il-ponte-del-sale-2012)
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