Andrea Temporelli, Il cielo di Marte e Terramadre

Senza alibi (di Matteo Marchesini)

In questo poeta, fortissimo è il senso della sintassi, e non comune la capacità di orchestrare la trama dei versi secondo un’armonia assai articolata, puntellata (anche qui) da lontani echi di rime interne, da riprese e avvolgenti curvature del discorso

A differenza di Fiori, il giovane Andrea Temporelli vuole ospitare nei suoi versi la maggior fetta di realtà possibile, in un equilibrato compromesso tra la via intensiva e quella estensiva. Con molti equivoci, ma anche con molta onestà, crede davvero nelle alte temperature della poesia. Prende di petto la Tradizione Letteraria con coraggio, senza paracadute: e tuttavia sia l’ipercoscienza critica, sia una costante misura artigianale, lo preservano da ogni sgradevole confidenza e da ogni pressappochismo nel rapporto con quelli che, usando il suo linguaggio, potremmo definire «i padri». Si tratta, prima di tutto, dei vessilli della sua tradizione personale: Luzi e Sereni. Dal primo, Temporelli trae l’uniforme e sostenuta ars retorica, capace di saldare in un unico flusso i piani del discorso, i dislivelli storici della lingua, le analogie; mentre col secondo ha in comune certe ossessioni, certe atmosfere psichiche evanescenti come spettri ma dolorose come fitte (i motivi della morte sognata e corteggiata, di una ferocia gioiosa, di un’ambigua nostalgia della Storia).

In questo poeta, fortissimo è il senso della sintassi; e non comune la capacità di orchestrare la trama di endecasillabi e settenari in un’armonia complessa, puntellata (anche qui) da lontani echi di rime interne, da refrain e sinuose variazioni del discorso. Meno sicura è invece la traccia che guida il lettore dentro le sue costanti tematiche. Siccome le questioni che sottendono a certi motivi ricorrenti non sono davvero chiarite, ma piuttosto sorvolate, citate (proprio come in Sereni, si assiste a un troppo generico ragionar di Epoca, secondo il modello di un civismo borghese poco incline a radicalizzare le sue domande, a scavare nelle sue fragili basi), si avverte a volte una distonia tra le volute di un periodare al limite del pomposo, e una materia che sotto la sua patina diviene astratta, eterea, inafferrabile. Temporelli, insomma, sa portare le forze in campo a un perfetto equilibrio; ma talvolta imbriglia e piega la materia fino alla vittoria di Pirro per cui se ne ritrova in mano appena un’inconsistente filigrana. È come se una spina dorsale perfino troppo eretta, un’impalcatura solidissima sognassero ancora a occhi aperti il loro corpo, il palazzo cui offrire l’ossatura. Per queste ragioni, in Temporelli appaiono quasi fisiologiche un’impostazione preventiva della voce, e una serie di topos “onnicomprensivi”, destinati a spogliare le cose dei loro contorni e a condurre il nucleo tematico a un grado di indistinzione tale, per cui ad apparire in evidenza è soltanto il volontarismo etico che la poesia rivendica per sé a ogni passo. Di qui, credo, scaturisce quella retorica sull’edificare, che anziché indicare una rotta denuncia un desiderio. Evidentemente, l’autore sta ancora cercando di precisare, all’interno di un campo strettamente letterario, quei presupposti ideologici che andrebbero invece cercati in altro luogo (e forse in altro tempo), ma con lo stesso coraggioso pathos. Eppure, il punto di maggior rischio è anche il luogo in cui Temporelli raggiunge talvolta una piena autonomia di sguardo. Quando infatti i suoi leitmotiv (l’esilio in una terra deserta o devastata, la trasmissione ereditaria di una universale “memoria delle cose”, il cerchio di una storia che sovrasta le azioni e i destini) vengono sussunti in quel limbo che somiglia per metà a una scena da parabola fiabesca e per metà allo spazio naturalmente geometrico di un esercizio psicofisico di meditazione e ascesi, allora evaporano in quanto zavorre: e la poesia conquista una sottile concretezza, non soltanto visiva, anzi spesso tutta filtrata dalla tessitura linguistica e musicale, rarefatta eppure non evanescente. Sono questi i casi in cui la confluenza e l’elevazione dei diversi materiali a un piano di uniformità parallelo al realismo non sfocia in indistinzione. Allora anche l’opzione morale e comunitaria, pur nutrita di qualche pericoloso mito, acquista spessore lirico, per via di una felice combinazione di urgenze affettive e di invenzioni ritmico-oratorie. Ecco, ad esempio, una poesia ratta da Il cielo di Marte (Einaudi 2005) e intitolata Esercizio di respirazione.

[…]

Fiori, Temporelli, Zuccato. Poeti che posseggono in dosi e in soluzioni differenti i requisiti citati sopra: economia, duttilità, stile transitivo, potenza sintattica, dialettica allegorico-discorsiva, energia metaforica in grado di far coincidere sotto il suo netto taglio di luce la più storica delle concretezze e la più selettiva delle astrazioni, capacità di veicolare su diversi strati del testo un bagaglio interpretativo – magari addirittura saggistico – che giustifichi pubblicamente le sue radici senza abbandonarsi all’alibi dei codici ormai privi di ogni autorevolezza intrinseca.

(Matteo Marchesini, Poesia senza gergo. Sugli scrittori in versi del Duemila, Roma, Gaffi, 2012, pp. 35-37 e 42; il testo riprende, con modifiche, il precedente articolo di Matteo Marchesini dal titolo Senza alibi, in Le voci, il coro. La poesia italiana e straniera dell’ultima parte del Novecento, «I Quaderni del Battello Ebbro», Annuario di poesia n.1, novembre 2007, pp. 84-116, in particolare pp. 102-3)

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