Profezia privata (1)

Mentre vaga tra le ombre delle opere compiute e i fantasmi di quelle da scrivere, l’autore viene pungolato dal dilemma intorno alla propria natura e allora si concede, di sbieco e furtivamente, quasi all’insaputa di sé, uno sguardo allo specchio, cercando una volta per tutte di mettersi a fuoco, tra genio e insignificanza.
Questa scena accade sempre. Ma, nell’epoca attuale, la questione moltiplica la propria risonanza in rapporto ai quadri globali che hanno prosciugato le terre, un tempo fertili, del sapere umanistico. Marginalizzata ogni élite intellettuale, svuotata ogni progettualità poetica ai colpi di una politica cieca e asservita all’utile, il Mercato è il tiranno che setaccia, negli oceani di scritture ed esperienze estetiche che si propongono, le presunte opere, non certo nell’intento di rinnovare qualsivoglia tradizione, ma di consumarle sull’altare del presente più effimero.
In quali luoghi, allora, sopravvive la letteratura? Nei luoghi più disparati e imprevisti. Talvolta persino nelle esigue sigle editoriali di prestigio, le rare volte che. Ma, per lo più, c’è da scommettere che la poesia si nasconda in luoghi impensati, negli infiniti meandri della rete, nelle nicchie editoriali, nelle esperienze “local” in cui si consuma una forma strenua di resistenza. In ogni periferia dell’impero ­– e magari persino sotto il palazzo del re, resa invisibile dall’opulenza.
Tutto questo conforta e dà speranza. Siamo grati al morso del deserto che ci spinge a trovare la vena d’acqua smarrita.
Non sentiamoci dunque imprigionati nel racconto di un’infinita agonia dell’arte e della letteratura, come i più vorrebbero. Chi si lamenta ceda il passo a chi intuisce che l’inizio è ovunque e occorre stare sempre all’erta.
Ma non siamo nemmeno nell’idillio che altri inscenano, per consolarsi e beffare l’oracolo.
Perciò, per quel che mi riguarda, fallito il personale tentativo di (ri)costruzione di un’opera comune, ovvero il progetto di connettere le più disparate esperienze estetiche al fuoco di un confronto che divenisse nel tempo una forma intrinseca di discernimento, da offrire allo sguardo giudicante dei posteri (alludo all’esperienza della rivista «Atelier», che ho fondato e diretto dal 1996 al 2013), continuo a credere che il futuro sia destinato a un nuovo Rinascimento, in cui le singole tradizioni nazionali confluiranno addirittura in una letteratura universale: spazio intersoggettivo fuori dal tempo in cui Shakespeare e Dante, Omero e Gilgamesh, Tolstoj e Murasaki Shikibu guidano a braccetto le avanguardie di ogni latitudine. Ho detto: Rinascimento, ma va da sé che ogni categoria storica è già fuorviante, per chi è oltre ogni visione storicistica. Anzi, l’inizio è ovunque: persino alle nostre spalle.
Per tali ragioni tento qui una nuova forma di agguato, realizzo la mia profezia privata, mi espongo guardingo da un margine cercando corrispondenze, segnali cifrati da altri spazi di resistenza, accumulo frammenti, briciole d’oro. Provo a spargere qualche seme. Sia questa mia officina aperta a tutti i venti e, allo stesso tempo, incapsulata nell’unica e cangiante grazia che mi umilia e benedice, nell’atto in cui prendo voce, sul margine d’ombra, tra presenza e assenza.

Postilla: Il logo
L’arte, sosteneva Gottfried Benn, è «qualcosa di fisico, come un’impronta digitale». Ma il nostro patrimonio genetico è una tradizione che ci sovrasta; la nostra voce, a ben vedere, un coro; l’identità, un feticcio. Perciò il logo rielabora la firma: A e T si intrecciano, si caricano di suggestioni e memorie che non le appartengono, come un richiamo alla rivista Atelier, con la copertina caratterizzata da sempre da un ricciolo piuttosto vintage. I colori usati sono in contrasto, come le ambivalenza della personalità e i due volti dell’opera che qui si forma: letteratura e insegnamento.

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