Caro Tiziano, la cultura è morta (di Davide Brullo)
Guaraldi pubblica un piccolo capolavoro scritto da Andrea Temporelli, “Tutte le voci di questo aldilà”. Perché i grandi editori lo hanno rifiutato? Appello a un Premio Strega
Caro Tiziano Scarpa,
scrivendoti, penso al sole. Solo le aquile possono fissare il sole a occhi aperti, lo sapeva anche Dante. Ecco, penso che tua sia un’aquila, caro Tiziano. Perché non hai chiuso gli occhi davanti al sole, anzi, hai spaziato la pupilla; perché hai riconosciuto il sole. Tu sei un’aquila, caro Tiziano, in una editoria piena di avvoltoi, piena di scrittori che si credono il sole, il motore immobile di un sistema planetario che ruota intorno al proprio ego. Proprio di avvoltoi e di soli voglio parlarti in questa lettera, Tiziano.
Caro Tiziano, in molti ti attribuiscono la scoperta di Antonio Moresco, che hai portato, con “Gli esordi”, in Feltrinelli; io ricordo, nel 2012, un tuo articolo sul “Corriere della Sera” in cui parlavi del poeta Simone Cattaneo. L’articolo aveva la gittata di due pagine: eri riuscito a fare più tu per Simone che io in nove anni di assolata amicizia. La stessa generosità che hai dimostrato verso Andrea Temporelli: in quello stesso 2012 hai scritto una scheda di lettura intorno a Tutte le voci di questo aldilà, «un bellissimo romanzo», dici. Quella scheda mi è rimasta impressa. Per cinque pagine, con invidiabile lucidità, hai dissezionato, anzi, hai spolpato il romanzo di un contemporaneo. Dimostrando che anche tra le macerie culturali è possibile scovare un capolavoro, custodendolo con ferocia e senso di servizio. Cosa ne è stato però del tuo formidabile fiuto editoriale? Fuffa. Il primo romanzo di Temporelli, autore, tra l’altro, non certo ignoto (dieci anni fa si è mostrato come poeta per Einaudi, è stato tra i promotori della rivista militante “Atelier”), è stato letteralmente ignorato dalle case editrici che contano e dalla sfilza di agenti letterari che fanno il grano. Per questo, ti annunciavo, avrei parlato del sole e degli avvoltoi. L’editoria italiana non sa riconoscere il sole, cioè un’opera che acceca per la propria novità. L’editoria italiana, voglio dire, e quando dico “editoria italiana”, ovviamente, intendo chi fa davvero mercato, non chi si occupa del mercatino dei piccoli editori, il retrobottega della letteratura che conta, ha smesso di volare alto. Preferisce razzolare bene. Più che mirare al sole, si accontenta delle carcasse. Basta spolpare i cadaveri – i nomi da affibbiare alla metafora li lascio a te – più che affaticarsi verso il sole, affacciarsi alle altezze. Per questo parlavo di avvoltoi – per questo l’editoria italiana mi sembra mortificante, spande un puzzo che ripugna, sono qui che attendo un treno editoriale verso un altrove qualsiasi, che sia in Inghilterra, in Macedonia o in Indonesia è lo stesso. A fare libri e a parlare di libri, in Italia, siamo rimasti in pochi. Troppo pochi. Troppi avvoltoi in una gabbia troppo piccola.
Se esistesse ancora Ovidio, soltanto lui saprebbe spiegarmi perché gli avvoltoi si credono il sole. Caro Tiziano, mi sono fatto una idea del tuo lavoro. Tu fai le cose perché vanno fatte. Perché è giusto farle. Non ti poni il problema delle onorificenze, dell’album di amicizie altolocate, dello zerbino dei fan. Altrimenti, non saresti riuscito a leggere e ad amare il romanzo di Temporelli, il cui controeroe, un giovane poeta di genio, fa di tutto per non farsi riconoscere, per non apparire, pena – letteralmente – la morte. Al contrario, il piccolo mondo antico dell’editoria italica è fitto di gente che lotta, morde e sbraita per avere il proprio posto al sole. Gli avvoltoi più imponenti, tu pensa, pensano di essere dei veri Re Sole, a cui gli scrittori – pardon, gli scrivani – lustrano la corona, stirano il mantello, leccano le auree babbucce. Pazzesco: chi sta uccidendo la letteratura pensa di essere colui che dà la vita, il sole.
Soltanto in un paese incivile un capolavoro di ironia, di cinismo e di compassione come il romanzo di Temporelli non viene pubblicato da Einaudi, Mondadori, Bompiani, Rizzoli (che è poi la stessa cosa), Feltrinelli, Adelphi, Guanda o chi preferisci tu, ma è stampato in semiclandestinità da Guaraldi, in un sobborgo di Rimini. Con un futuro marchiato in copertina: un centinaio di copie in libreria, molti resi, la morte cerebrale nell’arco dei prossimi quattro mesi. Questa, nel vero terzo mondo dello spirito e della cultura, è la fine di uno scrittore da antologia, uno che ha incendiato quasi tutta la letteratura attuale, da autogrill, l’equivalente librario di un panino, fatta a suon di D’Avenia, Avallone, Missiroli… Questa brutta vicenda, caro Tiziano, mi insegna due cose. Primo: la critica letteraria è morta, anzi, scheletrica. Lo si dice da un ventennio. Ne abbiamo la prova concreta: le “terze” dei quotidiani sono una appendice della solita polemica politica. Hai mai letto una riflessione sul libro di un autore vivente? Se accade, è una sorta di radiografia. In controluce, leggi la trafila di marchette e marchettine e puttanate che hanno condotto il caporedattore X a commissionare il lenzuolo all’articolista Y (in genere uno scrittore che firma per lo stesso editore del giornale su cui scrive il caporedattore, altrimenti un critico universitario dotato di cattedra baronale) sul libro dello scrittore vivente Z (che di solito di mestiere fa il giornalista amico di amici, oppure è un sodale dell’editore, altrimenti è un vecchio maestro, un trombone che tenta il Nobel da una vita ed è a un passo dalla morte). Le “terze” dei quotidiani nazionali andrebbero chiuse di botto, subito, anche perché, ormai, fa vendere di più un battibecco di segnalazioni su Amazon che un articoloide di Claudio Magris e di Paolo Mieli. Ma questo, in fondo, è un aspetto inessenziale, un valzer di avvoltoi.
La catena alimentare della letteratura italiana è così piccola, così stretta, che sembra una cinghia al collo. Nessuno ha la forza di staccarla. Chi lo fa, dall’igloo della propria solitudine, compie un gesto velleitario, come chi, di fronte a una truppa di avvoltoi, fa schermo con il proprio corpo a un corpo morto. Davvero, siamo soli. Questa solitudine ci renderà monaci – o suicidi. Ci renderà forti. Altro che posto al sole, noi scriviamo nelle catacombe. Caro Tiziano, probabilmente conosci il racconto con cui Varlam Salamov fa scattare i suoi “Racconti dalla Kolyma”. S’intitola “Sulla neve” e racconta come i prigionieri nei Gulag costruiscono «una strada nella neve vergine». Uno sega la scia di neve in cima. Cinque lo seguono, affiancati; a turno gli danno il cambio. Si scelgono giornate di sole particolarmente limpide per tracciare la strada, ma non ci sono avvoltoi in Siberia. Come ricorderai, il racconto è una metafora. Chi traccia una scia sulla neve immacolata, «dove ancora non si è mai posato piede umano» sono gli scrittori. «Quanto ai trattori e ai cavalli», invece, «su quelli vanno i lettori». Lo scrittore è colui che traccia una via nell’ignoto, spiana lo sconosciuto. Oggi, mi verrebbe da dire, molti scrittori preferiscono battere le vie già percorse rispetto ad avventurarsi nella neve vergine, ma questo è un altro discorso. Il racconto, voglio dire, assegna una grossa responsabilità ai lettori. Se non ci fossero i lettori, su cavalli, trattori e calessi, la strada nella neve vergine sparirebbe alla prima bufera. Solo l’ostinazione di percorrere certe scritture le fa esistere ancora. Ecco, io sono convinto che molti scrittori, quelli che hanno percorso le vie più dure, ardue, difficili, presto saranno dimenticati, forse lo sono già. I lettori, oggi, vogliono viaggiare in prima classe e vogliono il posto in prima fila, non amano più avventarsi nell’ignoto. Ma poco importa anche questo, caro Tiziano, io voglio ringraziarti, adesso, perché pubblicando il libro di Andrea Temporelli abbiamo compiuto un piccolo atto sovversivo. Abbiamo confuso le piste, abbiamo cacciato con una pietra gli avvoltoi. Abbiamo scavato il nostro piccolo sentiero nella neve vergine.
scarica la pagina originale: Brullo 9 dicembre 2015
(Davide Brullo, Lettera aperta su un caso editoriale. Caro Tiziano, la cultura è morta, “La Voce di Romagna”, 9 dicembre 2015, p. 30)
Tanto vale schiaffare le cose in rete, chi se le vuole leggere se le legge, e i posteri (“se ne saranno, in sede letteraria”) decideranno.
Non che il ruolo degli editori non sia potenzialmente importante. L’editoria romena, ad esempio, per citare un caso che un po’ conosco, continua, anche in poesia, ad esercitare il proprio ruolo di filtro più o meno attendibile (nessuno è perfetto, e non c’è mai stato, credo, un grande critico che non abbia mai preso un abbaglio).
Ma se l’editoria tradizionale ed ufficiale ha ormai abdicato al proprio ruolo culturale, non resta che la rete. Il ritorno ad una diffusione che prescinda dalle sigle editoriali (che del resto non rendono, di perr se stesse, importante un’opera: vale semmai il contrario).
Dopo l’era della stampa, si potrebbe tornare ad una realtà simile a quella che esisteva prima di essa. Tornare a scrivere per i Fedeli d’Amore.