Accetterà l’eternità di cadere nel tempo, in questo nostro tempo?

Tiziano Scarpa dice: “Per le Feste in arrivo regalate e fatevi regalare ‘Tutte le voci di questo aldilà’. E’ un romanzo speciale, uscito per una piccola casa editrice. Non lo troverete impilato alle casse degli ipermercati. Perciò al gusto della lettura aggiungerete quello della scoperta! Mi ha suscitato molte riflessioni, che trovate nell’articolo linkato.” (dalla pagina Facebook “Il primo amore”)

Qui di seguito potete leggere l’articolo cui si fa riferimento (l’originale si trova qui)

Accetterà l’eternità di cadere nel tempo, in questo nostro tempo?

Un professore di liceo di mezza età scopre un poeta di vent’anni che ha scritto una raccolta di poesie abbaglianti. Il ventenne non ha nessuna intenzione di pubblicarle, non gli interessa. Allora il professore organizza un convegno di poesia per fargli conoscere il mondo di cui potrebbe far parte. 
La fine non la dico.

Max, il professore, da giovane aveva pubblicato un promettente libro di poesie, ma poi ha messo da parte il suo talento; non sa nemmeno lui se considerarsi ancora un poeta. Nel frattempo è venuto in contatto con l’ambiente dei poeti italiani, nel quale c’è un po’ di tutto. Persone serie, appassionati, ambiziosi, raccomandati, protetti, scribacchini, superbi, vanesi… Fra di loro ci si accalora e ci si perde nell’oscillante borsa-valori delle reputazioni critiche, nelle discussioni di poetica e nei maneggi per realizzare le proprie piccinerie velleitarie. L’incontro con le poesie del ventenne Davide riporta Max alla sostanza autentica, al senso primario dello scrivere, del pubblicare e, in fin dei conti, a ciò che conta nella vita. È come se – l’esempio è mio, e va preso con le molle, è puramente illustrativo – è come se un vescovo perso in mille beghe clericali incontrasse nella sua strada un san Francesco che gli ricordasse il messaggio primigenio cristiano, e qual era il senso di tutta l’istituzione ecclesiale che ha risucchiato gli animi in una specie di dirottamento burocratico, gerarchizzato, fatto di conflitti ed esteriorità che non hanno nulla a che fare con la parola di Gesù…

Le prime pagine presentano una impressionante rassegna di poeti che, nel corso dei secoli, si sono uccisi o hanno rovinato la propria vita per votarsi alla poesia: scelte che a qualunque persona di buonsenso non possono che apparire insensate, e che perciò denotano che nella poesia, nella ricerca di dare forma a un’opera d’arte linguistica assoluta e duratura, c’è un investimento esistenziale immenso, incommensurabile, misterioso, follemente serissimo e serissimamente folle.

Il romanzo comincia in maniera sommessa e divertente; la routine scolastica, i professori che si scaricano l’un l’altro la scocciatura di dover leggere le poesie di graziose allieve: ma attraverso questa porta d’accesso si scopre una gemma irradiante, una pepita dal peso specifico senza eguali: Max resta fulminato dalla lettura dei versi del giovane Davide, e tutto in lui si riattiva, riconquistando la spinta perduta, il motivo per cui vale la pena impegnarsi. Ecco la scena in cui Max legge per la prima volta le poesie di Davide:

Lo aprì, abbassò gli occhi, e cominciò a leggere. Era un testo abbastanza lungo. 
Fin dai primi versi cominciò un rollìo in fondo al suo petto (ma non se ne rese subito conto: non era preparato ad accorgersi), che via via diventava più forte.
Quando questo sottofondo oltrepassò la soglia fra l’inconscio e il pensiero razionale, mentre si avviava a concludere la lettura, un grumo di angoscia e di felicità gli ingolfava il petto. 
Quando, terminata la lettura, sollevò gli occhi, il mondo non era più lo stesso: come ci fosse stato un terremoto che avesse spostato ogni cosa, di un millimetro solo, ma irrimediabile, o come avesse indossato delle lenti per correggere un difetto alla vista di cui non si era mai accorto: tutto ora gli appariva inclinato diversamente, diversamente messo a fuoco, restituito ad altri colori, più nitidi. 
Era sulla soglia della sua classe e gli studenti lo stavano guardando. Doveva cominciare la lezione, ma lui non era più lì.

Max vuole conoscere Davide, lo incontra. Forse rivede in lui il sé che si è lasciato alle spalle e che aveva dimenticato tradendosi da solo; ma rimane sconcertato dall’indifferenza del giovane per la pubblicazione. Per convincerlo a stampare i suoi versi riallaccia i rapporti con i suoi vecchi amici poeti, frequentando il bar dove si trovano a discutere. Sfrutta le sue conoscenze, compreso un illustre studioso straniero, venuto a vivere in Italia, che per coincidenza è il padre di un suo studente. Concepisce l’idea di organizzare un convegno sulla situazione della poesia, con lo scopo segreto di mostrare a Davide il mondo con cui potrebbe interagire se accettasse di pubblicare il suo capolavoro.

Questi cenni riassumono in maniera scheletrica la prima metà del romanzo, che è pieno di ritratti, figure multidimensionali, professori, poeti ma anche ragazze, studenti, mogli. Temporelli è bravo come Ammaniti a far procedere i destini di vari personaggi, con grande senso del ritmo che, prodigiosamente, non si applica a fattacci o a conflitti madornali, ma a questi temi personali, culturali, relazionali. Una specie di incrocio fra Čechov e Ammaniti – se dovessi sintetizzarlo con una formula semplicistica, certamente altisonante, ma utile a dare un’idea.

Il senso di Temporelli per il ritmo romanzesco si trova per esempio nei ricorrenti dialoghi fra Sabrina, una ragazza occhialuta e non molto carina, ed Elisa, la bella studentessa innamorata di Davide e spiazzata perché lui, ancora vergine, non vuole andare a letto con lei, pur frequentandola amorosamente. Sono intermezzi gustosi, molto efficaci anche per la tecnica narrativa, perché riferiscono alcuni episodi di riflesso; è come se in una sinfonia ci fossero dei movimenti suonati con un ensemble ridotto, da camera, un duetto di clarini o viole. Ma sono appassionanti anche le discussioni che gli amici poeti fanno nel bar. Temporelli non rinuncia a nessuna delle cose che gli stanno a cuore, enuncia punti di vista sulla letteratura e la poesia in particolare, ma riesce a non insabbiarsi.

La seconda parte del romanzo è ambientata nell’albergo in cui si svolge il convegno: anche questo, come si vede, non si presenta di certo come un argomento in sé accattivante, eppure la turbinosa abilità di Temporelli di tessere (letteralmente tessere, incrociando i fili di stoffa dei personaggi e formando un disegno) rende la lettura irresistibile. Almeno una dozzina di personaggi vengono ritratti e seguiti, e di ciascuno siamo vogliosi di conoscere la sorte. Mogli trascurate, poeti stroncati da una recensione autorevole che ha distrutto per sempre la loro carriera e bramosi di vendetta, ragazzine alla loro prima esperienza amorosa, autori più o meno a loro agio nelle situazioni mondane, poetesse pettorute, giornalisti, critici… Attenzione: non si tratta di un mondo completamente corrotto: c’è del buono e c’è del grottesco in loro, ci sono comportamenti ridicoli o dignitosi, tesi bislacche oppure assolutamente condivisibili, geniali. Invitando tutte quelle persone al convegno, Max mette in scena per il giovane Davide la situazione così com’è, per spingerlo a decidersi. E in questo allestimento c’è in gioco qualcosa di molto profondo e grande, che ci fa spasmodicamente tifare e ci lega all’andamento della narrazione in tutti i suoi rivoli, perché siamo avvinti alla posta in gioco che li contiene tutti: accetterà, la poesia, di farsi pubblicare in questo ambiente? Accetterà, lo spirito, di incarnarsi? Accetterà, la luce abbagliante del capolavoro, di farsi leggere? Accetterà l’eternità di cadere nel tempo, in questo nostro tempo?

Tutte le figure, tutte le scelte di Temporelli sono centrate, dense, significative, appropriate: per esempio, tanto per sceglierne una soltanto, il cronotopo del lago, in riva al quale si svolge il convegno: si potrebbe interpretarlo come una specie di mare separato, di pozza chiusa, com’è attualmente il mondo della poesia, che non ha un vero pubblico e dunque non è come il mare aperto della narrativa (pur con tutte le controindicazioni di mercificazione ecc.): la poesia è un lago, perché in quell’ambiente bastano davvero pochi riscontri per decidere le sorti di un’opera, di un autore, e non ci sono bilanciamenti o smentite che vengano direttamente dal pubblico, dai lettori, senza la mediazione degli addetti ai lavori.

In tutto questo spicca la lingua di Temporelli, che sembra costruita attorno a un nucleo vuoto, quasi come il buco di un disco in vinile attorno al quale gira l’erogazione sonora. Il centro inudibile è la poesia di Davide, i suoi versi, dei quali nel romanzo non viene trascritto nemmeno un frammento: sono un cenno proiettivo, che, come lettori, possiamo soltanto fantasticare, mentre intorno risuonano tutti gli altri linguaggi: dialoghi spiccioli e impegnativi, confidenze sessuali di ragazze e dibattiti di poetica, conversazioni fra coniugi e fra professori, brani di prosa incalzante e descrizioni suggestive ma sempre gestite con parsimonia e incisività, citazioni di canzoni che restituiscono lo sfondo poetico dello spirito del tempo un po’ pedestre anche se efficacemente seduttivo; e, ogni tanto, misteriose impennate lessicali che indicano la possibilità, per il linguaggio, di sfondare verticalmente verso l’enigmatico, al limite dell’incomprensibile, quasi una trascrizione alfabetica dell’ineffabile che si allinea alla morfologia italiana, minuscoli strappi attraverso i quali la pagina viene irrorata dalla luce di una lalìa aliena: mi riferisco a singole parole desuete, semidimenticate o disusate, aggettivi e termini che, come dicevo, saltano fuori ogni tanto, ogni venti pagine, in frasi e paragrafi che altrimenti sono assolutamente comunicativi e sobri e al servizio del racconto (il libro di Temporelli non è assolutamente un esercizio di stile linguaiolo). Bisogna immaginarli quasi come menhir solitari che improvvisamente si innalzano in un paesaggio coltivato a giardino, orto ordinato e profumato, percorso da strade carreggiabili. Eccone alcuni: “geldra”, “specillare”, “sgambigno”, “spulezzò”, “bùlima”, “mence”, “zurlarello”, “sgrugnone”, “sfrussatina”, “famulatorio”, “arrangolata”, “scerpellini”, “strullate”.

Raramente in questi anni ho letto un romanzo che riesca a tenere insieme con altrettanta solidità il gusto del racconto e la densità di argomenti umani e culturali, vivificandoli e potenziandoli a vicenda.

 

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