Milo De Angelis

Milo De Angelis

Si ragionava, ieri, della difficoltà nel mondo della scuola di raccontare l’esperienza poetica contemporanea. È il problema, ormai annoso, della mancanza di un canone di riferimento. 

Nel contesto di quella che a suo tempo – quando mi ero impegnato in un lavoro critico proprio su questo margine – definii fine della tradizione, mi piace riproporre qui un vecchio saggio che riguarda uno dei poeti che non potrà mancare in qualsiasi storia della poesia italiana di fine Novecento-primi decenni del XXI secolo. Si tratta di Milo De Angelis.

Lo studio che gli dedicai, ovviamente, non comprende i suoi titoli più recenti e in particolare Incontri e agguati (Mondadori), edito pochi mesi fa. Mi pare però che un’ipotetica appendice di aggiornamento non smentirebbe il profilo imprescindibile, quanto controverso, di questo autore, che proprio nelle ultime opere trova un (definitivo?) equilibrio, come se, intimamente, o progettualmente, egli avesse circoscritto la propria stessa classicità. Smorzati i picchi vertiginosi degli esordi, inclinato il tragico verso l’elegia, De Angelis risulta ormai a suo modo impeccabile, un poeta perfettamente insediato nella propria cifra.

L’ULTIMO VAGITO DI MILO DE ANGELIS

«Ogni poeta – se non è disonesto – sa che a forza di mestiere può scrivere dei buoni versi, affinare certe immagini già sue. Ma sa anche che si tratta soltanto di un reddito dello stile sempre sul punto di trasformarsi in una scappatoia dalla sua solitudine, se un determinato universo stilistico esistenziale è stato da lui esplorato. Sappia aspettare e forse gli sarà dato un altro luogo in cui scrivere»[1]. Sono affermazioni dello stesso De Angelis, al quale non è bastato evidentemente un decennio di attesa, per trovare, dopo Distante un padre, un altro luogo per la propria scrittura. Biografia sommaria si rivela, infatti, non solo una raccolta più esile rispetto alle precedenti (Millimetri va considerata insieme a Terra del viso, di cui rappresentava originariamente un capitolo), ma del tutto in linea con una poetica già consolidata. Gli spunti innovativi che pure si potranno rilevare si muovono, anzi, in direzione peggiorativa rispetto al canone fondato in seguito a Somiglianze, la prodigiosa raccolta d’esordio che ha visto una nuova edizione, riveduta dall’autore, proprio in occasione del brano di intervista sopra riportato[2].

Il titolo dell’ultimo libro, tuttavia, suona abbastanza originale rispetto alle raggelate formulazioni precedenti. Nella sua polisemica indeterminatezza (sommaria per indicare la provvisorietà, appunto, oppure il senso di giustizia che suscita la pietas di chi scrive per lenire lo sgomento di fronte alla cinica fatalità della morte, o la stratificazione che attraversa, e così via) lascia in effetti trapelare un senso di maggiore abbandono, anche elegiaco se vogliamo, rispetto all’esperienza biografica, ripresa nella scrittura con maggiore affabilità e disponibilità al racconto. Queste non sono però cifre pertinenti alla prima e più bella sezione, un poemetto, intitolata L’oceano intorno a Milano, che si offre come veramente indicativa della poesia deangelisiana, condotta a un livello di elaborazione che ormai conduce alla semplicità e alla chiarezza. Semplicità e chiarezza che andranno intese in senso estetico, com’è ovvio, in riferimento a una scrittura da sempre tacciata di oscurità, a tratti presa erroneamente come matrice di un orfismo che va invece considerato una maniera deviante rispetto al dettato lucidamente razionale, fino al parossismo, della poesia di De Angelis, dove la strenua cogenza analogica si fa assurda e impenetrabile, vera come ogni verità indeducibile («è vero dunque si p anche non dimostrarlo»[3]), che si impone per “assoluta” evidenza, nel senso di un’autonomia testuale rapinosa che artiglia improvvisamente il reale senza gesti di realismo manifesto, come se la razionalità non potesse far altro che compiere una torsione contro se stessa e annullarsi per uscire dal telos che la determina generando un’aura tragica (e si rinvia, per questi temi, all’intervento di De Angelis La chiarezza di ogni tragedia[4]). È noto l’incedere poetico di questo autore, che nel rispetto della sintassi asseconda un certo respiro alogico del discorso, in un procedere per cortocircuiti reiterati fino a quegli scatti aforismatici che sciolgono la tensione drammatica stringendo il testo in una coerenza intuitiva, eidetica.

L’oceano intorno a Milano, pur essendo un capitolo poco esemplificativo della reale natura del nuovo volume, almeno secondo la linea indicata dal titolo, è certamente quello più congeniale a De Angelis, rispetto ai risultati. Ci pare perciò necessario approfondirne l’analisi, prima di verificare un’ipotetica nuova fase della poesia di questo autore in riferimento alle restanti sezioni. Comincerei con un confronto sbrigativo con la versione apparsa nel 1994 su rivista[5].

Qui, l’indicazione finale ci consegna un luogo e una data: «S. Nazaire, gennaio 1993»: non c’è ombra di dubbio che l’oceano sia realmente quello visto dalla cittadina bretone, per cui la suggestione metafisica del titolo della sequenza ha un’origine assai concreta e un significato tutto giocato sulla relatività dell’avverbio di luogo sul quale ci si deve intendere. Eppure, la versione finale occulta ancor più il riferimento di partenza per assolutizzare il testo rispetto al dato esperienziale, spostando il vertice semantico sull’oceano, il cui valore aumenta anche di rimbalzo, dopo la sorpresa introdotta dalla città nominata, pacificamente senza rapporti diretti né con il mare né, tantomeno, con l’oceano. De Angelis ha dunque attuato uno spostamento di luogo, non soltanto a livello semantico, se anche l’attacco viene modificato: «L’oceano lì davanti lì davanti / come un’idea a perpendicolo / o uno sbocco di sangue» diventa, senza perdere l’efficace e conchiusa evidenza della nominazione diretta e dei deittici: «Milano lì davanti, lì davanti» ecc. Nei tre versi successivi si riscontrano varianti meno significative, sia pur nello slittamento dalla prima persona singolare a quella plurale, per attenuare lo slancio lirico. Le modifiche più sostanziali riguardano i passi successivi: «come questa fila di case, d’inverno, / significa camminarci accanto, essere d’inverno», sono versi che vengono espunti, si immagina per un senso di bozzetto esistenziale che sembra delinearsi, anche per quell’«inverno» che è metafora facile e ricorrente in molta poesia contemporanea, ma probabilmente la ragione determinante è che i versi appartengono alla raccolta precedente, dove si trovavano in fine di Le parità[6]. Ma quello che più stupisce è che i versi della nuova versione («finché una strada ci conduce / nel colloquio straniero / mendicanti di hotel / con l’idea e lo scisma nell’idea»), più consoni a una metafisica ardua e sostenuta, costituiscono un riporto dal secondo frammento dell’edizione ‘94, con minima variazione nel numero («Poi le strade ci conducono») che ancora allontana dal dato realistico per una condensazione inflessibile, che individua «una strada» (al singolare): la perdita di genericità comporta una fissazione più ipnotica. I restanti versi della prima stesura vengono ripresi, ridotti però quasi soltanto a uno spunto (una nota da cui partire) per l’accumulo di modifiche e nuove immagini, fino al totale stravolgimento (anche tonale, musicale) della formula di explicit: «si toccano gli elettrodi / per un semplice finale» “prende il posto” di «È mattino, nient’altro». Anche qui le ragioni della variante sono chiare: la vecchia sigla appare stereotipa (fino al vero e proprio calco linguistico), segna un’inflessione intimistica che ha moltissimi echi non soltanto nella tradizione letteraria, ma nello stesso De Angelis, che spesso è ricorso a simili puntelli referenziali e discorsivi per rilassare, improvvisamente, la tensione analogica protratta fino a quel punto: il caso eclatante è la chiusa della seconda poesia di Distante un padre: «Quindici isole / dopo l’infanzia. Tra poco, a Bari, aprono / le edicole. È mattino, nient’altro»: qui la climax discendente ci porta su una vera e propria autocitazione, da occultare. Ma non mancano altri esempi analoghi; eccone tre da Somiglianze: «Via Pacini. Piove, sempre di più» (p. 79) «Fuori c’è Milano. Novembre» (p. 80), «Sobborghi di Milano. Estate»  (p. 99). Quello che tuttavia sorprende e diventa sospetto, nella scelta della variante, è che al posto di un’autocitazione, forse troppo evidente, viene accolta una citazione addirittura doppia (a quanto mi risulta da un’indagine non metodica): il «semplice finale» lo troviamo in due luoghi ancora di Distante un padre: «Giocoforza di un luogo, fu / un semplice finale» (p. 39), «Vera la paglia e i pupazzi / dal semplice finale» (p. 47).

Tornando al confronto fra le due versioni dell’Oceano intorno a Milano, notiamo che anche il terzo frammento della stesura più vecchia viene spezzato, e la seconda parte, anteposta per creare una corrispondenza consequenziale tra la «città» del finale con l’attacco «Ed è Milano», diventa con poche e lievi modifiche un brano a sé, mentre la prima parte, con più pesanti ritocchi, si dilata con sei versi che reintroducono un luogo caro alla topografia poetica di De Angelis, l’Idroscalo. Proseguendo nella lettura sulla rivista, si scopre che il quarto passaggio è soppresso completamente, a esclusione dell’attacco, variato, in ragione del mutamento del paesaggio (da «Nostra Signora dei naufraghi» a «Nostra Signora degli insonni»). Il quinto, invece, che corrisponde al numero XIV nel libro, subisce modifiche radicali («Nel capogiro delle piastrelle / vecchi lontani lasciati liberi / portano le lenticchie a capodanno. […]» < «Nel capogiro delle tangenziali / donne ancora felici portavano le lenticchie […]») con una nuova sostituzione di luogo; il sesto (VII nel libro) espunge, oltre ad altre modifiche, la prima parte: «Troppo presto accorse la materia / che non giudica e che non urla / troppe volte il cuscino / ha rifiutato la sporcizia, il vero luogo / dei sosia e della mimica».

Viene invece estrapolata dal contesto di questo poemetto la settima parte, inizialmente virgolettata, come fosse riferibile ad altra voce che non a quella dell’autore: ora la poesia è inclusa con titolo Ude-garami nella seconda sezione della raccolta. Anche qui troviamo molte varianti, ma l’intervento verte soprattutto sul profilo dei versi e della musica (introduzione di rime). Il nono frammento (l’ottavo, il più breve, mi risulta soppresso), diventa nel libro il III, sul quale torneremo, soffermandoci ora sulle ragioni delle modifiche agli ultimi versi. Si legge nella stesura del 1993: «quattro mani / per sorreggere un giornale: a memoria dunque, / a memoria ci siamo tutti»: in poco più di due versi il poeta riattinge a due altri “luoghi” della sua poesia: «quattro mani / per sorreggere un giornale» (sempre in BS, Una poesia per concludere, p. 33) e la doppia citazione di DP «A memoria dunque, / a memoria ci siamo tutti» (p. 23), «a memoria / ancora una volta ci siamo tutti» (p. 30). Il decimo passaggio diventerà invece la seconda parte di Un nome della fine, e qui riportiamo le due versioni per un confronto (nella seconda, evidenziamo le rime):

“È già stato:
anniversario di Via Rosales
e sangue attuale,
Domattina, amore, lo saprai?
Domattina è questo
congedo, ormai,
l’inizio ci assale… questo ora chiedo:
che sia infantile
come una rima, scagliata all’aperto
sorriso. Che sia, nel paradiso
esistito di certo, quella via
scomparsa per prima”

<

«È già stato, ormai, è già stato», ripete un amico
lungo la camionale, istante dell’anniversario
e sangue attuale. È già stato, ormai… domattina,
amore, lo saprai? Domattina è questo nome
di prima che si stacca… questo
ora chiedo: che sia infantile come una rima,
che sia ora, scagliato all’aperto sorriso;
che vada. Che sia. Questa verità
di andare via, la solita strada, il bel paradiso.

L’undicesima parte del ‘94, prima di dare corpo al XV testo del libro (ma irriconoscibile), si appropria anzitutto del verso refrain che in rivista apre il dodicesimo frammento («Milano lì davanti, lì davanti»), poi di un inciso («– matita persa nella matita stretta –») del frammento quattordicesimo, il quale a sua volta viene soppresso, salvando però la clausola che ritroviamo altrove (finale della poesia Prenestina Nord, nella seconda sezione di BS). Il frammento dodicesimo, decapitato, diventa, con altre modifiche, l’VIII del volume, mentre anche dall’altro testo espunto, il tredicesimo in rivista, si concludeva con una citazione («sul quaderno ustionato / “sono tutti / i miei atti di giustizia”») di due passi poetici che ritroveremo.

Senza perdersi in tutti i dettagli, anche l’analisi delle varianti delinea un procedimento di scomposizione e ricomposizione atto a conchiudere il testo nelle proprie ragioni, in perfetta aderenze con i motivi della poesia precedente l’attuale Biografia. Il processo compositivo si avvale di molteplici moduli. Ciò è confermato da un’analisi sincronica, condotta questa volta nella versione pubblicata in volume. Annotiamo, anche qui senza pretesa di completezza e organicità, le riprese – magari con minima variazione – più palesi.

Anzitutto, il primo verso della raccolta, «Milano lì davanti, lì davanti» è utilizzato sia in apertura del primo che dell’ultimo passaggio del poemetto, con il significativo calco del frammento XI: «L’oceano lì davanti, lì davanti», così come «con l’idea e lo scisma dell’idea», chiusa sempre del primo passaggio, si ritrova, in posizione centrale, nella già menzionata Prenestina del nord, appartenente alla seconda sezione; «matita persa nella matita stretta» (III, p. 13) ricompare in XV (p. 25)[7]; l’incipit dallo smaccato sapore luziano di IV, «Vita che è solo vita» (p. 14), è contraddetto in Cartina muta (p.43): «Vita, che non sei soltanto vita», ma anche «I camion» che «restano lì, spirituali», nello stesso frammento IV, si parificano ai treni di Forse voi (p. 32): «I treni della Certosa restavano lì, / spirituali», sintagma che è già di per sé fortemente attratto dalle nazioni, sempre «spirituali», della poesia appena successiva (la già menzionata Una poesia per concludere), dove l’aggettivo ricorre in posizione di tutto rilievo richiamando alla memoria un verso di Distante un padre: «La mandibola / rimane, lì, spirituale»[8]; «ci sprofonda nel sangue senza musica» (V, p. 15), che pure compariva in DP[9], riappare in Cartina muta (p. 44), prima di un finale che già riprende la citazione di Fortini in calce al titolo; «Nostra Signora degli insonni» (VI, p. 16) è invocazione poi declinata in «Nostra Signora delle nebbie perenni» (Storiografia, p. 30); «quell’attimo / colpito nel principio» e «dalla luce resa calce» di XII (p. 22) diventano rispettivamente il finale di Costruzione con fiammiferi II (p. 65) e la più sintetica «luce / calcinata»  di p. 59 (La buona notte); «anche qui è lo stesso giorno» (XV, p. 25) è matrice (si tratta, in entrambi i casi, di versi conclusivi) di «anche qui è l’identico momento» (Luogo intero, p. 37). Proseguendo, oltre i limiti della prima sezione (ma già molti sono i puntelli tra L’oceano intorno a Milano e il resto del libro), vediamo che l’inciso virgolettato «“Dove sei stata / per tutta la mia vita”», diventa un verso a sé stante nel corpo di una poesia invece molto compatta (Scavalcamento centrale, cit. a p. 50); «l’ago del ritorno» e «il tuo viso e il nostro, ricomposti» di Palazzo di giustizia (p. 57) riappaiono insieme a p. 62, sotto forma di titolo e incipit: L’ago del ritorno: «Tornano, vedi, ricomposte le visioni», mentre il secondo verso ricompare da solo nei «visi ricomposti» della Buona notte (p. 59), poesia nella quale «Morire è l’infinito presente» come in Semifinale: «Morire / è dunque perdere anche la morte, infinito / presente» (p. 63)[10]; in Posto di blocco il «filo che teneva la palpebra fissa» non è solo ripetuto in apertura e in chiusura di questa poesia, ma si occulta in «qualcosa / che tiene la palpebra fissa» a p. 71 (Costruzioni con fiammiferi VIII); ripetizioni significative che trascinano con sé la più inerte ripetizione di «la sua sorte» in testi tuttavia contigui (pp. 68 e 69); «l’ultimo vagito», per concludere, appare in Costruzioni con fiammiferi sia nella sequenza III che nella VIII.

Non è una novità né una caratteristica intrinseca a ogni singola raccolta questa sorta di costante ripresa di formule gnomiche o locuzioni caratterizzanti. Alcuni puntelli fra libri differenti sono già stati notati, ma forniamo ora (in attesa di una verifica più metodica) un primo regesto.

Ci si soffermi, prima di un elenco schematico, sul caso di L’oceano intorno a Milano III, testo sul quale abbiamo già appuntato qualche ripresa:

Ore e ore a colpi di lima, un mese intero
per trovare il cuscino, lo stesso
intuito di un figlio che respira
nei primi attimi di una cosa, la stessa
finestra divisa in gridi,
quattro pagine per scrivere padre,
matita nella matita stretta, padre
che mi chiama padre.

Se «a colpi di lima» può essere considerata una fortuita concomitanza con la poesia La goccia pronta per il mappamondo di Millimetri, sebbene chiami in causa uno dei testi più emblematici della racconta e in quella sede costituisca addirittura un verso a sé stante, ben altro peso avranno i ripescaggi da Distante un padre: «l’intuito di una figlia che respira / nei primi attimi di una cosa. Carta per dire / brodo e riso, mesi per dire cuscino» (Telegramma, p. 27); «Finestra divisa in gridi» (Il saluto che mi restò in comune, p. 20); «Superstite / che si chiama padre» (finale di Riga, p. 7).

Ma approntiamo un catalogo provvisorio, tenendo in considerazione sia dei ritorni interne alle singole raccolte, sia a quelli trasversali[11]:

Prima ancora (S, p. 15) → Prümma ancora (DP, p. 113, sono entrambi titoli)
«Fa’ che la pioggia…» (S, p. 26) → «fa’ che non / piova» (TV, p. 10)
«(“dove sei stata / per tutta la mia vita?”)» (S, p. 42) → «Dove sei stata / per tutta la mia vita…» (BS, p. 44) → «Dove sei stata per tutta la mia vita?» (BS, p. 50)
«questa è la carezza // che dimentica e dedica» (S, p. 64) → «Così la vittoria è di chi / dedica e dimentica» (S, p. 115)
«ma non c’è più tempo per fare l’attimo» (S, p. 65) → «Non c’è stato tempo per fare l’attimo» (dalla prosa Più bianco allontanato inclusa nell’antologia La parola innamorata[12])
«“perdonami questo amore che / è già un’azione”» (S, p. 68) → «“Perdonami questo amore che è già un’azione”» (S, p. 115)
«loro / loro perdoneranno» (S, p. 69) → «loro… / i muti nell’acqua… loro perdoneranno» (DP, p. 48), con il pesante richiamo a un altro finale, ma di Sereni («non li perdoneranno», da Quei bambini che giocano), magari coonestato dall’ancora più enfatica clausola, questa volta affermativa, di La spiaggia («parleranno»)[13]
«“noi che eravamo per la gioia”» (S, p. 72) → «Eppure era per la gioia» (S, p. 80)

«nei pazzi giungerà l’universo, / quel silenzio frontale dove erano / già stati» (M, p. 8) → «In noi giungerà l’universo, / quel silenzio frontale dove eravamo / già stati» (M, p. 16) → «firmamento / dove ritorniamo cancellati» e «il luogo più prossimo, / mi dicevi, in cui eravamo / già stati» (DP, p. 90 e 95)
«un calendario in / sangue di cicogne» (M, p. 10 → p. 17)
«La saliva risucchia / se stessa e beve» (M, p. 14) → «La saliva, per la seconda volta, / risucchia se stessa; / beve» (M, p. 22)
«non / solo creato» (M, p. 21) → «non solo creato» (La parola innamorata, p. 81), poi divenuto titolo di una raccolta poetica realizzata con Giovanna Sicari[14]
«Giunge luglio per i morti» (M, p. 28) → «Giunge novembre per i pazzi» (TV, 32) → «Marzo chimico dei morti» (DP, p. 14)
«“Se la guerra finisse ora, / saprei ucciderti / senza motivo?”» (M, p. 35) → «adesso che la guerra / è finita / ti posso uccidere / senza motivo» (TV, p. 45)
«quattro mani per sorreggere / una foglia» (M, p. 36) →«quattro mani / per sorreggere un giornale» (BS, p. 33)
«Una città / ci capiva tutti!» (M, p. 36) → «Questa città, dicevi, / ci ha capiti sempre» (TV, p. 41)

«Ecco gelarsi, nel torace, le corse infantili» (TV, p. 33) → «Ecco le corse infantili / scomparire in una forma del seno» (BS, p. 12)
«Sono tutti i nostri / atti di giustizia» (TV, p. 42) → «sono tutti i nostri atti di giustizia» (DP, p. 9) → «“sono tutti / i miei atti di giustizia”» (L’oceano intorno a Milano, versione del 1994, fr. XIII) → «sono i miei primi doni alla giustizia» (BS, p. 33, ma in una precedente stesura: «sono tutti i miei atti di giustizia»[15])
«quando la natura potente sopra la pioggia / scambia una vita con un’altra vita» (TV, p. 57) → «come due città, potenti sotto la pioggia, / scambiano una vita con un’altra vita» (BS, p. 31)
«con l’idea a perpendicolo» (TV, p. 59) → «come un’idea a perpendicolo» (BS, p. 11)
«Materia che / fu soltanto materia» (TV, p. 40) → «la vita che è solo vita» (TV, p. 62) → «Vita che è solo vita» (BS, p. 14)

«L’inizio ci assale» (DP, p. 6) → «L’inissi m’assal» (DP, p. 113)
«Padre che si chiama padre» (DP, p. 7) → «Padre che mi chiama padre» (DP, p. 7) → «padre / che mi chiama padre» (BS, p. 13)
«A memoria dunque, / a memoria ci siamo tutti» (DP, p. 23) → «a memoria / ancora una volta ci siamo tutti» (DP, p. 30)
«raccogliendo il quaderno ustionato» (DP, p. 29) → «Era / lo stesso quaderno ustionato» (Prenestina del nord, versione apparsa in Non solo creato, p. 41, poi < «Era lo stesso quaderno / calcinato», BS, p. 31) → «sul quaderno ustionato» (L’oceano intorno a Milano, versione del 1994, fr. XIII)
«usare le labbra» (DP, p. 41) → «un atto / di labbra» (DP, p. 75)
L’analisi del periodo (DP, p. 46) → Analisi del periodo (BS, p. 38, sono entrambi titoli)
«fino al / chilometro indicibile novecento» (DP, p. 46) → «fino al / chilometro sfinito novecento» (DP, p. 65)
«“[…] ora è la città che mi aziona il respiro”» (DP, p. 48) → «Ora una città / ci aziona il respiro» (BS, p. 14)
«raccogliendo per terra pianeti / della fortuna, scatolette per gatti / che anche aperte ci danno un confine» (DP, p. 60) → «guardiamo i pianeti della fortuna, / le scatolette che ci danno un confine» (BS, p. 11)
«Nell’uomo che li sveste, lì, / i morti trovano consiglio» (DP, p. 69) → «“Nell’uomo che liricamente li sveste / i morti trovano consiglio”» (BS, p. 30)
«una / festa del pensiero» (DP, p. 75) → «con la festa del pensiero» (DP, p. 86)
«Chiedono non l’acqua ma la sete» (DP, p. 78) → «non abbiamo chiesto l’acqua ma la sete» (L’oceano intorno a Milano, versione del 1994, fr. IV)
«nostro diritto naturale» (DP, p. 81 →  BS, p. 15)
«So / la premura di questo golf azzurro» (DP, p. 94) → «si toglie il golf azzurro» (BS, p. 43)
«la solita strada / è il bel paradiso» (DP, p. 107) → «la solita strada, il bel paradiso» (BS, p. 29)
«mari luntanni lasaij liberi ai portu al lantij al prüm’d l’ani» (DP, p. 113) → «donne ancora felici portavano le lenticchie / a capodanno» (BS, p. 24)

Questo campionario di immagini e di formule esoteriche non assume il valore di uno sviluppo musicale del tema, ma, nella loro insistenza sotterranea, raggelano la temporalità poetica fino a congestionarla in un sentimento del tragico, in una sensazione pervasiva di déjà vu. Eppure, il discorso si potrebbe ulteriormente complicare, se accanto a questa trama di autocitazioni si mettessero in risalto anche le citazioni occulte di altri scrittori. Si prenda ad esempio Terzo tempo del dramma in atto[16], dove alcune frasi, disseminate in tutta la poesia, sono in neretto. Una di queste («un angolo etico che portiamo intatto»), a quanto mi è dato sapere, è una citazione che in altra occasione è lo stesso De Angelis a rivelare:

Quanto all’adolescenza, credo di averne parlato fin troppo. Preferisco riportare, alla lettera, le parole assai pertinenti di un amico di Lugano, Maurizio Chiarattini, che a pagina 53 dell’ultimo numero di “Idra” scrive: “L’adolescenza, prima che una fase dell’età dell’uomo, è una modalità dell’essere, un angolo etico che portiamo intatto”.[17]

A questo punto, anche sulle altre frasi, e sulle affermazioni corsivate cui De Angelis fa abbondante ricorso, cade il sospetto della citazione occulta (non parlerei di plagio in quanto il poeta, evidenziando tali espressioni, mette all’erta il lettore circa la loro provenienza “altra” rispetto alla voce dell’autore[18]). Lo stesso dubbio si estenderà poi naturalmente anche alle espressioni virgolettate. È il caso di un titolo, «Verso la mente»[19], che riprende il titolo di una raccolta di Nadia Campana, pubblicata postuma per la cura dello stesso De Angelis[20], e alla stessa autrice, morta suicida, ammicca il titolo di un’altra poesia, Nadiella:

Giugno nelle epoche, pioggia
per un anno di limbo
avevi un titolo? chiudendo
il capogiro, ci sai femminili?
L’aria mutare in strada
eseguire la caduta
usare le labbra[21].

Qui, ancora, il corsivo è una citazione dalla stessa Campana:

più viventi durante il viaggio
molti orizzonti per ore e ore
immersi in distanza
attraverso le canne e i buchi
l’acqua mutare in aria
eseguire la caduta
usare le labbra[22]

Si tratta, come si può vedere, di strategie predisposte per creare un’aura iniziatica da condividere con il lettore più complice, non senza l’ammicco di qualche passo programmatico: «Qui finalmente cucire mie / e non mie bende»[23], «il dubbio / che io di me fossi un falso»[24]. Ma qui non interessa procedere in queste verifiche, ed entrare in dibattiti teorici che hanno ben presente la controversa vicenda filologica intorno all’opera di Eliot, per fermarci all’esempio più emblematico. La ripresa costante di frasi rituali, abbaglianti nel loro piglio sentenzioso e oscure nel significato, la citazione occulta, l’uso del corsivo come fondazione di un luogo altro, misterioso, del discorso (che talvolta si potrebbe apparentare alla funzione di un Coro tragico), non sono poi che alcune delle svariate modalità cui il poeta si affida. Proviamo anche qui ad apparecchiare qualche esempio fra i molti possibili, per alcune tipologie ricorrenti: – a) varie forme di reticenza: «Risulta poi / che dovendo le creazioni atee finire.» (S, p. 21); «Fa’ che la pioggia…» (S, p. 26); «lì senza più costume… / bagnini morti…» (M, p. 6); «un patto… ero lì… guarda bene… ero già lì…» (M, p. 26); «purissime… tu… / … morto del cortile…» (TV, p. 22); «non capivo che tutto… ma quante cose» (TV, p. 50); «questa tattica… sabato pietre… sabato vivi…»[25] (DP, p. 9); si danno anche intere strofe sincopate, come in Controluce (S, p. 67), Nel punto (S, p. 76); L’unica data (BS, p. 53); – b) improvvisi, celaniani rallentamenti del verso al limite della sillabazione: «ghigni ti sdrai scrosci concedi / e qui fermo / fer / mo» (S, p. 20), «sotto la maglietta sono / n u d a» (S, p. 22); «poi vorrò altre cose e poi non vorrò / nulla» (S, p. 28); «mai udito / mai / udito» (M, p. 36); «divento per sempre / s e r p e» (TV, p. 72); – c) titolazioni ermetiche: STP (S, p. 46); Antela (TV, p. 46), Talvela (DP, p. 24), Todeti (DP, p. 44), Acoimeti (DP, p. 68); – d) formule di preghiera o evangeliche: «Sia fatta questa / volontà» (TV, p. 11); «regina mater, regina apostolorum» (DP, p. 76); «degni di amarvi sopra ogni cosa» (DP, p. 79); «come bambini dovete diventare / perché sia vostro / il regno dei cieli» (BS, p. 36); «“salvami, padre, da quest’ora dolorosa”» (BS, p. 45); «nessuno nei secoli / dei secoli» (BS, p. 59); – e) inserti in altre lingue: «nerozumím, nerozumím» (S, p. 73);  «… krassivi… krassivaia…» (TV, p. 54); «notre père qui es aux cieux… / ai nostri debitori… ainsi-soit-il» (DP, p. 17) ; «Wir / haben ein Gesetz» (DP, p. 76); «… hinaus lehnen… hinaus lehnen» (DP, p. 101); – f) mesi nominati, con preferenza per attacchi e finali che li enfatizzano, come mantra di una temporalità composta da eventi mitici, non lineare: «Giunge luglio per i morti» (M, p.28); «È giugno / certamente, della vita» (TV, p. 23); «erano passati nove giorni di / giugno» (DP, p. 31); «E quale marzo / quale marzo è oggi?»; «Giugno delle epoche» (DP, p. 41); «a febbraio sappiamo / che anche qui è lo stesso giorno» (DP, p. 83); ma la stessa cosa può avvenire per altre determinazioni temporali: «Facciamo in fretta: Sono le sei meno venti. / Un solo gesto cosciente. Sono le sei meno venti» (S, p. 91); «tra le sei meno venti / e la buona fortuna» (M, p. 29); «di una / promessa del 1961» (TV, p. 9); 31 agosto 1941 (titolo, TV, p. 26); «il quarto mese, il quarto giorno» (DP, p. 72); «È stato / l’inverno… l’inverno ha un’estate»; – g) serrate elencazioni, specie nei finali concitati: «e prima ancora, nel bacio e nel chiarore / di una camera, il grande specchio, / il desiderio che nasce, il gesto» (S, p. 61), «La guarda, chiude gli occhi, sbaglia» (S, p. 97); «e poi concepiti e poi / basta, basta per / sempre, e poi poeti» (M, p. 22); «Vegliare, non vegliare, poesia, / cobalto, padre, nulla, pioppi» (TV, p. 40); «e poi / città, lavandino profondo, ora» (TV, p. 58).

Ovviamente, le osservazioni si possono estendere alle immagini e ai lessemi più ricorrenti, all’uso cospicuo di un dialogato di ascendenza luziana ma più asciutto, senza declinazioni naturalistiche di supporto ma con feroci, impudenti asserzioni o aposiopesi, il tutto sullo sfondo di un paesaggio urbano riconoscibile e nello stesso tempo assiderato in una luce mentale, in cui il soggetto non è figura sempre percepibile, ma disseminato in varie voci e visioni: «il grande oggettivo / è cinico come il grande io»[26]. Questa ardua cristallizzazione di eventi e sentenze aveva il merito di non scivolare nella blanda elegia che sarà di altri autori, incantanti da tanta forza tragica, da un tono oracolare che pare obbedire a una legge interna e inflessibile senza piegarsi a misticismi declamati e a velleitarie efflorescenze dell’io. È il caso, in particolare, di Carifi, sollecitato dalla perentorietà di molti versi di De Angelis, come ad esempio: «Chi genera il tempo / ha il volto arato e con pazienza ripete / che noi ubbidiamo»[27], «non toglietegli l’inverno / che scende nella sua voce: è vivo / come una pergamena notturna, respira come un figlio. / Cielo e terra / sono calmi, sono inginocchiati»[28]. A riprova di questa ascendenza, si noterà che la struttura della poesia 31 agosto 1941 (con riferimento al suicidio di Marina Cvetaeva?)[29], cui si può appaiare la Leggenda del lago di Garda[30] per l’identica alternanza di due voci non identificate, senza aggiunta di commenti o descrizioni, viene presa da Carifi come modello per la poesia con la quale aprirà la raccolta L’obbedienza[31]; ma molte sono le concomitanze, lessicali, anzitutto, che andrebbero indicate.

Eppure, in De Angelis, l’incedere fatale del dettato poetico (si rilegga La posizione: «come vincere / questa partita, attaccare con le torri / capire che la sua resa / si avvicina»[32]) risponde a un impulso che nulla concede ai ricami filosofici, sebbene se ne appropri movendosi, per così dire, in direzione completamente opposta. Si potrebbe parlare, anzi, a fondamento dell’«evidenza / misteriosa»[33] dei versi di De Angelis, di obbedienza a un impulso biologico cui sarebbe patetico e vano opporre resistenza: «e sotto l’oceano si accoppiano le cellule sessuali / non ci sono eventi irreparabili»[34]. Seguendo infatti le tracce determinate da alcune fissazioni simboliche (l’uovo, il cappotto, la goccia, le scale, la finestra, la matita), si finirebbe per riscoprire l’importanza dell’interno privilegiato, e spesso occulto, di queste poesie: l’ambiente ospedaliero, e forse, ancor più precisamente, la sala parto (due poesie fondamentali risulterebbero, a questo punto, Nel giugno di un incubo e Sala parto[35]), o comunque l’intera riflessione del poeta sulla vita, sui nascituri, sui morti, sui «Nati sulla terra»[36].

Con questo siamo, probabilmente, nei pressi dell’immagine profonda e generatrice di tutta l’opera di De Angelis, il centro radiale di ogni temporalità, sia quella della memoria sia quella del futuro (e dunque della riflessione sulla morte), che spiegherebbe il feroce erotismo che domina in particolare Somiglianze. Si allude all’atto procreativo. Equiparabile a esso potrà essere soltanto il gesto atletico: e non è un caso che proprio su questi temi vertano le due poesie che possono spiegare il titolo della raccolta d’esordio, vale a dire La somiglianza («Domanderemo perdono / per avere tentato, nello stadio, / chiedendogli di lanciare il giavellotto / perché ritornasse l’infanzia»[37]) e Il corridoio del treno («“Ancora questo plagio / di somigliarsi, vuoi questo?”»[38]). Entrambe sono azioni completamente raccolte nella loro finalità, talmente addentro al proprio destino da potersi dire autosufficienti, cioè che hanno valore in sé, non “servono”, non rientrano nella logica dell’attività pratica, e addirittura annullano la volontà di chi le compie. In questo probabilmente De Angelis rivela tutto il suo debito verso le dottrine orientali, ivi comprese le arti marziali.

Rileggiamo ancora alcuni versi di Somiglianze:

il filosofo scettico con la mano tra le gambe
rifiuta di scomparire nel prossimo grado
e va a divertirsi
da solo, per terra.
Sia assurdo chi fa di lui un passaggio.
Non darà vita a quello che segue! Non è congiunto!

Non è congiunto.

E se adesso pongo il problema, ricorda, non c’è tregua
con queste storie
che sembrano per scherzo:
se dopo un numero a caso ma per esempio dieci
chilometri tu sai con certezza di morire
li fai subito o resti immobile tutta la vita? Oppure
toglila,
la certezza: cosa fai?[39]

Ecco, l’atto del congiungimento è l’impulso superiore a cui l’uomo non può sottrarsi, la finalità entro cui è giocato: perché non è possibile contenere la vita, né con schermaglie filosofiche né con altre esistenziali; e nel suo incedere, si abbraccia indissolubilmente alla morte.

Allo stesso modo, l’attività ludica e agonistica non si riducono a semplice manifestazione di vitalità. Se in Prima ancora[40] si insinua il dubbio che effettivamente sia così («Maglie ammucchiate / la foto della squadra: ce la faremo / domani / vittoria!), subito ci si accorge che non c’è elegia in tutto questo:

Era
restare fedeli, piegati con passività
a questo odore di spogliatoi.
Giocava indietro. C’è umido.
Degli anni, che idiota che sono.
Nei campi di calcio vuoti
non succede niente.
Parlare, adesso,
è soltanto una questione di ordine.

L’esaltazione adolescenziale dello sport non è un abbandono; per chi è veramente contemporaneo all’evento, sa che è ubbidienza all’ordine vitale, sottomissione a forze che subito ci offrono, nel ritorno alla temporalità lineare, gli specchi del nostro destino tragico – soprattutto nel senso arcaico, greco, del termine.

La figura femminile, in questo universo, è il demone cui spetta il dovere di far sì che l’impulso vitale si ripeta, anche a costo di sfigurarsi (desublimandosi), assumendo un aspetto talvolta nevrotico e perverso, invischiato negli infingimenti della vita occidentale. Si noti, per inciso, che in Somiglianze non si può trascurare una certa dose di risentimento sociale, con blande sfumature ideologiche («Fuori c’è la storia, / le classi che lottano»[41]) che ripiegano con più vigore contro i tabù sessuali da infrangere («Sì, lo so, è un problema / amare tutto ed essere efficaci. Questi pupazzi / che detesto, queste chiese […] È così: / nei tuoi occhi riconoscono tua madre / e ne approfittano. Possono. / Possono quando vogliono. Vogliono sempre»[42]). Ecco allora che la donna, spesso definita senza disprezzo ma con spartana approvazione «femmina», diventa la guerriera, l’atleta, la dominatrice: «e la ragazza che ha vinto il maschio nella lotta / è sopra di lui e capisce cos’è l’amore»[43].

Le due immagini profonde, l’atto procreativo e il gesto atletico, trovano sintesi in alcune figurazioni in cui la donna si parifica all’uomo, come in Hantey[44], che indica il pareggio nel karatè:

Come un assoluto agli occhi, un buio
di fronte a sé avvenne il magistrale
volo rallentato. Sorella dei nostri
chili di foglia, affrontavi a terra
i temi di un maschio. Così
fu l’amore matematico. E io voglio questo.
Voglio che ogni goccia
resti alta, breve arcangelo
chiuso dentro l’aula. La goccia
sul disegno a tema libero «Fughe per tutto
il rione, con il cinque al sei,
nemmeno la sufficienza… e nostro padre
cerca le foreste sacre
impugnando una pistola ad acqua…» Era questo
il primo buio saliente,
lo ricordo, una frenesia di fiori
togliendoci le scarpe, mirando al millesimo.

Come ridemmo di essere pari!

oppure in Vigilia della grande parità, che reca un inciso della moglie Giovanna Sicari[45]:

Mi venne incontro a viso aperto
aveva nettamente il suo corpo
quando ci siamo inchinati
il vento ci gettò su un tappeto
di finte e di attacchi schivati
attraversò entrambi i lati
del suo polso stretto al mio
e mosse le figure umane
dal cerchio esatto del loro peso
ogni millimetro era proteso
alla parola dell’arbitraggio
fu quel kesa-gatame, quella
luce di maggio, quelle pupille raccolte
in silenzio spartano, fu quella mano
battuta due volte a formare
le sillabe della promessa, l’altare
che una voce scopre in se stessa.

E siamo, con questo, tornati alla raccolta più recente, quasi un abbozzo di romanzo biografico e corale, nel quale si rivela subito caratterizzante l’introduzione sistematica della rima, che pure non rappresenta una novità assoluta per De Angelis[46]. E tuttavia, sembra che la rima, in concomitanza con la vena memoriale dell’autore e di una versificazione che, dopo Millimetri, è andata assestandosi intorno a misure meno sincopate e variabili (tuttavia senza rinunciare all’enjambement, specie dopo articoli e preposizioni), sia responsabile di una certa divaricazione tonale, tanto che non sarà impossibile trovare accenti intonati con il Montale diaristico o, addirittura, con Gozzano: «(“Nove netti sugli ottanta, / a quindici anni, ragazzi!”) / l’ho chiamata subito Atalanta. Stefania Annovazzi»[47]. In quest’esempio è evidente che l’inciso, sciatto e colloquiale, è finalizzato a sostenere la volontà di nominare il personaggio. E non mancano altri esempi in cui la rima cede alla banalità (è il caso di bella : stella : Donatella[48]) o alla cacofonia (in Una pagina del passaporto il contrappunto Presso : adesso : stesso incrociato con Sesto : resto e il poco brillante stradina : brina, subito seguiti da stesse : tacesse[49]). Questa divaricazione raccoglie inoltre pesanti cadute prosastiche, accumulazioni ridondanti (su tutte, la seconda parte di Scavalcamento ventrale[50]), residui tradizionali (i leopardiani «dolci affanni»[51]). Le osservazioni potrebbero continuare, ma ci sembrano sufficienti per misurare la distanza enorme (in termini poetici, non temporali) che intercorre fra Biografia sommaria e Somiglianze, che resta di gran lunga il libro migliore di Angelis, anche – perché no – in virtù di quei «contrappesi terrestri» (Raboni[52]) cui l’autore ha voluto subito rinunciare, annunciando la poesia «disadorna»[53].

Certo si comprende e apprezza appieno la volontà di sciogliere l’arduo analogismo della poesia precedente per riconsegnarla a una dimensione temporale più partecipe della natura umana: «Nel colore stellare della parola», afferma il poeta in chiusura di raccolta, «la creazione ricomincia / ogni sera», riconoscendo che «avere seminato / dove l’immagine perfetta fossilizza / […] fu vano». Solo vorremmo che ciò accadesse per altre spinte, non «con la sola certezza / di una rima»[54]. Comprendere la morte, scavare «nell’ora quotidiana / e plenaria» non è certo meno arduo che rendere in versi l’obbedienza a un impulso primario e sotterraneo per estendere l’eternità dell’istantaneo in un mito sublime e tragico, ma il dato poetico di questo libro appare la crisi, sia pure salutare, di chi si riconosce nell’«ultimo vagito» che sigla idealmente, in chiusura, morte e rinascita.

Ma anche questo, riflettendo, non che è l’ennesimo dèjà vu.


NOTE

[1] Somiglianze di Milo De Angelis, intervista a cura di Giuliano Donati, «Poesia», III, 34, nov. 1990, p. 39.

[2] A questa edizione di Somiglianze (Parma, Guanda 1990) si fa riferimento in questo scritto, che adotterà nei casi opportuni le seguenti abbreviazioni: S per Somiglianze, M per Millimetri (Torino, Einaudi 1983), TV per Terra del viso, DP per Distante un padre e BS per Biografia sommaria, trilogia edita a Milano da Mondadori rispettivamente nel 1985, 1989 e 1999.

[3] S, p. 46.

[4] Nel volume collettivo La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, pp. 89-91.

[5] Milo De Angelis, L’oceano intorno a Milano, «Poesia», VII, 72, apr. 1994, pp. 13-15.

Di seguito, peraltro, si trova un’interessante intervista all’autore condotta da Bernard Bretonnière, dalla quale riporto almeno un brano con affermazioni che ribadiscono sostanzialmente quelle esposte ad apertura di questo saggio: «Molti poeti, anche dignitosi, ingannati dal plauso del debutto, pubblicano venti volte il ritocco dell’opera prima, l’abbelliscono ogni giorno, la loro stessa vita diventa un ritocco.

S’intende: un libro non è terminato quando lo è concretamente; lo è quando colui che vi lavorava dall’interno non vi è più trattenuto con tutto il suo essere, ma solo con una parte. Ed è proprio la parte generata in lui dall’opera che ha condotto a termine. Chi non avverte tutto questo, chi preferisce una rendita del suo stile, è un letterato. […] Intendo qualcuno, dentro o fuori di noi, che usa delle astuzie per farsi credere poeta. Per esempio, fingere di non sapere qualcosa che gli è noto, come ha scritto Pavese, cincischiare con il mistero, vederlo e rappresentarlo là dove non c’è, con i consueti trucchi della penombra, e insomma costruire su questo inganno un’arcadia dello stupore».

[6] DP, p. 73.

[7] E ancora, in DP, p. 59: «matita d’erba nella matita alta».

[8] DP, p. 86.

[9] Ivi, p. 35.

[10] Quest’ultimo caso rappresenta, in fondo, una didascalia all’uso del verbo all’infinito in frangenti stranianti: «L’invecchiamento / precede morire» (S, p. 12); «dentro una miriade di morire» (M, p. 30).

[11] Tralasciamo un caso assai anomalo: tutta l’ultima parte di Allora l’acqua (S, p. 128), sono i sette versi che costituiscono la poesia nella pagina immediatamente successiva (novembre e febbraio), con la sola differenza di uno spazio bianco inserito prima delle ultime due righe.

[12] La parola innamorata, I poeti nuovi 1976-1978, a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro, Milano, Feltrinelli 1978, p. 75. Anche i brani e i versi inclusi in questa antologia sono fitti di riprese interne.

[13] Cfr. Vittorio Sereni, Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori 1995, pp. 135 e 184. Ancora De Angelis: «quei bagnini ciechi parleranno» (M, p. 22).

[14] Milo De Angelis – Giovanna Sicari, Non solo creato, Milano, Crocetti 1990.

[15] Si veda, per questa variante, Non solo creato, cit., p. 42, o ancor più significativamente la poesia Il ballo di San Vito (La moneta di Caronte. Lettere per il terzo millennio, a cura di Giovanna Sicari, Milano, Spirali/Vel 1993, p. 33): qui la poesia è tripartita e la sezione II coincide coi primi versi della sesta parte dell’Oceano intorno a Milano nella versione pubblicata su rivista nel 1994.

[16] DP, p. 17.

[17] Somiglianze di Milo De Angelis, cit., p. 37.

[18] Cfr Marco Merlin, Citazione, reminiscenza, plagio, «Atelier», I, 3, set. 1996, pp. 63-65. Va rilevato, tuttavia, che l’uso in tal senso del corsivo e del neretto non è affatto perspicuo in De Angelis, e che le citazioni non riguardano luoghi letterari certificati dalla tradizioni, ovvero di comune conoscenza.

[19] DP, p. 31. Ma si veda anche il verso «Sono verso la mente» (DP, p. 13).

[20] Nadia Campana, Verso la mente, a c. di Milo De Angelis e Giovanni Turci, Milano, Crocetti 1990.

[21] DP, p. 41.

[22] Verso la mente, cit., p. 34.

[23] DP, p. 69.

[24] DP, p. 76.

[25] Sabato pietre e Sabato vivi diventeranno poi due titoli (DP, pp. 38 e 47).

[26] S, p. 39.

[27] M, p. 33. Poco oltre: «noi verremo arati», da accostare ai vari sintagmi di Carifi che fanno riferimento all’aratura.

[28] TV, p. 68.

[29] TV, p. 26. Si vedano, anche, le poesie di Carifi Ripeteva, Marina, una vittoria… (nel volume L’obbedienza, Milano, Crocetti 1986, p. 44) e Parole di Marina (Occidente, Milano, Crocetti 1990, p. 56).

[30] TV, rispettivamente a p. 26 e a p. 70.

[31] Roberto Carifi, L’obbedienza, Milano, Crocetti 1986. Si vedano, anche, le poesie di Carifi Ripeteva, Marina, una vittoria… (nello stesso volume L’obbedienza, p. 44) e Parole di Marina (Occidente, Milano, Crocetti 1990, p. 56).

[32]  S, p. 100.

[33]  S, p. 110.

[34]  S, p. 62.

[35]  Rispettivamente in TV, p. 22 e DP, p. 19.

[36]  M, p. 5.

[37]  S, p. 34.

[38]  S, p. 86.

[39]  S, p. 20.

[40]  S, p. 15.

[41]  S, p. 42.

[42]  S, p. 90.

[43]  S, p. 109.

[44]  DP, p. 15.

[45]  BS, p. 39. La citazione di Giovanna Sicari è: «L’aquila cadde vicino a me, volle farmi guerriera / Non fu femminile vendetta ma innegabile somiglianza / a un battesimo di sangue virile».

[46]  Per esempio – tralasciando ovviamente i casi di rime da considerare casuali – nella Leggenda del lago di Garda (TV, p. 70), oppure in Iscrizione (DP, p. 25), Na storia di A. (DP, p. 106), Cnasò dal genar sücc (DP, p. 108), Majno della Spinetta (DP, p. 109) e Stasera (DP, p. 110).

[47]  BS, p. 52.

[48]  BS, p. 47.

[49]  BS, p. 36.

[50]  BS, p. 50.

[51]  BS, p. 53.

[52]  Giovanni Raboni, Poeti del secondo Novecento, Storia della Letteratura italiana, nuova ed. accresciuta e aggiornata diretta da N. Spegno, vol. IX: Il Novecento, t. 2, Milano, Garzanti 1987, p. 248.

[53]  «Ora c’è la disadorna» è l’incipit programmatico della seconda poesia di M, p. 4.

[54]  BS, p. 70.

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