Antonio Riccardi
È stato ripubblicato l’anno scorso, nel 2015, presso Il Saggiatore, il libro d’esordio di un altro poeta, Antonio Riccardi, che è tra i candidati più seri a determinare il canone della poesia dei nostri anni.
Il profitto domestico era apparso nel 1996, segnalandosi subito come un libro fondamentale. Nel corso degli anni l’autore ha distillato con parsimonia i propri versi, che sedimentano come stalattiti e stalagmiti che si attraggono attraverso il vuoto, la reticenza, il mancamento. Si generano così vertigini e improvvisi giochi caleidoscopici di senso, all’interno di un processo apparentemente supercontrollato, scientifico, e infine perturbante.
Mi associo a questo revival recuperando il saggio che avevo dedicato a questo autore in alcune pagine dei Poeti nel limbo.
LA POESIA DI ANTONIO RICCARDI
È ormai un privilegio assoluto esordire nella collana mondadoriana dello «Specchio». Antonio Riccardi, che in Mondadori lavora, vi approda in età poeticamente matura e dopo un’importante serie di pubblicazioni. Quelle anticipazioni rappresentano la traccia del meticoloso esercizio compiuto dall’autore sulla propria materia, che ha trovato un’identità stilistica subito perentoria. Cucchi, che nei confronti di Riccardi è poeta sodale, nella bandella del volume parla addirittura di «primo libro importante della nuova generazione», non «una promessa, ma già un’acquisizione certa per la nostra poesia».
Il profitto domestico ci consegna in effetti un autore non privo di intrinseche potenzialità nuove (armonicamente ricco di sfumature è il suo timbro poetico), ma dal pieno dominio delle proprie spinte, a tal punto che un eccesso di cautela espressiva, nondimeno motivata dai personali presupposti etici ed estetici, potrebbe apparire il rischio cui si espone.
Il libro è lo stratificato poema di una storia familiare, con la rappresentazione delle vicende e dei luoghi dei vari personaggi che a essa prendono parte. L’indagine poetica, tuttavia, predilige l’evocazione lirica dei fatti rispetto alla descrizione, l’allusione ai segreti di tale microcosmo interiorizzato, piuttosto che la profusione memoriale di eventi e di situazioni. All’autore non sembra interessare la celebrazione della famiglia, quanto la possibilità di scoprire, scavando in essa, il senso di un destino.
Le poesie, dalla struttura omogenea, oscillano fra accensioni soggettive, impersonalità riflessiva e interpretazione di un terzo personaggio e definiscono in modo puntiforme e da più angolazioni (con l’ausilio talvolta di qualche inserto prosaico o documentaristico, che attiva il contesto narrativo compattando ancor più i momenti lirici) il carattere fondamentale che orienta ogni motivo: il desiderio di aderenza all’umile sorte inscritta nella trama oscura delle vite che, eroicamente e segretamente, restano fedeli al loro irriconosciuto dolore d’esistere (eroismo tentato da un senso di colpa, quasi un compiacimento di castrazione: ecco la ragione psicologica dell’esasperata vigilanza del poeta sullo stile). La minaccia della rovina economica è inscindibilmente connessa alla perdita interiore dell’identità, alla dissoluzione morale e psicologica che deriva dal tradimento del dovere di portare profitto. I riferimenti ai dissidi finanziari mascherano e potenziano suggestivamente una strenua resistenza morale; il profitto domestico di Riccardi diventa, a livello più profondo di lettura, il racconto del dramma cosmico della perdita di senso, la metafora del fallimento globale che progressivamente investe l’uomo, cui rimane solo il merito di una disperata opposizione.
La prima sezione del libro, che si intitola Cattabiano, nome di un piccolo paese sull’Appenino di Parma, luogo d’origine della famiglia di Riccardi, si compone di tre poesie, che annunciano e sintetizzano, senza svolgerlo, il tema principale. Quella posta in limine si articola in due strofe di tre versi ciascuna, la prima delle quali formata da versi decrescenti inusuali per la nostra tradizione (si tratta di un verso di tredici sillabe, di un decasillabo e di un ottonario): «Si sentono sul sentiero, dalle gaggìe / in sospensione tra bosco e bosco. / Ho sentito anch’io, d’estate». Sulla suggestione fonica dell’allitterazione della s, se non addirittura della particella sent-, si evocano misteriose presenze. La seconda strofe non ne svela l’identità, ma tende ad aumentarne l’enigma con una formula sibillina, ma non altisonante, riportata in corsivo: «In un’ora lucida e calma / sono di grado dispari / per grazia non uguale» (con allitterazione, questa volta, fra grado e grazia), dove i versi, più in sintonia con la tradizione metrica italiana, propongono un novenario seguito da due settenari.
Si chiarisce nella poesia successiva a quali enigmatiche presenze si allude: «Chiamo queste vite in una storia. / In un cono d’erba dai rami / vengono per restare sempre d’oro / come le mosche nell’ambra. / Sento il tempo comune alla specie / come profitto domestico». I versi, in questo caso, oscillano dall’endecasillabo all’ottonario, con prevalenza delle misure pari. Le figure evocate, si intuisce, sono vite trapassate, ma in qualche modo ancora presenti in un «tempo comune alla specie». Lo sfondo è rappresentato dal mondo agreste e selvatico còlto come minacciato da un imminente oblio.
Contegno e densità sono, senza perdere l’intrinseca connotazione morale, precise indicazioni stilistiche: si noti la coincidenza della fine del verso con una pausa sintattica (per cui il ritorno metrico risulta connaturato all’andamento prosodico asciutto, privo di asperità e mai prolungato per aumentare la tensione espressiva) o la sostanziale uniformità dei versi, che oscillano prevalentemente intorno a misure appena inferiori o maggiori all’endecasillabo, privilegiando quelle non canoniche (soprattutto versi pari come l’ottonario, il decasillabo e il dodecasillabo), armoniosamente attente a celare la loro musicalità in un finto incedere prosastico.
Alcune riflessioni di Riccardi a proposito di un volume di Maurizio Cucchi, La luce del distacco, possono offrire indicazioni per interpretare anche la sua poesia. Secondo l’autore del Profitto, La luce del distacco rappresenta un ulteriore sviluppo della drammatica di Cucchi: «una drammatica del patire medio, cioè mediano, senza concessioni né al fragore della disperazione, né al ristagnare delle passioni». Ma l’indicazione più interessante è la seguente:
Nelle sue opere precedenti Cucchi aveva affidato il ruolo di figura portante delle tensioni di pensiero ed emozionali ad un assente. L’assente copriva quasi del tutto l’ambizione e la sensibilità dell’io lirico; il mondo esterno era osservabile da molte posizioni, con forza sempre rinnovata di penetrazione, dato che quel centro, benché mancante, rimaneva ad ordinare e chiarire l’esistenza dell’io lirico. Questi rimaneva fuori asse rispetto al culmine, se così si può dire, dell’azione – esterna, con oggetti e circostanze precise, oppure interiore – ma in posizione di privilegio rispetto a quel centro verso cui pure tendeva. In questo modo – e forse altrimenti non avrebbe potuto portare il carico di una simile indagine – l’io lirico narrante ricostruiva faticosamente quella assenza guardando nel fondo del proprio dolore e della propria storia, fino a sentire una vertigine. L’assente diventava di fatto speculare all’io, accartocciato nella propria pena, figura ritagliata a partire da altre figure ma alla fine sempre necessario, incancellabile.[1]
Decentrato rispetto al culmine dell’azione, lo sguardo del poeta rappresenta l’evento lirico centrale con una serie di approssimazioni, per il tramite di indizi, stabilendo rapporti con figure assenti o interpretando il punto di vista delle stesse, seguendo un andamento concentrico e ripetitivo, che acquista nuovi temi per poi ricondurli al nucleo originario.
«Vado all’indietro all’ombra / giù per un canale d’erba […] / in un fondo di secoli e radici», prosegue Riccardi nell’ultima poesia della prima sezione, alla fine della quale compiutamente si enuncia l’impresa che si è assunta, dopo aver ripreso l’attacco citato con un chiasmo: «Vado all’indietro nell’erba / all’ombra tra gli alberi di porcellana / nel segreto di una famiglia. / Non so se questo mi salverà». La spinta della ricerca poetica sarà dunque un anelito soggettivo (ma presto proiettato all’intero creato) di espiazione. Il primo effetto del sentimento di colpa che investe internamente l’intonazione poetica («Una colpa ci trapassa per sanarci», «Sono io la colpa di questa rovina», fa dire al sacerdote omonimo vissuto nel secolo scorso), sarà anzi il desiderio di annullare l’io lirico nella rievocazione degli spiriti degli antenati, che visitano i luoghi appartenuti alla famiglia o ne portano l’impronta originaria in nuovi contesti. La percezione soggettiva risulta pertanto dominata da ossessioni ancestrali, che si tentano di esorcizzare con la scrittura. Il poeta perpetua in altra forma il dramma dei suoi avi.
Già in questa poesia trova espressione il senso insieme di distanza e di radicale prossimità dei luoghi domestici («così lontano ma poco lontano da casa») che si riproporrà in tutto il libro, come una fissazione che riemerge inconsapevole, un tic angoscioso che tradisce il groviglio psicologico da sciogliere. E la stessa sobrietà del dettato che già abbiamo evidenziata, per l’impulso epigrammatico congenito a questa poesia, potrà improvvisamente infittire l’ordito fonico, come avviene nell’impasto di s e p dei vv. 7 e 8 dello stesso componimento: «si perdono stagioni senza peso / al pasto del sole», appena accennando un’inarcatura surreale dell’ambiente, poco prima descritto con precisione documentaristica («fino al vascone di sasso»).
Sulla medesima lunghezza d’onda di questa prima sezione sono anche i componimenti della successiva, La veglia interna, centrati su un io a tutto tondo, che pure si delinea attraverso ambienti e scene o affermazioni astratte, quasi proverbiali (soprattutto a inizio o chiusura del testo), prive di qualsiasi accentazione emotiva. Non assolvendo più a una funzione proemiale, i versi cominciano a tramare quella serie di motivi che, di sezione in sezione, ritorneranno lungo l’arco dell’opera. In questa fase, il confronto, per niente arcadico, con i «fenomeni della vita selvatica» trova il contesto ideale nel bosco collinare nei pressi dell’abitazione, che, animato da segrete pulsioni primordiali, è pronto ad aprirsi a una dimensione allucinata. Il filo narrativo implicito suggerirebbe una battuta di caccia o un’insidiosa esplorazione, non capronianamente animata come un dramma da portare sulla scena, ma sospesa in un respiro metafisico: rispetto all’allegoria di Caproni, nervosamente puntellata da affermazioni apodittiche, abbiamo qui il campo metaforico in cui proiettare considerazioni moralistiche. Il bosco di Riccardi non è mero spazio mentale, ma dato realistico intriso di suggestioni oniriche, ricordi e inflessioni simboliche.
Resistere al limite minaccioso e pullulante di forze occulte che assedia il centro domestico («e grava nel folto il cinghiale / forando il cerchio del mondo / per la maggiore felicità della specie») significa restare fedeli, appunto, alla veglia interna, alla vigilanza interiore. All’abbandono della vita selvatica si contrappone la sfera del dovere e della ragione, non tuttavia senza ambiguità nel loro rapporto, spesso sconvolto dalla presenza di Dio.
Ecco così che, in alcuni versi presi a modello, Riccardi non sembra immune neppure alle malìe del mito, se arriva a paragonare i cinghiali ad «angeli precipitati / nella rovina della piena ragione». Il mondo selvatico è estraneo alle regole imposte all’uomo: se «Il moto del cuore dell’animale / è come nel mondo / il movimento del cielo» (si noti l’allitterazione della m), egli solo può «cominciare l’utile / tenendo ogni scrupolo con tenacia / e salire al dovere nella vita felice / finalmente in parità», dove l’ultima affermazione riporterà alla formula della prima poesia («sono di grado dispari»): ecco un esempio del fitto intreccio di rimandi, difficilmente riducibili in termini razionali, che trattengono lievi suggestioni orfiche e tramature alogiche del discorso, reperti di un contatto, immaginiamo, con Milo De Angelis e la sua rigorosa ricerca di assolutezza, e con Valerio Magrelli, per la nitidezza del segno.
Inizia fin d’ora la determinazione di due campi semantici antagonisti, quello della rovina e del profitto (o, se vogliamo, della disparità e della parità). All’uno si connetteranno i frequenti vocaboli del tipo: caduta, abbandono, fortuna, premio, all’altro: dovere, ordine, statuto, salvezza, veglia, sacrificio, misura, ragione, disciplina ecc. (Galaverni parla, secondo un’angolazione sostanzialmente congruente, di «fronte bipartito della fortuna materiale e delle obbligazioni morali»).
Se è ancora l’allitterazione la strategia retorica che domina inizialmente (si vedano, a esempio, i ritorni della s o della f rispettivamente nella poesia Siamo saliti Leopoldo e negli ultimi versi di Ogni sacrificio è un bene incomparabile), prende sempre più consistenza l’ossessivo ritorno di formule (talvolta con minime variazioni) e parole: il polittoto è spia stilistica delle ossessioni o dei motivi psicologici di cui dicevamo. Così, nella prima poesia appena ricordata, al v. 2 s’incendia la costa del bosco, mentre al v. 6 s’incendia l’inverno; negli stessi versi il bosco che prima s’incendiava diviene il luogo ove si compie l’incendio dell’inverno; e ancora: la soglia del v. 4 si ripete nell’espressione «di soglia in soglia» del v. 7, mentre giudizio collega due versi contigui, il 6 e il 7. Come non bastasse, il sintagma «nel dorso serale del bosco» del v. 5 si ripete quasi identico al v. 4 della poesia successiva: «al dorso serale del mondo» (e l’esiguo scarto assume un valore notevole, avvalorando l’espansione del tema della rovina ben oltre la sfera individuale). Nel testo seguente, il primo verso si ripete alla fine dello stesso componimento (già costruito, come molte altre poesie, per parallelismi), con la sola, ma significativa, sostituzione dell’articolo indeterminativo con il determinativo («Questa veglia interna è una moneta» diventa «Questa veglia interna è la moneta», corsivo nostro).
Al di là del regesto completo di tutte le riproposizioni di questa soluzione retorica, si ricordi che lo stilema si allaccia poi inevitabilmente a figure contigue, come la paronomasia («Ognuno è il modo che il mondo gli concede»), l’epifora («È stato un buco nelle cose / nella ragione delle nostre cose») e l’anafora («La forma di questa casa è una storia / di forme…»; «Poco lontano da qui / poco sotto…») e l’epanadiplosi («Il figlio del primo figlio»), il chiasmo («ogni nuovo giorno una pena nuova»), la figura etimologica («Moneta al cuore, Monetina»), la martellante ricorrenza delle parole chiave e così via.
Con tutti gli effetti che di volta in volta lo connoteranno (per esempio la sottile crescita del tono verso una dizione ricca di allusioni e sfumature inquietanti), questo procedere a spirale, ossessivamente ribattuto, che subito riconduce ogni infrazione del perimetro espressivo istituito nello spazio simbolico-lessicale costipato della metafora dominante, finisce a tratti per costruirsi da sé la gabbia mortale. Il pudore si trasforma in reticenza, l’esattezza in leggera afasia: trovato il guizzo efficace, la poesia ripiega su sé stessa, congela il movimento interno appena individuato e non vi si abbandona, non si arrischia in territori ignoti, portando infine allo scoperto la ferita originaria che innesca il canto.
Con la terza sezione, L’età del ferro, il poeta allarga i confini dell’immaginario, spostando i motivi ispiratori in altri contesti spazio-temporali per il tramite di differenti attanti. Si esce dalla cerchia delle mura domestiche e, nel percorso circolare della scrittura, si conquistano nuovi spazi da cingere e riunificare con il senso di rovina che orla il mondo intero. Questa parte del volume è suddivisa in tre sequenze: Abramo, La reliquia, La rovina. Da questo momento il discorso si arricchisce dei retaggi di una religiosità devozionale, fatta di preghiere, di reliquie, di formule bibliche, di sacri timori, di umile sopportazione e forse anche di superstizione, che stringono sempre più minacciosamente il cerchio attorno a un segreto investito da una luce tragica: «Sono io la colpa di questa rovina», «Il giorno che è morta io non l’ho salvata […] // Non dire a nessuno perché sono morta», «Mangio la storia del primo figlio / e lui scompare […] / È nato per segno stellare / segnato col fuoco nella ragione», «Se succede qualcosa restate / e non vendete». Nella sequenza La reliquia, dedicata alla memoria di Dositeo (1859-1878), epilettico, il riferimento esplicito è a «una nascita sfortunata»: «Il figlio del primo figlio / riceverà il centuplo con la paura / e avrà in premio la veglia interna», «Rimarranno tre / Odet Sesto l’Artemisia / a tenere il segreto del segno e della colpa / e nessuno saprà di un quarto». La disfatta viene sancita dalla reale rovina economica; ma essa, ancora una volta, sarà segno soprattutto di una disgrazia morale irreparabile: «Non sarà più felice / mai più felice come prima / chi cade in rovina». Tale decadimento denuderà il nucleo etico cui aggrapparsi per non lasciarsi sopraffare: «la rovina orla la nostra vita». Il fulcro domestico e psicologico da proteggere è accerchiato, come la casa dal bosco, dalle incontrollabili minacce dell’esistenza, che avranno almeno il merito di porre in risalto l’essenzialità delle cose, dato ontologico che fonda la ricerca stilistica di «un grado zero di espressività, abolendo significati inflazionati», come sottolinea Alba Donati: «Pochi aggettivi nei testi di Riccardi: una poesia sostantivale chiede aiuto, denuncia il pericolo della dispersione delle immagini e domanda attenzione perché i nomi sono la prima conoscenza delle cose e lì conviene tornare. Ritornare al Madone è tornare alla ricchezza originaria della parola, pensare al tema, alla “forma comune”».
Se il nucleo centrale del Profitto domestico sarebbe a questo punto sufficientemente ribadito, egli allarga ancor più la prospettiva rievocando, nella sezione I libri e il planisfero, le spedizioni al Polo antartico e le esplorazioni africane di Vittorio Bòttego, che ampliano i registri espressivi in direzione di una più evidente drammaticità scenica e di una varietà maggiore, che può raggiungere anche il resoconto diaristico assolutamente privo di rielaborazione.
Ci sembrano, questi, i momenti meno convincenti del libro, non privi di una loro riconosciuta funzionalità, ma dal tenore poetico indubbiamente minore. La lettura si fa anche più frammentaria e dispersiva, fino al quinto capitolo intitolato Le foglie della casa, in cui riprende consistenza l’io lirico finora accantonato o disperso nelle varie voci chiamate all’esistenza. Anche per questo motivo tale sezione si può far corrispondere alla Veglia interna, la seconda sezione del volume; non si esclude nemmeno che la sua collocazione sia strategicamente pensata per ridare compattezza al percorso, riprendendo le fila del discorso con la rievocazione dei propri lari: «Posso stare nel profitto / dei morti nella loro casa / a Cattabiano e salire nell’ala / delle piante fiducioso / a un cuore vegetale». L’incedere concentrico, compiuta l’ampia voluta, ritorna al punto di partenza.
Con il capitolo successivo, Vulcano e la preda, il poeta porta sulla scena un’oscura allegoria. Come spiega nella nota, «Vulcano e Concordia sono, con Unione e Vittoria, i nomi degli altiforni nelle Acciaierie Falck di Sesto San Giovanni», ragion per cui la nuova battuta di caccia che si intuisce, nelle sue dinamiche fondamentali, come sfondo metaforico, si trasforma in una sacra rappresentazione nella quale il poeta esprime, nei momenti di più accesa visionarietà del libro, il contrasto, biograficamente motivato, fra le due realtà geografiche-psicologiche del paese di origine della famiglia (e soprattutto del padre, «custode mansueto» cui il libro è dedicato) e della città di cui, invece, egli deve fare esperienza in prima persona. Troviamo a questo punto un componimento memorabile, che raffigura una scena creaturale dalla conchiusa ma lampante significatività simbolica:
Quando a morsi la prima bestia
fora il cuore alla seconda che muore
il bosco è il nuovo centro del mondo
e noi vediamo le stelle più basse cadere a lato
e le più alte staccarsi e salire.
Avrà ricordato l’ultima corsa
sulla neve d’aprile al Madone
sorpreso da una breve felicità.
Questa poesia ci rende partecipi di un oscuro sacrificio, del quale intuiamo soltanto il meraviglioso quanto doloroso valore: il poeta dovrà tornare al bosco se vorrà «vedere dall’alto salire la nuova città / e avere per centro un’altra natura».
Non è affatto corretto, dunque, parlare di minimalismo per la scrittura di Riccardi, come pure è accaduto, velatamente, in più occasioni. Se l’autore giunge a tali aperture per mezzo di uno stile sorvegliato, dove ogni dettaglio minimo apre, anche per via della sua ripetizione, un risvolto di senso notevole, egli si dimostra consapevole delle ampie inarcature simboliche che disegna con povertà apparente di strumenti.
Dopo questo passaggio cruciale, anche il successivo omaggio alla Fortuna dei padri pare risolto entro un compiuto distacco psicologico, che allenta l’assedio stilistico in una presa più morbida ed elegiaca; e su questa nuova onda musicale si compie anche il ritorno al Madone, che è ritorno, anche linguistico, alla cultura popolare e agreste e al legame affettivo con i luoghi d’origine.
Riprende, invece, a prevalere una tonalità tragica nella penultima sezione, con i riferimenti alla Prima Grande Guerra, in uno scenario congiuntamente storico-universale e familiare-soggettivo, mentre il tema amoroso viene assunto in chiusura, nella breve sezione intitolata La moneta, in cui sembra annunciarsi un nuovo equilibrio fra il motivo centrale del profitto e un senso di maggiore abbandono e di levità che la figura di Monetina, nomignolo e senhal dell’amata, riesce a portare nella cerchia domestica e cosmica del sentimento di colpa e perdita che cinge l’esistenza: «Moneta al cuore, Monetina / chiedimi come salvarci / uniti e interi e come fare / per ogni cosa sensibile che ci vive / tanto nascosta, in segreto. / Chiedimi sempre conto».
L’io lirico, secondo le indicazioni di Riccardi intorno all’opera di Cucchi, rimane decentrato rispetto al dramma e si specchia nelle assenze, cresce durante l’architettura del libro, riassumendo una molteplicità di voci ed esperienze, che gli danno spessore e lo condannano nel contempo a essere sé stesso. Definito per accumulo, come una preziosa struttura minerale, l’io vibra e rivela tutta la propria fragilità e, al limite, inconsistenza, al cospetto della scoperta dell’alterità.
Il recente Gli impianti del dovere e della guerra conferma interamente il discorso sviluppato a proposito del Profitto domestico, anche perché resta fin qui salda l’intenzione dell’autore di scrivere un unico vasto macrotesto, un poema in più stazioni, che declina le evoluzioni tematiche a vantaggio di una continua arborescenza dei nuclei già posti in essere. Gli impianti rappresentano peraltro un’appendice meno composita, con ripresa di qualche testo in funzione, anzi, di revisione di parti del Profitto (Vulcano e la preda), segnalando ulteriormente il procedere lento e laborioso del poeta. Ciò non significa, tuttavia, che alcune acquisizioni stilistiche non si possano già annotare, su tutte una maggiore scioltezza di espressione che si manifesta nell’andamento sintattico più scorrevole e propenso all’elencazione (un solo prelievo fra i molti possibili: « – la cultura sono i Quindici e Conoscere / e gli Oscar settimanali / i libri transistor che fanno biblioteca / i libri ’65 per chi lavora, per la famiglia / a casa o in ufficio, in fabbrica o al bar / nei viaggi di lavoro e nei week-end / in autobus e in metropolitana / in taxi, in treno, in barca e in jet / sempre in tasca a portata di mano / sempre nuovi, per tutta la vita») e lessicalmente ricettivo: si percepisce infatti un’ansia di nominazione, tanto di animali, di oggetti, di emblemi desunti dal mondo industriale e dai processi di lavorazione, quanto di luoghi, date e ore, di nomi precisi, spesso con intento di registrazione realistica, ma qualche volta con funzione di improvvisa apertura di contesto, di rinvio a scenari mitici e lontani: si tratta, in questi casi, di versi paragonabili a bengala, che offrono lampi onirici per segnalare lo spaesamento del soggetto. Mai, infatti, il rigore testimoniale viene messo in dubbio lasciando ricadere tali riferimenti nel gratuito. Si assiste così al conflitto fra l’urgenza espressiva, a tratti persino elegiaca, che dilata il testo dall’interno, e la complessione epica che domina il respiro, lo ammansisce e lo lascia sfogare solo alla distanza, nel passo poematico assunto.
In definitiva, comunque, le resistenze rispetto alla materia lirica si sono abbassate, a vantaggio di una pronuncia meno introversa e intimamente macerata nei propri istinti autopunitivi, malgrado il nuovo titolo ponga l’accento ancora sulla sfera morale del dovere, pur aprendola immediatamente a un contesto escatologico che trova implicite increspature civili («come in natura Dio, / nel codice dell’industria / il capitale formula il suo dominio privato / come un legislatore»).
Pur senza dar credito eccessivo a letture esoteriche, che sulla trama di un’interpretazione alchemica, suggerita peraltro dal poeta stesso con diverse indicazioni disseminate nel libro, approderebbero a ovvietà altisonanti, va detto che la trama simbolica degli Impianti si appoggia con maestria al solito linguaggio ossessivo e ribattuto, che attraverso la martellante ripetizione delle parole chiave (sia a distanza sia ravvicinate: si pensi a passaggi testuali sotto forma di coblas capfinidas, ma pure alle frequenti iterazioni magari con minimo scarto semantico nello stesso verso: «e nuovo di una nuova felicità», «bestia o altro d’altra natura», «metà lumaca e metà vera, come vero», «le terre da fonderia non sono terra», «da un primo, poco prima» ecc.) presenta infinite variazioni su tema che concrescono a spirale pagina dopo pagina e risalgono sul filo della memoria le generazioni («Sono il primo del primo figlio e leggo»), configurando un incedere davvero sapienziale del testo (non a caso il volume si apre con il richiamo «al Profeta: / sarai la mia bocca», figura che tornerà in apertura della sezione finale a scandire uno snodo fondamentale: «Dice Elia di non entrare / nelle rovine»).
Con questa raccolta Riccardi si propone maggiormente legato al contesto metropolitano (gli stessi impianti assunti ad allegoria sono, come già rilevato, gli stabilimenti di Sesto San Giovanni). Non che Cattabiano sia dimenticata, essa anzi diventa prima il punto di vista implicito (nella sezione introduttiva, in cui campeggia il ricordo del padre, in una serie che richiama alla memoria molti accenti di Cucchi), vale a dire lo sguardo dell’infanzia che ingigantisce e trasfigura, poi diviene meta del ritorno («Oggi è il giorno che mio padre muore davvero / […] / Da solo entrerò nel bosco di Cattabiano / per vedere la prima pianta del mondo / che passa da un figlio a un figlio a un altro figlio»), che trasforma il punto di vista dell’infanzia in luogo della visione, come segnala il filo rosso del verbo vedere che trapunta praticamente ogni sequenza: siamo, allora, ai momenti di maggiore incandescenza orfica, già rilevati nel Profitto domestico. Il fatto è che il podere parmense sembra lasciarsi assorbire definitivamente dall’orizzonte della «piccola Stalingrado» (come viene più volte definita Sesto): è qui, infatti, che si svolge il tema mistico della caccia, che vede ora l’efficace e grottesca comparsa della ranatoro. Del resto, il libro assume in conclusione la sintesi di bosco e città («Nella cinta degli stabilimenti di Sesto / c’è un bosco improvviso»): è questa la selva oscura in cui avviene la trasformazione estrema: «L’ultima metamorfosi è la macchina / o il sistema automatico di macchine / quando lo regola un automa». Al di là, comunque, dell’alternanza fra i due poli geografici e della loro sintesi, Gli impianti del dovere e della guerra resta memorabile per la capacità di dar voce a un’epica di «maestranze operaie» «nella vita delle fabbriche», che nel nome del progresso (puntualmente stigmatizzato con ironia velenosa) ha sacrificato un’umanità sommersa: questo è soprattutto il «merito» di un libro che ribadisce tutto il valore della poesia di Riccardi.
NOTA
[1] Appunti di lettura su “La luce del distacco”, «I Quaderni del Battello Ebbro», a. III, n. 5, aprile 1990, p. 70
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