Umberto Fiori

Di Umberto Fiori, terzo poeta che propongo vigorosamente ai colleghi insegnanti per un ipotetico canone della poesia contemporanea, è uscita nel 2014 la raccolta delle Poesie (1986-2014) negli Oscar Mondadori. Personalmente, ho sempre sentito la poesia di Fiori prendere il posto, in una ideale “poesia della chiarezza”, occupato inizialmente da Valerio Magrelli, che dopo gli esordi ha piegato verso una direzione per i miei gusti troppo intellettualistica – pur rimanendo esso stesso tra gli autori imprescindibili dei nostri anni, come avrò modo di ribadire in futuro.

Intanto, ripropongo il mio saggio su Umberto Fiori.

Dire l’evidenza muta. La poesia di Umberto Fiori [1]

A queste vie simmetriche e deserte
a queste case mute sono simile
Sbarbaro

La poesia di Umberto Fiori rappresenta la più rapida e certa affermazione degli ultimi anni. Con le tre raccolte Esempi (1992), Chiarimenti  (1995) e Tutti (1998), edite sempre da Marcos y Marcos, egli ha dato espressione a una vena poetica esuberante e matura. Il suo già “esemplare” timbro poetico, semmai, corre intrinsecamente il rischio della trasparenza delle proprie strutture, che significano alta emblematicità e assimilabilità letteraria immediate, ma al contempo resiste alla maniera preservando il nucleo non risolto che resta il segreto propulsore dei suoi versi. A stupire, nell’insieme, è infatti anzitutto il senso di una forte motivazione complessiva, come di chi riuscisse a circoscrivere i propri motivi stilistici e tematici con determinazione e, insieme, con vibrante partecipazione, vis à vis, senza strategie letterarie premeditate. La sostanziale compattezza dei tre volumi, ciascuno dei quali pur si muove entro particolari graduazioni di sviluppo, suggerisce l’idea di un autore che abbia davvero trovato, improvvisamente, una risoluzione personale o, per dirla con l’interessato, una voce, un’aderenza di strumenti espressivi e di spinte creative, una congruenza fra modalità esecutive e materia di canto.

Naturalmente, nessuno crede a un exploit che non sia stato preparato da un personale tirocinio, in qualunque forma esso si sia attuato.

In realtà, il libro d’esordio di Fiori è Case, edito nel 1986 per le Edizioni S. Marco dei Giustiniani, ma si tratta di una plaquette anticipatoria, seppur dai tratti poetici talora già definiti. Al di là del fatto che il libro raccoglie una sezione di prose, i testi poetici sono in numero ancora esiguo (sedici in tutto) e quasi la metà verranno scartati nella scelta per Esempi. In effetti, a rileggere le poesie non riprese, le si avverte piuttosto involute. Guardie giurate, per soffermarci in dettaglio, coglie già tematicamente nel segno se la persona suggerita solo dal titolo è umbra di un tema assai caro a Fiori. La guardia giurata del titolo, che sarà più probabilmente un campione tipologico che non esclude ma non si risolve nella concreta indicazione di un soggetto, è in effetti la prima figura inerente al tipico istante estatico raccolto dall’attenzione del poeta, ovvero il momento dell’appercezione di sé e degli altri, in cui avviene soltanto il mutuo “guardarsi” e riconoscerci istintivamente, senza filtri culturali: «uno / se lo sente nel sangue / tutto questo guardare / gente dal suo angolo / e nel suo angolo / farsi guardare». Condizione privilegiata del poeta, unico a tentare senza presunzioni mistiche di abitare, o di riprodurre, quella breve stasi terremotante in cui coesistono tutte le possibilità dinamiche del senso; spazio non ancora pregiudicato che pure ci viene sottratto nel divenire smemorante ancor prima che la coscienza ne segua la traccia (le poesie di Fiori restano assorte, non si chiudono digradando fino a riaccostarsi al tempo ordinario delle vicende). Non è un caso, anzi, che l’individuo compaia in tali istantanee ridotto al minimo grado di umanità, non nel senso dello svilimento, ma del suo essere parificato e sovente sostituito dagli animali, dagli oggetti, dalle case, dalle situazioni stesse.

Nella poesia Guardie giurate, si diceva, si rileva un non pieno possesso degli strumenti espressivi, ancora non accordati rispetto a questa nota intima. Alla similitudine implicita del titolo, fanno seguito, in chiusura del testo, due altre similitudini, che segnano un eccesso di significazione fino a sfocare l’immagine, proiettandola oltre il bersaglio:

Quasi per caso si comincia: tramite amici
o così. Poi mano a mano uno
se lo sente nel sangue
tutto questo guardare
gente dal suo angolo
e nel suo angolo
farsi guardare.

Come sabato a casa della gente
i bambini che piangono.

O le fotografie del mare.

Al v. 5 gente è evidentemente superfluo (tanto più che viene ripetuto poco oltre) e determina un enjambement artificioso. Ma, soprattutto, a tenere insieme al testo le appendici degli ultimi tre versi si rinvengono solo suggestioni foniche (angolo : piangono), con la ricerca di una chiusa cantabile, aperta (guardare : mare) che stigmatizza la predilezione, indicata, per una clausola paradigmatica. Sembra che la scrittura fornisca dei pretesti per agganciare la catena comparativa prodotta dall’istante archetipico, ma ancora senza che i due nastri (linguistico e psichico) scorrano combaciando in ogni punto.

In altre poesie espunte (si veda Un fatto cronico e Mercoledì o Giovedì), l’autore sembra incline a una sfumatura ironica e a un certo minimalismo, rendendo evidente come sia ancora attiva la possibilità di definire per via poetica un personaggio dai tic scoperti, chiuso dentro una rappresentazione viziata in partenza da un «tono / pronto, come fare il verso a qualcuno»: la denuncia di tale atteggiamento solleva una questione aperta per lo stesso autore.

Tuttavia, per meglio indagare il retroterra di elaborazione della poesia di Fiori, bisognerebbe aggiungere all’analisi puntuale della prima opera il fitto confronto con i testi apparsi in rivista (ricordando soprattutto la collaborazione con «Lengua», presso cui sono comparse le poesie della serie Vacanze, in cui più incandescente diviene l’esigenza di costrizione formale per mettere a fuoco i motivi essenziali). Ma nemmeno questo risulterebbe sufficiente.

L’esordio poetico di Fiori, infatti, non avviene con un notevole scarto di anni rispetto ai principali esponenti della sua generazione a causa delle intricate sorti del mondo editoriale o per una strenua autocritica che ha imposto discrezione e dedizione personale. Più semplicemente, la sua “vocazione” letteraria emerge al momento di una frattura biografica che lo ha condotto all’abbandono del mestiere fino ad allora esercitato: come è noto, Fiori svolgeva attività di musicista e di cantante in un gruppo rock degli anni Settanta; dagli anni Ottanta, invece, pur proseguendo la sua ricerca musicale confrontandosi con altri generi, ha intrapreso la via dell’insegnamento.

Ma, come si diceva poco sopra, non si deve cedere all’idea semplicistica di un improvviso exploit: a tutela degli approfondimenti sul retroterra della poesia di Fiori va salvaguardata la continuità di fondo che si cela, ancor più significativamente, sotto la crosta di esperienze tanto differenti. In effetti, la rapida maturazione letteraria, con la netta mancanza di foga sperimentale, si è giovata dell’esperienza musicale acquisita negli anni Ottanta con il gruppo degli Stormy six, la cui musica si poneva decisamente su un piano innovativo (che ha peraltro goduto di un recente revival), tentando una originale commistione di generi sempre animata da uno scoperto impegno politico e sociale di intuibile estrazione ideologica. In seguito a quell’esperienza, Fiori ha probabilmente accresciuto o portato a un grado maggiore di problematicità personale la riflessione intorno alle tematiche musicali, in particolare circa i rapporti che intercorrono fra il mondo della canzone e quello della letteratura. Ma, più che additare alcuni temi che non sono stati abbandonati nel passaggio dalla canzone alla poesia (per esempio il tema della polis, il rapporto fra parola e voce ecc.), interessa ribadire che proprio per mezzo di questa precedente esperienza egli ha potuto presagire, se non il tono esatto, la necessità di un certo tipo di linguaggio, più confacente a sé e alla propria nuova dimensione sociale. Azzardando un’ipotesi più precisa, diremo che è stata la concreta dimensione teatrale del canto ad aver esaurito ab origine la teatralità della parola scritta.

In questa ricerca di sviluppo in un trapasso segnato dalla crisi dei parametri ideologici, accanto all’officina delle prime prove liriche si collocano, in posizione nettamente ausiliare, le prose, di cui abbiamo uno specimen in Case (dove il racconto Possibili soste in colonne si presta appunto a canovaccio della poesia intitolata Treno, poi inclusa in Esempi), e soprattutto le riflessioni teoriche, visibilmente animate, più che da un tentativo di discettare, da una brama di chiarire, anzitutto a uso personale, le ragioni della scrittura, quasi circoscrivendone così il repertorio di immagini, cioè definendo talvolta, all’interno dell’argomentazione, veri e propri elenchi di situazioni esemplari che poi entreranno in poesia. Qualcosa di analogo, insomma, alla raccolta di scorci fotografici metropolitani che per un certo periodo lo aveva appassionato, come se quelle visioni rivendicassero improvvisamente attenzione allo sguardo, prima volto altrove, con la potenza di una rivelazione esistenziale.

In un paio di pagine sulla rivista «Poesia» (a. III, n. 34, nov. 1990, pp. 12-13) dal titolo Cosa vuol dire cantare?, si passa in rassegna quasi l’intera topica della sua poesia: si enucleano la sorpresa, nel mezzo di una discussione, per una frase che suona male o per un’espressione perfetta, che chiude in sé il segreto di una misura inspiegabile, di una forza legislatrice[2]; l’alterarsi della dimensione comunicativa per colui che trova al fondo delle frasi e degli argomenti la propria voce, egli stesso sorpreso e rapito in essa («Come si fa a discutere con uno che canta? Uno che canta è sordo, e sa tutto. […] Ci troviamo di fronte a delle parole vere; vere come un naso, o una mano»); la definitiva consapevolezza dell’illusoria logicità del linguaggio che, invece di essere sottomesso alla voce, la anestetizza fino a rovesciare il rapporto (l’uomo non parla, ma viene parlato dal suo linguaggio e dall’ideologia che veicola); e così via:

Chi si trova a cantare mette a tacere gli altri, si raccoglie, si chiude nella voce, reclama un credito illimitato […], proprio quando il rischio viene in chiaro, quando comincia a voler dire, un discorso diventa un canto.

Il rischio è innanzitutto il malinteso. In genere, parlando, si cerca di evitarlo, o almeno di ridurlo al minimo: si danno chiarimenti, definizioni, spiegazioni, che a loro volta possono essere scomposte e ridefinite analiticamente, se è necessario, o chiarite attraverso ulteriori spiegazioni. Ma la catena delle definizioni e delle spiegazioni deve pur finire. Lì cominciano le parole, comincia il rischio. Cantare è questo: arrivare alle parole, provare a parlare, provare cos’è parlare.

[…] Cantare è fare esperienza di un rigore, di una precisione che può mostrarsi, ma non dimostrarsi. Proprio del canto è non poter uscire da se stesso, per raccogliere prove intorno alla sua natura, ed esibirle.

La poesia, per ciò stesso, si definisce per la perdita di ogni difesa (di ogni ‘bravura’) e si mostra come lingua che non ha protezione e dice qualcosa di non completamente affermabile, oggettivabile, circoscrivibile concettualmente, ma qualcosa che prende il sopravvento e detta il tono, imponendo una serie di immagini, di situazioni, di esempi appunto, che sono già, essi, la spiegazione.

 

Case, Esempi, Chiarimenti, Tutti: i titoli scelti da Fiori sono costituiti da un unico sostantivo, privato anche della determinazione dell’articolo. La stessa consuetudine è pressoché normativa per i singoli testi delle raccolte. Ciò sarà in parte interpretabile come un omaggio indiretto al poeta che forse più di ogni altro – soprattutto per ciò che riguarda l’apprendimento di questo particolare rapporto tra voce e parola piuttosto che per l’influenza letteraria vera e propria – è risultato formativo per Fiori: si fa riferimento a Franco Loi, anch’egli solito a titolare i propri libri con una parola. (Eppure, se per quest’ultimo la scelta dipende spesso dalla ricchezza polisemica implicita al vocabolo, l’orientamento di Fiori sembra programmaticamente volto verso una reale intenzione di chiarificazione o esemplificazione, senza che tale prassi elimini, evidentemente, una nuova forma di indeterminatezza).

Le poesie successive alla plaquette del 1986 si presentano generalmente brevi, composte da strofe di pochi versi, equilibrate e semanticamente autonome, con un passo di elegante semplicità e naturalezza, contraddistinte da una piena e soddisfacente intelligibilità, palesemente inclini a evitare ogni forzatura sintattica e metrica (non si riscontrano più  bruschi enjambements) o lessicale. La loro pronuncia è pertanto netta e misurata ma, soprattutto, capace di rendere con precisione la circostanza (per lo più elementare) con un elevato grado di visibilità, per ricorrere a una categoria calviniana. I verbi pertinenti alla visione sono non a caso assai frequenti, insieme a tutte le forme ostensive della lingua, ovvero i deittici del tipo qui, questo ecc. Altri verbi assai indicativi sono inerenti allo stare, all’abitare, al prendere posto, quasi a rendere il moto fondativo, in senso antropologico e gnoseologico, messo in atto dalle poesie, in cui non manca certo l’asse orizzontale del viaggio, il quale però rimane in qualche modo sempre delimitato entro le barriere dei muri e delle case, entro lo spazio cittadino, sfondo scenico in cui si focalizza la dialettica fra alienazione e partecipazione, fra estraneità e appartenenza: il viaggio resta vincolato allo sguardo del pedone, rifugge dalla panoramica. Il senso della relatività, premessa di ogni forma di esemplarità, risulta anche dalla frequenza della determinazione temporale, fin dai generici attacchi avverbiali col quando («Quando un tram carico di gente…», «Quando uno alla fine…», «Quando si sente lo schianto…», «Quando i pensieri…») o con il mentre («Mentre il palazzo di fronte…», «Mentre io parlo…», «Mentre ti incrociano…»), per giungere alle indicazioni sempre generiche del tipo: «Una sera…», cui si potrebbero affiancare gli analoghi complementi di luogo («Dal tetto dell’autosilo…», «Nelle aiuole qua intorno…», «Nella sala d’aspetto»).

Dentro questo spazio indefinito seppure dai contorni saldi, la poesia è però la scintilla scaturita dall’attrito fra pensieri e fatti, nell’intersezione bruciante in cui si abbattono le distinzioni fra pubblico e privato, interno ed esterno (in tutta la poesia di Fiori gli ambienti interni sono di frequente messi in contrappunto con gli ambienti esterni, mentre la vicenda conoscitiva si gioca proprio nel limite di questa soglia) e l’esperienza si carica di una valenza metafisica. Il rapido trapasso e finanche la coincidenza di particolare e universale presuppone o un io paradigmatico, un personaggio cioè della scena che non può vantare alcuna presa lirico-demiurgica che assolutizzi il punto di vista individuale, o una visuale anonima, come avviene nel caso di Fiori. Qui infatti il protagonista non è il moto lirico interno al soggetto, ma la situazione nel suo complesso, ivi inclusi i pensieri che l’occasione innesca. La scelta di non parlare in prima persona (evitando accuratamente anche nomi propri e date, stigmatizzate in poesie come Signori, Nome o Conoscenti) è un invito ad accogliere entro le stesse situazioni il lettore, come protagonista e non solo come confidente.

Tutte queste scelte stilistiche e tematiche di fondo possono essere interpretate, si badi bene, anche nel loro risvolto ideologico, per evitare l’equivoco suggerito dalle apparenze secondo cui il passaggio dalla canzone alla poesia, in anni di crisi per un’intera generazione, abbia comportato l’abbandono di una morsa intellettuale stringente e determinata sul reale. (E qui si invita all’analisi soprattutto di alcune poesie di Tutti, anche se il cane della poesia Di guardia, in Chiarimenti, ci resta impresso come emblema, dichiaratamente speculare al poeta, della fortiniana condizione di chi si trova a un certo punto a «stare di guardia» senza «sapere / cosa c’è da salvare, a che cosa / veramente si tiene»).

 

Sin qui si è fatto riferimento alla poesia di Fiori come a un tutto indifferenziato, come se i singoli testi fossero variazioni di una figura generativa archetipica, montaliane “occasioni” come quali ad esempio le visioni del muro illuminato e delle facciate delle case oppure, per contrasto, il ritrovarsi nei pressi di uno scavo o di uno spiazzo (correlativo dell’estasi poetica), l’epifania del mondo animale e soprattutto del cane, la similitudine che chiama in causa l’infanzia e i bambini, il discorrere (dis-currere) delle persone. Soprattutto Esempi e Chiarimenti sono libri che suggeriscono questa visione d’insieme: molti componimenti danno l’impressione di potersi virtualmente spostare da un libro all’altro senza mutare complessivamente la fisionomia dell’opera.

L’apparente semplicità strutturale dei libri di Fiori si rovescia però nella certificazione di intricati rimandi interni che a ogni rilettura impongono nuclei tematici di primo acchito avvertiti come accessori, poiché la catena delle similitudini da strategia meramente poetica assume spessore ontologico e disegna una costellazione simbolica sempre più coerente. Ma una progettualità nella disposizione dei testi evidentemente sussiste, se per esempio a inizio e a chiusura della silloge si privilegiano programmaticamente le sequenze poematiche o i testi più ampi (e lo stesso avviene in base alla bipartizione di Tutti). Non sfugga il fatto che la prima poesia di Esempi apre il ciclo con la similitudine del viaggio in treno, ma Treno è giusto il titolo della poesia conclusiva, quasi a incorniciare la dimensione dello stare attraverso il contrasto con il moto orizzontale del viaggio. E, per quanto possa essere casuale, resta interessante la coincidenza che vuole, sempre per quanto riguarda Esempi, in posizione centrale la poesia intitolata Posizione, che dice: «Noi sognamo di avere di fronte il mondo / e invece dentro ci siamo. Noi siamo al centro: / al centro di tutta la luce, / al centro di tutto il fumo e di tutti i suoni. // Siamo qui, noi, con la passione / di un bambino rimasto / solo nel mezzo / nel gioco dei quattro cantoni». Analogamente, come accennato, in Chiarimenti si circoscrive la ricca fenomenologia della comunicazione con la sequenza a più “quadri” Il discorso e la voce (costruita regolarmente in base a una matrice strofica di tre versi alternata anche tipograficamente con la rientranza) e la lunga poesia dal titolo Conferenze; a loro volta esse sono speculari e rovesciano il tema dal suo risvolto privato a quello pubblico. Al centro di Chiarimenti questa volta troviamo la poesia Di guardia appena ricordata, che si potrebbe mettere a raffronto con La volta del cane in Tutti; ma continui il lettore da sé a tessere le molteplici trame che la relativa “libertà” contestuale riconosciuta da Fiori al singolo testo legittima.

Qui ora preme svelare su altro piano la dialettica fra chiarezza e letterarietà messa in atto da tale poesia. I titoli, la struttura dei libri, la piena intelligibilità dei testi: tutto rimanda senza ombra di dubbio a una semplicità perseguita con etica determinazione, ma che sa imporsi la resistenza interna dell’argomento e le diverse soluzioni che caratterizzano ogni singola raccolta per non cedere a una spontaneità irriflessa.

Paradossalmente, mirando a una trasparenza espressiva, l’autore sa benissimo che la comunicazione è per sua natura oscura, impervia, e la rottura della solitudine dell’individuo resta un momento di grazia, non una conseguenza programmabile. Nei discorsi dell’uomo nulla è poi tanto chiaro come sembra e, anzi, più ci si sforza di spiegarsi, di chiarirsi (di addurre esempi!) più si accumula distanza dagli altri. I titoli di Fiori non andranno dunque accolti come indicazioni ottimistiche: il procedere per esempi rinvia a un unico discorso complessivo e svolto sotterraneamente, in maniera obliqua, un discorso troppo vasto per venirne a capo, non rimosso ma sotteso, non dominato ma alluso. La forma che le poesie assumono di “similitudine aperta”, o assoluta, modulo che risulta dominante nella raccolta, assolve alla funzione di perenne rimando alla presenza: il primo termine della similitudine è spesso implicito. Si vedano a questo proposito i tipici attacchi col come («Come in treno…», che apre addirittura la raccolta, «Come quando la luce va via…», «Come in piazza un bambino…»), connettivo che risulta snodo fondamentale per la libertà d’espressione del poeta e nel contempo limite invalicabile di rispetto delle cose, piuttosto ridotte a occasionale pretesto per agganciarvi un reale assente e interiore, ma mai aggredite, smaterializzate, trasformate immaginosamente. Il termine di paragone, non a caso, non appartiene mai a mondi letterari o astratti, ma pertiene sempre al reale circoscritto dal come.

Ciò non toglie che la scena rappresentata si sollevi talvolta acquistando un taglio di luce surreale, ma quando ciò avverrà, come per esempio nell’incontro con il cane nella poesia La volta del cane, l’effetto sarà dovuto soprattutto alla suggestione del paesaggio quasi purgatoriale, ridotto però a minimi elementi di riferimento, su cui il poeta non si sofferma descrittivamente per volontà letteraria di rendere una suggestione dantesca (come pure avviene invece all’interno del realismo sereniano o luziano), in quanto il paesaggio non è contrapposto a un io che domina la scena: «Io camminavo / nei viali sotto casa / come in fondo all’oceano un palombaro»: il protagonista è sempre l’evento della scoperta di una verità, l’appercezione di un senso esatto che nasce da un’esperienza comune, in nessun modo privilegiata rispetto ad altre (perciò l’io della terza raccolta di Fiori si parifica a Tutti e non tradisce l’impersonalità dei versi precedenti).

La chiarezza di queste poesie, dunque, non è affatto semantica, perché il contenuto “metaforico” è rimosso nella sua formalizzazione esplicita e invece incarnato episodicamente. Il montaliano miracolo che ci apre alla realtà sottraendoci al particulare, la scintilla appercettiva sottesa a ogni scena delle poesie di Fiori, consiste proprio nella rottura per eccesso della comunicazione, nell’impossibilità finanche del poeta di chiarire: ciò infine comporta l’evidenza dello stesso processo comunicativo di cui si è parte. Le poesie di Fiori sono illuminazioni, scattano nel momento di saturazione della spiegazione come, appunto, degli esempi, delle evidenze bastanti a se stesse (è il momento topico dell’«imbarazzo», che «sembra l’unica cosa chiara»). La semplicità della poesia di Fiori non può fare chiarezza, non scatta al momento dell’intenzione ordinatrice della mente rispetto all’oggetto, e ciò vale tanto dal punto di vista tematico (da qui l’architettura “fluida” o la germinazione pulviscolare dei nuclei ispirativi delle raccolte) quanto dal punto di vista lessicale: la frase normale cui Fiori si appella non è la frase spontanea, una sorta di felice naturalezza della lingua italiana colta populisticamente in un suo ideale stato di pienezza comunicativa; la frase normale di Fiori si deve intendere come frase normativa per l’individuo, come voce, appunto, che fisicamente caratterizza ed esistenzialmente determina ognuno – ogni uno in modo diverso, esemplare.

Per quanto tale discorso presti a un certo punto il fianco a una prospettiva aprioristica (ma, anche qui, l’evidenza che si può scorgere in queste affermazioni dovrebbe essere sperimentata, vissuta al di là di tutte le spiegazioni), nel verso Fiori cerca l’impronta personale, la frase che la sua postura naturale è in grado di sostenere, al di là di ogni posa, di ogni vezzo recitativo (perciò il netto superamento, se non il rigetto, dell’esperienza professionale del canto ci è parsa indicativa). Come il poeta scrive nel momento in cui perde tutte le bravure, sfonda ogni prospettiva “letteraria” e aderisce a ciò che gli è necessario, alla nuda voce che gli è essenziale, il canto cessa di essere espressione di particolari abilità e diventa fischio, raglio, sbraito.

Abbiamo parlato, forse ricorrendo a terminologia sospetta, di illuminazioni a proposito delle poesie di Fiori, che in effetti si concentrano tematicamente su stati di stupore, di sospensione contemplativa, di improvviso sentimento dell’evidenza. Ma c’è una poesia che s’intitola esplicitamente Illuminazione, sebbene il titolo possa essere interpretato anche in chiave ironica («se la luce va via, / mentre sfiori gli stipiti da un buio / a un altro buio / ti viene incontro questa serietà»). Ebbene, con questo termine si definisce ancora una volta la situazione archetipica della dicotomia vertiginosa che si apre fra le parole e la voce (Il discorso e la voce è giusto il primo titolo di Chiarimenti) o, più in generale, fra la volontà intellettuale di dominio e l’evidenza (la presenzialità, si direbbe) sempre dirompente dei fatti. «I discorsi concedono ‘promesse’ di ‘chiarimenti’, vanamente: le parole “non dicono niente”, ci lasciano soli. Eppure la voce va, addirittura a volte ‘urla’ o ‘canta’, con la misera perfezione delle cose dette male, delle cose che “rischiano la vita” […]. Lo ‘scavo’, l’apertura, non produce che esempi, su cui tutti si ‘affacciano’ ma con una ‘voce’ che sta sempre ‘di fianco’ […], ed è vano il desiderio di una voce ‘precisa’, di una “voce sola, buia, che in un punto / ha più occhi di un coro” […], che ‘guardi in faccia’ l’essere, senta la sua ‘luce’, veda le case che lo rispecchiano» (Bertoldo[3]). Ma in tale disposizione a smascherare l’improvviso divergere delle spiegazioni e della voce, non c’è nessuna attitudine decadente, nessun orientamento nichilistico. Anzi, siamo di fronte a un’apertura di vero ascolto, pronta a ogni possibilità, persino a un ipotetico varco metafisico, dal momento che a determinare tale inclinazione gnoseologica non è alcuna gratuita diffidenza o ingenua credenza in un generico buon senso (il vago realismo di tutti), bensì il più netto autodelimitarsi del sapere all’interno della logica umana. Non è casuale il fatto che Esempi si chiuda con una parola come verità: «questa paura / che ogni volta ritorna / a non capire / là fuori, a che cosa tiene davvero, / cosa vuole da noi, la verità», poi tematicamente ripresa in esordio di Chiarimenti («tenere a bada […] la verità»), anche se qui evidentemente essa assume un colore interamente laico. Le poesie di Fiori ci riconducono davanti al muro montaliano, anzi lo rifondano, restituiscono vigore a ogni confine lambito dalla logica, ma non ne fanno motivo di elegia: non cessano di sfidarlo, quel muro, non smettono di parlargli, mettendo in gioco qualcosa che va oltre la credibilità artistica dell’autore. «Vedi? Parlare ci separa. Eppure / nemmeno nella stretta di mano / più calda, occhi negli occhi, / nemmeno abbracciati, / persi nel bacio più profondo / saremo mai vicini come siamo / nelle parole».

Non chiarezza semantica, dunque, si riscontra nella poesia di Fiori, ma evidenza esemplare: il significato è esplicito ed elementare, il senso meno definibile ma condiviso a livello di esperienza, fenomenicamente.

Anche sul piano stilistico la chiarezza non assume i tratti della trasparenza retorica. Semmai, si potrà sostituire il concetto ermeneutico di opacità del testo poetico (che prende a oggetto del suo discorso anche la propria forma) con la “trasparenza opaca” del vetro: il testo non impone una intransitività esasperata, anzi assume l’aspetto opposto, ma rimane strutturalmente regolato, salvaguarda la propria impenetrabilità a livelli meno percepibili.

Anzitutto, si sarà intuita a questo punto anche la radice colta della mimesi del ‘parlato comune’ («dire le cose / con gli occhi e con la bocca, da pari a pari»), della frase ‘normale’, che talvolta può persino (e con grande efficacia), riproporre anacoluti, ripetizioni, un campionario di frasi idiomatiche (in Il discorso e la voce si «arriva alle parole» come comunemente si dice “arrivare alle mani”), fino a una leggerezza favolistica che può ricordare a tratti poesie della Lamarque (Tema: «Giornate intere ho spiato la loro calma: / volevo dire bene / che cosa sono, averle nella voce / come una frase, vive, lasciarle parlare; / ma se ci penso, alla fine, / io le case vorrei / solo mangiarmele»). La ricerca linguistica di Fiori (e la predilezione per determinati autori deriva anche da questa consentaneità linguistica) è volta scopertamente a una ‘italianità’, a una solarità mediterranea che si rispecchia nelle scelte lessicali e nelle rime aperte, semplici al punto da sembrare casuali, seppure ben amalgamate nel testo, all’interno di un impianto ritmico sempre più legato ai versi canonici dell’endecasillabo e del settenario, con una generale inclinazione per le misure brevi in cui possono essere scomposti. Si vedano questi minimi esempi di rime: Apparizione, in Esempi, si compone di tre quartine, la prima secondo il modulo ABBA, ma con rime anche nelle altre, persino ipermetre: consolano : parola; Buio, in Tutti: merende : splendere : offendere, mentre Uno, in Esempi, ricorre alla rima al mezzo muro: tamburo. Ancor più facile sarebbe rilevare sistematicamente le assonanze e le paronomasie (in quest’ultima poesia abbiamo «il vostro coro, care case»), mentre, per evincere definitivamente anche l’acuta ricerca stilistica di Fiori per quanto attiene al dispositivo metrico-lessicale nel suo insieme, si noti che una poesia come Due cani, in Chiarimenti (probabilmente il libro più sperimentale in questa prospettiva), è qualcosa di più che una semplice allusione al sonetto:

Di colpo, girato l’angolo,
due cani urlano, si avventano
uno sull’altro: due scoppi di spavento
impiccati al collare che li strangola.

Uno sembra che pianga,
mentre sbava con fuori tutti i denti.
Fa il giro largo la gente,
va per aiuole, nel fango.

Scatta di nuovo il verde,
il giallo, il rosso; passa un mese, un anno,
passa una settimana, passa un’ora.

Io rimango impiccato lì con loro
che non sanno calmarsi, che non sanno
lasciarsi perdere.

Accanto al catalogo appena abbozzato, che il lettore completerà da sé, si paleseranno i referenti di un’ideale tradizione letteraria. Se il nome più ovvio, per ragioni stilistiche, risulta quello di Penna, non stupirà se una simile analisi finirebbe magari per attribuire alla fonte ungarettiana i lasciti più cospicui: «Si sta come in ascensore / con uno, con un signore, / per un paio di piani». Né dovrebbe mancare un confronto con i poeti milanesi, a partire dagli esponenti della ‘linea lombarda’ fino ai loro eredi, con quell’idea sempre rinascente di un (raboniano?) romanzo cittadino giostrato su registri colloquali, seppure in Fiori riattualizzato secondo una visuale ed una voce indiscutibilmente originali. Meno certo, invece, sempre all’interno di una poesia novecentesca della chiarezza e della solarità, pare l’accostamento a Saba, suffragato magari per via di una parentela etica sotto l’egida della “poesia onesta”. Importa comunque stabilire la confluenza in questi versi di una doppia genitura (lombarda e ligure, quest’ultima con i vari Sbarbaro, Montale e Caproni), che trova conforto anche nei dati biografici del poeta: queste le coordinate generali di una poesia comunque non esplicabile meramente entro un contesto letterario.

 

L’istante che si apre come una voragine nel mezzo dei discorsi e ci lascia nell’evidenza dei fatti è sì luminoso e liberante, ma anche terribilmente fragile: non c’è nemmeno un tu eletto cui affidare questa scoperta, la quale dismette i panni del miracolo, del segreto, e si fa esperienza comune, «centro / di tutti gli smarrimenti» possibili. Non c’è merito nelle parole, la verità non è un privilegio, ma uno stare al fondo, uno smottamento improvviso che sgrava ogni orpello perché «la cosa che è nascosta dentro il mondo / rischia la vita». In questo istante fondativo ma al contempo effimero c’è un punto di calma assoluta, ma il passaggio dal buio alla luce, dalle pareti al vuoto improvviso che risucchia, comporta anche un perenne stato di angoscia e solitudine. Il disagio si accompagna inevitabilmente alla verità.

C’è dunque un nerbo vitale sempre vibrante, anche quando l’esuberanza delle simitudini o la disseminazione delle scene con minime variazioni, insieme all’alta riproducibilità stilistica (conseguenza dell’esattezza della voce, della sua emblematicità), sembrano definire movimenti tautologici. Ed è proprio la questione sottile di tale serenità apparente, che mostra nei propri fondali il moto repentino di un’inquietudine inafferrabile, a sottrarre ancora il poeta alla definitiva certificazione di sé entro una cifra poetica.

A ben vedere, fin da Esempi, laddove la prima persona compariva in occasioni assai discrete, si profilava l’eventualità di un più diretto confronto con la materia biografica. In particolare, l’io si dichiarava solo in fine di raccolta, in una poesia intitolata per contrasto Uno, e subitamente veniva riaffondato nel più ampio respiro poetico che la sequenza finale (Treno) tornava a imporre, come in un gesto di rimozione. Si tratta di un testo particolarmente conciso, epigrafico:

Uno

Dentro di me c’è un muro
teso e sereno
come un tamburo che nessuno suona.

E intorno il vostro coro, care case.

Si tratta probabilmente della situazione archetipica per eccellenza per il poeta, che però si lega a una condizione esistenziale che si vorrebbe dire compressa, controllata ma non statica («teso e sereno»).

La stessa dinamica di rimozione avviene in Tutti, che si conclude con un’altra interessante accoppiata di testi: Io e Strettoie, dove al soggetto che finalmente viene allo scoperto, ma con un atto di riscatto sublimante («Quello che sai di me / (come sono, com’ero) quello che pensi / di me tu che mi leggi nel pensiero, / quel che siete convinti di sapere / voi che mi conoscete, / è tutto vero»[4]), si contrappongono subito gli altri: come se al fondo della ‘strettoia’ dell’io davvero non vi fosse altra scoperta che il comune patrimonio (si dica pure biologico) dell’uomo. Da notare che anche le citazioni, apposte in principio di raccolta, assurgono quasi a giustificazioni per la scelta del poeta di parlare di sé.

Ciò potrà in qualche modo spiegare i tratti caratteristici di quest’ultima raccolta, bipartita asimmetricamente fra le sezioni Anni e Figure, e che sintetizziamo nello spostamento tematico dalla zona franca dell’esperienza anonima delle occasioni cittadine e dei discorsi all’esperienza personale, con il significativo scarto che comporta in direzione di un registro espressivo meno limpido e capace di accogliere anche toni espressionistici inconsueti («il feto morto») e soprattutto situazioni ermetiche e talvolta surreali, come in Rinfresco:

“Ma goditi un po’ la vita!
Sei sempre così serio, così rigido…”
sospirava un cadavere, al rinfresco,
versandomi l’aperitivo.
“Perché non provi a essere più sciolto,
più morbido?”
[…]

Parlare di biografismo sarebbe fuori luogo, ma certo si ipotizza un passo importante verso una dimensione storica più complessa. Peraltro, il rilancio della posta in gioco appare, col senno di poi, uno sbocco in qualche modo fisiologico e auspicabile, seppure potrebbe aver spiazzato chi aveva seguito il processo di maturazione che dalla forza sorgiva delle immagini di Esempi conduceva al maggiore possesso dei motivi dell’ispirazione (fino alla concentrazione nell’unico tema della fenomenologia della comunicazione verbale) e alla decantazione stilistica raggiunti in Chiarimenti. Quest’ultimo libro, infatti, rischiava di chiudersi entro un orizzonte manieristico, attorno a un personaggio non identificabile ma ormai prevedibile, magari animato anche da qualche moto compiaciuto di ironia.

In Tutti, invece, gli attori sulla scena tornano a mostrarsi, almeno obliquamente, con un proprio profilo, riscattandosi momentaneamente dalla maschera per tornare a essere persone e incarnare più vivamente l’inquietudine di chi, specchiandosi negli altri, cerca sé stesso. Così sarà per esempio per il «lumacone mezzo analfabeta» che «tirando cocaina / mi spiegava l’estetica» in Lampi, per gli stessi interlocutori del discorso («E ti ricordi quella volta, al cinema / quando di colpo / mi avete sentito piangere?»), per i mezzi pubblici (l’«extraurbano delle sei e venti / del mattino») e gli oggetti sfiorati da una nominazione più precisa e spietata («sentivo in pieno giorno / calare il buio / sui nomi degli amari e delle merende»): sempre attento a evitare la soglia del nome, il poeta si ex-pone ricordando quello che diviene quasi un vero e proprio atto sacrificale di spoliazione di sé per giungere a «vedere quello / che vedono sempre tutti», senza nemmeno tacere della sensazione di «disgusto» e persino di «odio vero» nei confronti della gente, come quella di «un bambino per i grandi / quando li guarda masticare e bere»: un moto di «innocenza […] nera» perché equivalente a una sorta di repulsione fisica, istintiva, senza fondamento culturale:

Sagoma

Come quando una notte
mi hanno indicato un letto: ecco, questo è il tuo.

Ho ringraziato,
ho scostato il piumino. Sotto c’era
stampata sul lenzuolo
una sagoma nera,
perfetta: testa, tronco, gambe, braccia
come passati con la grafite
e scavati dal peso nel materasso
e nel cuscino. Faceva pensare all’uomo
che si traccia col gesso per terra,
intorno al ferito.

Come una vite gira
nel suo filetto, io mi sono steso
nella forma di tutti
e con un occhio aperto
ho dormito.

Scendere al fondo delle cose, nei pressi del cantiere che manda «odore di fango e radici», non è dunque esperienza priva di angoscia e comporta anche la scoperta del Male (come giusto si intitola una poesia) e dell’abiezione (un altro titolo è Mostri). Ma sono questi i sentimenti che accompagnano l’uscita allo scoperto del nervo dolente della personalità: «Abbassavano gli occhi / per il disgusto, quando / sotto il mio peso / mi usciva un altro raglio / […] / Avevano ragione: chi soffre è ingiusto, / fa male, sbaglia. / È il dolore / il peccato più grande». Prima di poter cogliere le facciate delle case e la luce del muro nella loro segreta rivelazione, prima di toccare il fondamento concreto, ovvero il limite entro cui siamo costretti, si deve diventare puri e sapienti. Soltanto allora si può prendere posto, fermarsi, sentire un amore per i nomi comuni:

Al ritorno di tutto quel viaggiare
ho alzato gli occhi
e voi mi siete apparse,
care facciate. Sembravate più vere,
e molto più che vere, a rivedervi
sopra il traffico svelto di un viale
o in fondo a uno sterrato
sostenere
la luce di tutti i giorni.

Ma non c’è idillio possibile, non c’è assenza di giudizio o tregua. Anche nel cuore della partecipazione al destino comune ogni individuo ha un corpo, un nome, un peso: «non sono trasparente». La storia non si annulla nemmeno di fronte alla scoperta che «c’è un posto dove tutti siamo presenti. // È lì che in ogni momento / io vi aspetto».

 

NOTE

[1] Fra i molti riferimenti biografici, si rinvia anzitutto, per ogni approfondimento sulla poesia di Fiori, all’ottimo ed essenziale lavoro di Rocco Ronchi (Il verso giusto. Etica e pedagogia nella poesia di Umberto Fiori, «Atelier», III, 12, dic. 1998, pp. 14-19)

[2] Fino a giungere alla conclusione che il canto altro non è che, citando Kafka, un fischio, una manifestazione di esistenza, la scoperta della «frase che ti regola, la frase che ti è normale».

[3] Roberto Bertoldo, Umberto Fiori: esistenzialismo ed etica della coralità, «La rosa necessaria», IV, 12, aprile 1996, pp. 18-20.

[4] Cfr. il montaliano Ciò che di me sapeste dagli Ossi di seppia, in Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1984, p. 36.

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