Il Fiume n.8, di Giuseppe Tattarletti

La piena (racconto di Guido Conti)

Ha da pochi giorni compiuto gli anni lo scrittore Guido Conti e mi piace rendergli omaggio riprendendo il racconto che pubblicammo sul numero 16 della rivista Atelier.

In quell’occasione Giuliano Ladolfi aveva introdotto il testo con queste parole:

Capacità di rappresentazione visiva, realismo di definizione spazio-temporale, sapienza nella costruzione delle sequenze narrative caratterizzano il racconto di un narratore già consacrato. L’elemento tragico è giocato sul contrasto tra le cieca furia del fiume e l’ostinato amore del protagonista per la propria casa, la propria famiglia, i propri animali: si tratta di una maniera artisticamente emotiva per rappresentare il “senso delle radici”, che contraddistingue la nostra millenaria cultura contadina

(L’immagine in evidenza di questo post è di Giuseppe Tattarletti)

LA PIENA

Pioveva che Dio la mandava!

– Ci vuole una barca per mia madre, ci vuole una barca per mia madre, Perdio! Sta male! – gridava disperato Pietro Lusardi dalla finestra del primo piano, mentre gli pioveva in faccia e il cortile s’inondava d’acqua limacciosa. Sull’argine un uomo dentro la Cerata, all’imbrunire, faceva segnali con la pila ma le sue urla e quelle di Pietro, così lontano, si sentivano poco o niente. La pioggia e il muggito del fiume che arrivava lontano coprivano ogni voce e la lingua d’acqua e di fango arrivava sempre più impetuosa. Poi l’uomo sull’argine fece un segno, come per dire di aspettare, che sarebbe arrivato con i pompieri, gli aiuti e la barca, ma Pietro Lusardi aspettò invano tutta notte. E l’acqua ormai era già all’altezza del primo piano.

Il tempo s’era guastato da settimane e il cielo era sempre più scuro, le nuvole cariche di pioggia coprivano la pianura come un pensiero di morte. Il Po si era gonfiato, velocemente, senza pietà, e la terra nei campi e dentro gli argini era imbevuta d’acqua come una spugna. Pioveva con insistenza e i campi diventavano acquitrini, i fossi tracimavano a formare specchi d’acqua sempre più ampi che si aprivano sulla terra già seminata e affogavano l’erba e il frumento. Il sole faceva timide apparizioni dietro i nuvoloni neri e bianchi che sembravano gonfiarsi all’orizzonte a causa di giganteschi roghi. Per qualche ora soffiava un vento gelido di novembre, come se il cielo riprendesse fiato, e poi tornava scuro, le nubi si ammassavano grigie all’orizzonte, tuonava e ricominciava a piovere, con insistenza. Inesorabilmente.

– Se continua così il Po sbraga tutto – disse un contadino anche lui con la cerata addosso, che si prendeva la pioggia in faccia con gli occhi semichiusi. Di fianco un altro contadino guardava muto sotto l’ombrello di fronte al fiume. Stavano sull’argine maestro e guardavano il Po gonfiarsi velocemente, inondando il catino pianeggiante tra il letto e l’argine. L’acqua non correva verso il mare e nemmeno cadeva dal cielo, sembrava invece affiorare lentamente dalla terra e ristagnare. L’onda di fango cominciò a riempire i fossi e poi i canali, fino a quando ricoprì tutti i campi e si avvicinò paurosamente all’argine. L’acqua sembrava sgorgare da sotto, come un magma spaventoso che inghiottiva le case, gli alberi e i campi. Già vicino al greto i pioppeti più vecchi e più alti erano andati sott’acqua. Si vedevano lontano solo le punte. La pianura dentro l’argine sembrava sprofondare sotto il peso dell’acqua.

I contadini sugli argini non avevano mai visto il fiume gonfiarsi così velocemente, nemmeno da bambini, quand’era venuta l’alluvione negli anni Cinquanta. Lungo gli argini giravano le macchine della polizia e dei pompieri, con i lampeggianti blu e gialli che illuminavano in maniera sinistra il paesaggio grigio di un imbrunire arrivato precocemente per il maltempo e le nubi gonfie. Alla luce dei lampeggianti si vedeva cadere la pioggia fitta, a folate sempre più forti, come se qualcuno buttasse secchiate d’acqua. Aiutavano a far sgomberare con le barche le famiglie dei contadini che erano rimasti fino all’ultimo attaccati alla casa, con le bestie in cortile e le vacche nella stalla. Invece c’era da sgombrare alla svelta, portare via tutto, bestie mobili seggiole televisori armadi e trattori. Non s’aspettavano un onda di piena così rapida.

Erano pochi giorni che pioveva ma veniva giù con insistenza, senza pause. Una pioggia grassa e violenta, che ristagnava sui campi come un pensiero ossessivo. Il povero Pietro Lusardi era rimasto là, dentro la sua casa, mentre sua madre stava male per un dolore al fianco. I soccorsi e i volontari non trovarono né una barca né un mezzo anfibio disponibile nelle vicinanze. Stavano attenti al fiume perché non rompesse gli argini, allagando tutto il paese appena dietro l’argine maestro. Era l’imbrunire, e presto l’onda nera del fiume si sarebbe confusa con il buio del cielo, le urla del vento e della pioggia con la notte. Così dimenticarono Pietro Lusardi nella casa dentro l’argine che si riempiva velocemente come un catino,

mentre sua madre piangeva per il dolore al fianco e il fiume continuava a salire e l’acqua arrivava ben oltre il primo piano. Pietro guardava fuori dalle finestre con le mani a paraocchi sui vetri, nel buio più profondo, nell’attesa di qualche segnale luminoso. Non chiuse nemmeno gli scuri, anche se l’acqua e il freddo filtravano dalle fessure. Aveva portato nella camera della madre anche le galline che stavano appollaiate nel buio, sopra i mobili e la poltrona vecchia di sua nonna. Tutto il resto era rimasto al piano di sotto e adesso galleggiava dentro casa, sommerso dall’acqua e dal fango. Pietro si fregava forte le mani preoccupato, si passava una mano sui capelli umidi e guardava la madre che sudava e soffriva al lume della lucerna a petrolio, tornata utile dopo tanti anni di luce elettrica. – Vedrai che adesso qualcuno arriva, vedrai! – disse a sua madre.

Di notte, in Piemonte, il fiume straripato aveva portato via case e strade. C’erano stati dei morti, molti dispersi. Il fiume gonfio strappava via tutto, si portava

all’inferno macchine asfalto case ponti blocchi di cemento autobotti cassonetti piante pali della luce rodendo argini e campi. La furia del fiume sembrava di ora in ora crescere a dismisura, senza nessun accenno di quiete e di tregua. E continuava a piovere che Dio la mandava.

Sull’argine maestro, lontano, avevano già messo molti uomini di guardia, per controllare se il fiume rodeva gli argini dove i topi facevano le tane. Lungo gli argini che proteggevano Zibello, Ragazzola, Mezzani, Roccabianca e Colorno i contadini giravano con le torce e i badili per chiudere le minuscole falle delle ponghe e delle nutrie. I volontari riempivano sacchetti di terra melmosa e di sabbia e li portavano a rafforzare gli argini. Costruivano muretti e rafforzavano dove forse la corrente del fiume era più forte e poteva rompere l’argine. La furia dell’acqua aumentava di ora in ora e nessuno poteva prevedere cosa avrebbe fatto il Po. Dopo la piena del Cinquantuno avevano alzato gli argini di quindici centimetri ma cominciavano ad arrivare le prime notizie confuse, che il fiume aveva già rotto in alcune parti della Bassa reggiana e verso Modena. Fu proprio durante la notte che gli argini cominciarono a tremare leggermente per la pressione dell’acqua. Avevano già fatto sgomberare le case di chi viveva dentro l’alveo e nei pressi dell’argine maestro, meno il povero Lusardi e sua madre che vivevano in una casa isolata, in mezzo al pioppeto. La corrente del fiume lì non arrivava impetuosa, ma l’acqua, fin dalla sera, aveva cominciato a riempire i fossi ed allagare il cortile.

L’acqua saliva inesorabile. La marea di fango allagò prima il cortile, poi si alzò limacciosa fino al davanzale della finestra, sommergendo le finestre che scomparvero sotto l’onda limacciosa e poi salì ancora, ben oltre il primo piano. Prima dell’imbrunire aveva già raggiunto due metri e mezzo di altezza e Pietro aveva cominciato a portare le seggiole e le galline al piano di sopra, nelle camere, dove sua madre si era coricata perché non stava bene. Era spaventoso sentire piovere con violenza, le folate di vento che aumentavano nel silenzio contro i vetri, mentre alla luce della lanterna a petrolio le ombre giganti tremavano appena sui muri. Così Pietro guardava dalla finestra, verso l’argine, le galline che dormivano appollaiate sul comò o sulla spalliera delle seggiole. Stava in silenzio, seduto vicino alla madre che sudava con un fazzoletto in testa. – Per questa notte non verrà nessuno – disse lei tremando e sudando, stringendo una mano al figlio ad ogni fitta più forte, mentre l’acqua già saliva a raggiungere il davanzale delle finestre del secondo piano Era un lago nero d’acqua e di fango. Passarono così tutta notte, senza dormire, con l’orecchio teso al buio, al ticchettare continuo, alle folate contro il vetro e la pioggia che picchiava come se buttassero secchiate di piombo fuso contro i vetri. E sua madre che dolorava, sudando. Fu una notte d’inferno, mentre il lago nero inghiottiva la terra, come la notte.

La mattina, quando il cielo cominciò a schiarire, nel cielo grigio, pioveva ancora che Dio la mandava! Pietro guardò fuori dalla finestra l’immenso lago formatosi dove una volta c’erano i campi. Lontano erano sparite anche le punte dei pioppi e il fiume era cresciuto ancora, dopo la notte di pioggia. Quel lago di fango grigio sembrava un sogno minaccioso, come se qualcosa all’improvviso potesse succedere, qualcosa d’irreparabile e mostruoso. Il fiume mugulava lontano e all’improvviso, se avesse rotto, poteva liberare un urlo potente. Era davvero pericoloso stare lì. Se l’argine avesse ceduto nelle vicinanze, una corrente paurosa avrebbe risucchiato piante case mobili pioppi e terra verso la pianura, trascinando tutto fuori dall’alveo a chilometri di distanza nei campi della Bassa. Il fiume rompendo sarebbe esploso in tutta la sua violenza, scavando gli argini che continuavano a tenere malgrado la pressione e la corrente dell’acqua che saliva. Quelle mura di terra si sarebbero sciolte come fango molle.

A causa della pressione i fontanoni cominciarono a formarsi sulle strade e nei campi vicino, oltre gli argini maestri, e davano sfogo all’acqua che faceva saltare tappi di terra oltre l’argine, dove avevano parcheggiato le macchine e dove si preparavano i soccorsi. Gli uomini mettevano sacchi di sabbia attorno ai fontanoni che si formavano nei campi. Un fontanone saltò anche in casa del povero Giuseppe Ravanetti che si vide l’acqua all’improvviso comparire da sotto il pavimento. E aveva cominciato a bestemmiare contro i topi che facevano i buchi negli argini e contro le talpe. L’acqua dopo una timida presenza, cominciò a schiumare e a bollire fangosa da sotto il pavimento, sempre più forte, proprio in mezzo alla cucina, facendo saltare sassi e mattonelle. La casa fu inondata d’acqua e dal fango e dovettero buttare tutto, cercando di salvare il possibile, mentre usciva l’acqua dalle porte come se dentro ci fosse scoppiata la sorgente di un fiume.

Pietro non staccava il volto dalla finestra. Teneva le mani a paraocchi sui vetri, alla ricerca di un segno, di una luce, di qualche presenza. Aspettava di vedere se qualcuno comparisse sull’argine. Sua madre aveva perso i sensi e lui si sentiva impotente. Non poteva lasciarla lì, sola, in mezzo al fiume che sembrava un lago ormai senza confini, profondo più di cinque, sei metri, col rischio di tornare e di non trovare più nemmeno la casa. Così si fregava nervoso le mani con forza, e si voltava verso la madre che sudava. – La casa è solida e tiene. Vedrai che arrivano, vedrai che arrivano – diceva Pietro mentre le asciugava la fronte col fazzoletto, le galline immobili che sembravano vegliare anche loro sull’ammalata. Pietro stringeva i denti, non sapeva cosa fare, e la sua rabbia cresceva nel sangue. All’improvviso una luce azzurra, intermittente, cominciò a riflettersi sui vetri. Pietro corse e aprì la finestra urlando mentre il freddo e la pioggia gli cadevano in faccia, gelide. Si sbracciò urlando e la sua felicità esplose improvvisa nelle urla. Sull’argine, con le macchine e la barca, gli uomini del soccorso non sentivano niente, vedevano Pietro alla finestra, con l’acqua a pochi centimetri dal davanzale tanto che sembrava immerso nell’acqua fino alla pancia. Avvicinarono la barca all’argine. Era davvero pericoloso stare lì. Salirono velocemente in tre, accesero il motore e si avvicinarono alla casa, mentre la macchina della polizia se ne andava velocemente dall’argine che tremava alla spinta del fiume. – Sono arrivati, sono arrivati! – diceva Pietro quasi piangendo. – Adesso vai all’ospedale, vedrai che starai meglio – ma sua madre non rispose nemmeno quando le alzò la testa con fatica. Bisognava portarla a peso morto fino alla finestra, mentre il vento del nord scaricava gelide folate dentro la stanza da letto. – Ma siete impazziti a stare qui – disse il carabiniere quando con la barca si avvicinò alla finestra. Alla vista del carabiniere senza berretto, il cane sbucò fuori da sotto il letto e cominciò ad abbaiare con violenza.

– C’è mia madre che sta male. È tutta notte ch’è qui. Non si può muovere. Portate via lei – gridò Pietro tra la gioia e la disperazione. Con la radio chiamarono al più presto un’ambulanza. Due di loro saltarono dentro la camera da letto, appoggiandosi coi piedi sul davanzale, avvolsero la donna che sudava in un panno pesante e la sollevarono di peso. Il cane continuava ad abbaiare insistente. – E fallo star zitto quel cane! urlò di rabbia uno dei soccorritori cercando di dare un calcio a quella bestia. Pietro fece un gesto con la mano, come per colpirlo con un bastone, e il cane tornò impaurito sotto il letto.

Alzarono la donna a peso morto per farla uscire dalla finestra mentre pioveva e la pioggia arrivava a folate. La deposero non senza difficoltà sulla barca che dondolò paurosamente, col rischio di rovesciarsi, mentre Pietro stava sul davanzale e premuroso continuava a dire di stare attenti, di portarla presto sull’ambulanza. Il carabiniere era in bilico con un piede sul davanzale e un altro dentro la barca. La donna venne distesa piano e fu subito ricoperta con un telo impermeabile. Arrivò l’ambulanza sull’argine mentre la barca a motore portava via sua madre. Il motore sollevava una schiuma scura di fango e la barca affondava, lasciando una scia profonda come un solco nella terra, mentre la pioggia Continuava a cadere insistente. – Ma non potevate chiamare aiuto? – disse innervosito il carabiniere in piedi sul davanzale accanto a Pietro. – Ma siete deficienti? – urlò Pietro innervosito. – Ci hanno lasciato qui tutta notte. C’era un uomo con la pila, ieri sera, che faceva segni, che sarebbero arrivati i soccorsi e siete arrivati solo adesso, merda. Mia madre sta male davvero – disse con stizza quasi piangendo, scaricando il suo senso d’impotenza e la tensione dell’attesa notturna.

Intanto con la barca erano già arrivati all’argine. A fatica, sotto la pioggia insistente e gelida, sollevarono la donna dal fondo della barca che dondolava paurosamente fin dentro l’ambulanza, rischiando di finire ancora nell’acqua più volte. Uno dei soccorritori, per tenere ferma la barca, scivolò giù dall’argine, in mezzo all’acqua, fino alla pancia. Sollevarono la donna e la stesero sulla barella, infilandola dentro l’ambulanza che partì a tutta velocità, con le sirene che per il vento, la pioggia e il brontolio del fiume, si sentivano appena.

– Adesso tornano a prenderci – disse il carabiniere.

– Io non vengo!

– Come non vieni?!

– Io non vengo, hai capito bene. Non vengo. Non lascio la mia casa.

– Ma tu sei pazzo. E tua madre?

– Siete pazzi voi a lasciare qui mia madre tutta notte.

– Non ti lasciamo qui, non ti vogliamo sulla coscienza.

– Se mia madre muore avrete lei sulla coscienza, non me, idioti!

Il carabiniere fissò Pietro negli occhi. La barca, leggera, si avvicinava velocemente sull’acqua color cioccolato. Il Carabiniere in piedi sul davanzale tirò fuori la pistola mentre il vento gli scompigliava i capelli e gli pioveva in faccia, da stringere gli occhi. – Adesso vieni con noi – disse. – Non ti lasciamo qui.

Pietro saltò giù dal davanzale e tornò dentro la stanza. Le galline a quel salto si spaventarono e cominciarono a cocchiare sui letti e sopra l’armadio. – Io non lasciò le mie bestie senza mangiare. E nemmeno il mio cane. Capito?

– Vuoi bene più alle tue bestie che a tua madre!

– Mia madre ha chi la cura ormai. Io non posso aiutarla, ma le mie bestie sono sole, capito!?

– Il fiume porterà via te e la tua casa idiota! – disse. Il carabiniere lo fissò e con una mano lo mandò a quel paese mentre scendeva faticosamente sulla barca. Si allontanarono verso l’argine e non si rividero più.

Pietro si sentiva come risollevato. Il cane uscì da sotto il letto e lui lo prese in braccio. Aveva chiuso le finestre per non far entrare il freddo e la pioggia, e guardava l’acqua del fiume che non saliva più ma diventava sempre più limacciosa e scura. Lasciò il cane per terra e con le mani aperte si appoggiò ai vetri. Forse l’onda di piena doveva ancora arrivare e lui rimase lì, come intontito, incredulo nel vedere tanta acqua dove lui, per una vita, aveva lavorato la terra e i campi. Era un sogno terribile e mostruoso insieme, che nascondeva un senso di minaccia incombente. Per l’altezza del fiume non riusciva più a vedere nemmeno i pioppi del cremonese, dall’altra parte degli argini, e la pioggia sembrava aver sommerso tutta la pianura. All’improvviso si sentì un gran tonfo che spaventò le galline. Pietro andò dall’altra parte della stanza, verso l’altra finestra, e vide la rimessa sprofondata, il tetto crollato affondare lentamente nell’onda, come se quella terra liquida inghiottisse ormai ogni cosa come una sabbia mobile. Pietro cominciò ad avere paura. Poi all’improvviso sentì scricchiolare il tetto. Fece un paio di rampe e si trovò di sopra. Vide che filtrava acqua. Allora corse giù, verso il fienile non ancora inondato, prese un grosso trave, non molto lungo. Se lo buttò sulla spalla e cominciò a salire, facendo le scale due alla volta. Appoggiò il trave a terra con grande fatica, mentre si sentiva la pioggia crepitare più forte sulle tegole e c’era tanto freddo, nel sottotetto, che si vedeva perfino il fiato. Allora prese il filo di zinco e cominciò a legarlo attorno al trave portante, poi, con forza, prese di nuovo il grosso trave e lo spinse contro il muro. Niente avrebbe potuto buttar giù quella parete, nemmeno la corrente e la forza del fiume. Allora Pietro, stanco e affaticato, si sedette buttandosi con la schiena contro il muro, poi cercò di dare un calcio al trave di sostegno che non si mosse, ma si vedeva che teneva, che avrebbe tenuto anche in mezzo alla corrente, quel canchero. Avrebbe tenuto con forza, e lui non avrebbe più avuto paura. Fu in quel momento di pausa che la pioggia sembrò ticchettare di meno, le folate diminuire lentamente, gli scrosci di pioggia diventare pian piano un crepitio leggero anche se il vento soffiava impetuoso.

Pietro tornò in camera da letto e il cane quando lo vide entrare abbaiò. Le galline si spaventarono ma poi continuarono a beccare per terra. Guardò dalla finestra. L’aria sgocciolava. Il cielo era grigio, l’immenso lago d’acqua e di fango era senza confini, piatto e senza corrente, ma non pioveva più. L’aria era grigia e umida e sembrava che il fiume corresse lontano. Solo allora, dopo il silenzio della pioggia, Pietro sentì il muggito sordo del fiume che correva gonfio verso il mare. Era un mugolio sordo, terribile e sembrava che tutto tremasse al correre di una mandria di bufali. Se avesse continuato così avrebbe sfasciato tutto e si sarebbe portato al mare pioppi case argini e morti, come rovina una rete a strascico, strisciando le sue unghie sul fondo. Così mentre il fiume correva lontano nella sua disperazione cieca, Pietro Lusardi se ne stava lì, ad accudire le sue galline e il suo cane, nel silenzio della casa affondata nell’acqua e nel fango. Non pioveva più e nell’aria quel mugolio di fondo del fiume era un rantolo sordo, dava al silenzio un aria irreale, come in un sogno.

Il fiume faceva paura davvero. Se non fosse calato o non avesse smesso di piovere, bisognava prendere una decisione e decidere di rompere in uno o più punti l’argine maestro e lasciar sfogare il fiume nei campi aperti, lontano dai paesi. Perché il fiume poteva tracimare come una pentola stracolma d’acqua, oppure poteva rompere gli argini vicino ad un paese, con conseguenze da catastrofe. A Boretto l’argine pieno d’acqua arrivava all’altezza del campanile. Se il fiume avesse rotto proprio lì, si sarebbe portato via tutto il paese, e anche la chiesa. E così poteva capitare a Sissa, a Roccabianca. L’alta marea, nel delta, faceva da tappo allo sfogo in mare dell’onda di piena. Solo Pietro Lusardi era incosciente del pericolo di stare lì, dentro la sua casa. Se avessero rotto l’argine nelle vicinanze, l’acqua e la corrente l’avrebbero risucchiato nella pianura fino all’inferno, lui le galline e la casa. Ma la pioggia cessò e la corrente del Po continuava a correre lontano, mostruosa, vomitando i rottami della pianura nel ventre del grande mare. Dopo la bufera sulla pianura ritornò la calma. L’acqua dentro gli argini stagnava, come quella di un lago maleodorante, e il silenzio intorno era davvero irreale come in un sogno.

Pietro aveva fame. Guardava le sue galline beccare il pavimento e non aveva niente da bere né da mangiare. La cantina era allagata. Allora Pietro scese le scale che sprofondavano nell’acqua. Galleggiavano cassette rotte e legni, carte e un coniglio gonfio. Ritornò in camera e aprì una credenza che aveva salvato prima della piena. C’erano ancora due pezzi di pane e molte briciole. Aprì i cassetti e li rovesciò per la festa delle galline che cominciarono a beccare picchiando sul legno come se cadessero sassi. Il cane rosicchiò un crostino. Non avendo acqua, prese una pentola e legò il manico ad una corda. Aprì la finestra e buttò la pentola nel fiume. L’acqua era fangosa e la lasciò decantare, vicino all’armadio, sopra un comò. Poi si sedette sul letto di sua madre e stanco per la notte passata in bianco si lasciò andare sfinito.

Dormì male e sognò pioggia e vento, e l’incubo di trovarsi di notte, solo, in mezzo all’oceano buio, senza stelle, coricato in una barchetta, con solo il legno dello scafo che lo proteggeva dall’infinita profondità del mare. Aveva freddo e sudava, poi una voce lo chiamava per nome, lontana, una voce famigliare a cui voleva rispondere e provava angoscia perché non riusciva a svegliarsi. Pietro voleva gridare ma non ci riusciva, voleva chiamare aiuto ma si trovò la bocca piena di fango. Alla fine qualcuno bussò dai vetri, galleggiando sull’acqua con una barca. Pietro si svegliò all’improvviso, preso dal terrore che la sua casa stesse crollando, e invece vide un suo amico che rideva dietro la finestra.

– Pietro, Pietro – urlava picchiando i vetri. Il cane uscì da sotto il letto e cominciò ad abbaiare impazzito per lo spavento. Pietro si alzò sconvolto per aprire la finestra, senza capire niente. Il suo amico rideva. – Tzi propria mat, Pietro. Ma come fai a stare qui, da solo? – disse.

– Devo pensare alle galline e al mio cane – rispose.

– Ha smesso di piovere, l’acqua non sale più. Mi hanno detto che tua madre sta bene – disse il suo amico remando appena su quella barchetta che usavano in Po per andare a cavedani. Poi con una mano si attaccò al davanzale della finestra. – Guarda – disse e sollevò una gallina morta, tutta bagnata fradicia, con le penne che aderivano al corpo magro.

– L’ho recuperata qui. E tua? – disse.

Pietro alzò le spalle, la prese e la spennò velocemente. – È ancora buona da mangiare

– rispose. Poi mentre il suo amico stava contro il muro e lo guardava galleggiando fuori dalla finestra, Pietro sventrò dalle interiora quella gallina, si avvicinò alla finestra e la buttò in acqua, per lavarla, poi prese un pezzo di lenzuolo vecchio e l’asciugò. – La mangerò stasera – disse, mentre il suo amico scuoteva la testa. – Mi hanno detto che non sei voluto andar via. Hai bisogno di qualcosa?

– No, voglio stare solo. Devo guardare le mie bestie. Salutami solo mia madre e dille di non preoccuparsi, che alla casa ci penso io.

– Ma ce l’hai da mangiare? – disse di nuovo il suo amico.

– Ho tutto. Ma non vengo via.

– È un disastro Pietro, un gran disastro – disse scuotendo appena la testa, e cominciò a remare su quel lago immenso. Poi si fermò.

– Pietro… – urlò.

Pietro fece segno come per dire “cosa c’è?”. L’amico attese un attimo, fece segno con la testa, perché avrebbe detto un’altra volta, salutò con la mano e ricominciò a remare piano, stando vicino all’argine, sfiorando la corrente che portava verso il centro del fiume. Se solo la corrente l’avesse inghiottita quella piccola barchetta, il Po l’avrebbe travolta. Era pericoloso remare lì, stare in mezzo a quell’acqua morta, dove il fiume portava i suoi resti, ma poi anche la barca sparì lontano. Pietro chiuse le finestre e accese il fornello attaccato alla bombola che aveva portato dal piano di sotto, mise a bollire l’acqua che aveva tolto dal fango e ci buttò la gallina per farsi il brodo.

Il cielo restava grigio e l’aria immobile, come l’acqua del fiume che non saliva né scorreva, stava lì, come un pensiero ossessivo. A volte si formavano dei mulinelli

alla superficie, dei gorghi che mostravano che sotto la corrente lavorava, e avrebbe risucchiato chiunque, sputandolo poi a centinaia di metri più a valle. Pietro si sedette sul letto, era stanco, senza pensieri, poi tornò a guardare dalla finestra quando all’improvviso vide galleggiare una vacca gonfia sull’acqua e poi ancora un’altra vacca proprio davanti alla finestra della camera a qualche decina di metri. In quell’ansa, lontano dalla corrente, il fiume portava alla deriva foglie tronchi e animali morti, vide anche un maiale gonfio come un otre e più lontano un uomo che galleggiava a faccia in giù, con un giubbotto rosso della protezione civile. Il Po portava giù verso il mare il suo carico di morte.

Pietro guardava impotente dalla finestra e aveva voglia di gridare, di chiamare aiuto. Aprì la finestra e cominciò a gridare, ma in quel silenzio la sua voce si perdeva nel nulla. Sull’argine lontano non c’era nessuno. Le bestie morte galleggiavano leggere su quell’acqua color fango, sporca di benzina e di petrolio, ammassandosi contro le punte più alte dei pioppi che frenavano la corrente, creando così una stanca del fiume. Pietro urlava che c’erano animali morti e un uomo vicino alle punte dei pioppi, ma urlava nel silenzio. Tutt’intorno non c’era nessuno. Poi quando non ebbe più fiato restò lì a guardare quel cimitero galleggiante nel fango. Gli venne voglia di piangere e strinse i pugni, come per sfogare la sua impotenza di fronte alla forza malata del fiume. E lontano il Po lamentava come un mugugno a bocca chiusa, continuo e ossessivo, come un pensiero di morte. Allora decise di andare sul tetto, per fare segnali, per vedere meglio e cercare qualcuno. Salì le scale e poi alzò il lucernario. Prese la scala e salì sui tetti. Fu in quel momento che capì la situazione mostruosa della sua casa su quell’immenso lago. Era circondato dall’acqua e il tetto sembrava una piccola zattera persa in un grande mare, mentre la corrente, più lontano, alzava gobbe e rodeva portandosi via tutto verso il mare con una forza spaventosa e impressionante. Vide una macchina bianca che galleggiava sulla cresta della corrente. E proprio in quel momento Pietro capì la paura della sua casa se fosse stata risucchiata dalla corrente lontana, dall’acqua del fiume alta, in quei punti, più di cinque o sei metri.

Si mise le mani nei capelli e quando guardò di nuovo lontano per vedere la forza del fiume spingere verso il mare, e se qualcuno arrivava sull’argine, ebbe paura davvero e cominciò a gridare aiuto come un ossesso, con tutto il fiato che aveva in gola, mentre l’abbaiare del suo cane, in casa, arrivava sul tetto soffocato. Vide anche i campi allagati oltre l’argine e capì anche di essere immerso, con la sua casa, in un grande catino d’acqua più alta di cinque o sei metri. Pietro urlava e si sbracciava, ma in giro, sugli argini, non c’era nessuno a vigilare. La guardia stava più a monte, dove se decidevano, potevano rompere l’argine e far scoppiare la foga compressa della corrente e dell’acqua ormai sul punto di tracimare. Anche gli elicotteri non giravano più sul fiume. Pietro camminò sul tetto e andò dove aveva visto le vacche e l’uomo riverso, ma gli animali morti non c’erano più, erano come spariti, come se quello che aveva visto fosse solo un incubo svanito all’improvviso, quando invece l’acqua, che sembrava immobile, correva con le sue correnti nascoste verso il mare.

Galleggiavano tronchi e alberi, e poi ancora rottami e sterpi, foglie marce e alberi, tronchi e bottiglie di plastiche e casse di legno, tutto andava lentamente verso il mare con la corrente, le punte degli alberi affogate nell’acqua color fango, mentre lui stava lì ad osservare il volto mostruoso, violento e feroce del fiume, sui tetti della sua casa che sembrava galleggiasse, ancorata, in mezzo all’acqua. Così il fiume sfogava la sua fame malata. Allora Pietro, preso dallo sconforto, ricominciò a urlare nel silenzio di quel deserto di acqua e di morte, con le braccia alzate e una rabbia sorda nel cuore che gli faceva stringere gli occhi e lo faceva piangere.

Solo dopo una settimana l’acqua cominciò a calare e dopo quasi dieci giorni il fiume ritornò nel suo letto, sgonfiando la sua rabbia e la sua violenza. Pietro aveva resistito alla furia del fiume, aveva dormito in mezzo al lago nero come la pece, di notte, mentre il fiume brontolava lontano. Allora, quando la mattina si svegliò che l’acqua aveva abbandonato il cortile e i campi, scese giù dalle scale, lasciò libere le galline e il cane che abbaiava e si ritrovò a camminare in mezzo ad una gamba di fango molle come panna. Trovò mobili tavole e seggiole ricoperte da una fanghiglia appiccicosa, rovesciati in mezzo al cortile, dentro la stanza. Era tutto da buttare, i mobili come se fosse passata la furia della morte. Il cielo era perlaceo e il sole comparve freddo e bianco in mezzo al cielo, come una luna malata. Cominciò a camminare sulla strada e in mezzo alla malta grigia che aveva lasciato il Po, e quando si voltò vide il segno dell’acqua contro la casa, sotto il davanzale del secondo piano. C’erano stati quattro metri d’acqua e adesso non c’era più nulla. Gli sembrava di camminare in una piscina vuota. Il fiume aveva portato via tutto, come il risveglio da un incubo, lasciando quella patina grigia sulla pianura e sui campi. Anche il brontolio sordo del fiume era svanito nell’aria come l’acqua, lasciando quell’atmosfera irreale di sogno e di morte. Si guardò intorno ed era solo. Solo una voce lontana fece capire che c’era qualcuno, una voce lontana e limpida, che si perdeva nell’aria. Camminò vicino ad una carraia e poi trovò la prima casa. Fu lì che vide un frigorifero aperto arenato sopra al tetto. Poi, avvicinandosi alla casa, vide una gomma da camion appesa ad un palo di vite che aveva resistito alla furia del fiume. Quando si avvicinò alla casa non vide nessuno, pensò anche d’aver sognato quella voce. Gridò di nuovo ma non c’era nessuno. Vide solo la carogna di una vacca con gli occhi mangiati dall’acqua, con la bocca aperta e gonfia, la lingua di fuori, viola e carnosa. Era lì, immersa nella fanghiglia e con quei denti di fuori sembrava che ridesse, col riso della morte. Pietro stringeva i denti e si guardò intorno, immerso anche lui in quel paesaggio lunare, grigio, in mezzo a quel silenzio e a quella luce metallica e fangosa. Non aveva più la forza di camminare. Trovò un’assa più asciutta, si mise vicino al caseggiato e come intontito, l’appoggiò sopra una cassetta e si sedette. Guardava i campi lontano e pensò all’acqua, alle case che avevano resistito alla forza della corrente, alla carcassa di una macchina rovesciata in un fosso, nel silenzio della morte. Si ritrovò solo in quel cimitero grigio del fiume senza pensieri, guardò la sua casa lontano e cominciò a muovere nervosamente le dita delle mani, mentre il sole che compariva dietro le nuvole era opaco e freddo, senza luce.

 

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