Questa non è una difesa
Qualche precisazione rapida, in merito al saggio di Giuliano Ladolfi pubblicato ieri, in forma di sequenza di pensieri forse un po’ criptici e disordinati, in attesa di raccogliere meglio diverse riflessioni che si annuvolano nella mia testa.
1) Questa non è una difesa del mio libro, per due buone ragioni:
a) l’intervento di Giuliano non esprime un giudizio negativo;
b) i miei libri devono sempre difendersi da soli, non mi permetterai mai di ritenermi il custode del loro valore; se talvolta intervengo, è per entrare nella logica dell’interpretazione, perché questa mi interessa sempre, anche per imparare a valutare meglio le mie stesse esperienze
2) Una precisazione: non ho mai abbandonato la scrittura in versi. Dopo la scrittura del romanzo ho scritto altre poesie, anche se pochissime. Per come la vedo io, la frase “lasciare la scrittura in versi” suona sospetta. Ma si tratta di una decisione? Per quanto io mi imponga una certa disciplina per favorire in me le condizioni giuste per la scrittura poetica, la mia indole mi impedisce di forzare la mano alla misteriosa Dama (per intercettare un’immagine di Giovanni Giudici).
E’ vero tuttavia che la scrittura del romanzo ha inciso profondamente su di me, ma questo lo spiegherò meglio in altra occasione. Mi limito a ribadire che per me, finora, ogni opera ha rappresentato una tappa evolutiva – l’inveramento di una possibilità – l’apertura di uno spazio d’avventura. Uno sfondamento. Un andare al di là. Una modalità per perdersi, per dimenticarsi.
3) Giuliano a un certo punto si chiede: “è meglio conoscere o è meglio non conoscere le vicende, i personaggi, le allusioni, i depistaggi, le idee e i giudizi dell’autore? Francamente vedo nelle due condizioni vantaggi e svantaggi.” La mia risposta si può ricavare dal libro stesso, in modo quasi esplicito in un passaggio in particolare. Comunque, il saggio di Giuliano mi conferma quanto immaginavo ben prima della sua pubblicazione: chi in questi anni ha condiviso con me certe avventure letterarie o ha seguito un po’ da vicino le mie scritture, farà davvero fatica a leggere il testo nel verso giusto: si limiterà a guardare l’arazzo dalla parte dei nodi. Il che è come valutare una poesia sulla base del contenuto. E allora, permettetemi di affermare una banalità: il romanzo non parla di Atelier, il convegno che fa da scenario non è uno dei convegni organizzato da me e Giuliano, il personaggio di Davide non è Simone Cattaneo. Soprattutto: l’autore del romanzo non è Marco Merlin, ma Andrea Temporelli. Non è una facile battuta, è il nucleo del mio modo di intendere la scrittura, è la chiave di ingresso alla mia opera. Si recensisce l’opera, non l’autore.
4) Madame Bovary c’est moi!, ovviamente
5) Due punti azzeccati nel saggio:
a) è vero, Folicaldi non può cronologicamente essersi arricchito grazie a un’azienda di batterie di cellulari. Questo era un punto inerte, un dettaglio riempitivo su cui mi sono dimenticato di tornare, nelle revisioni del testo. Avevo in mente di parlare di una fabbrica di batterie per giocattoli poi convertita al nuovo business o qualcosa del genere. Questi sono i luoghi in cui, un autore, conterebbe volentieri su un buon editor.
b) ottima l’interpretazione di Paneropoli: anche per me non c’era solo lo spunto foscoliano
6) L’espressione «compiacersi di alterare la materia della memoria giocando a modificare i personaggi come si modificano le foto sul computer» può essere letta in due modi:
a) negativo, perché nasconde un giudizio morale. L’alterazione è solo un giochino, un mascheramento, uno sfizio
b) positivo, di chi si compiace della propria opera (senza andare troppo in alto con la ricerca dell’Autore, peraltro), in quanto la scrittura è anche gioco.
A me sembra, in virtù della similitudine aggiunta (le foto ritoccate) che nel saggio si avvalori la prima interpretazione: passare da una rivisitazione memorialistica, esplicitamente autobiografica ecc. ha comportato solo una sofisticazione della realtà, una perdita di genuinità.
Per quel che mi riguarda, invece, il romanzo sta tutto in questa alterazione, in questo far diventare altro. Giuliano invece mi legge nella direzione opposta, resta nell’aldiquà. La sua è una lettura contenutistica; ma non ci si deve mettere alla ricerca dell’autore perduto guardando solo le tracce lasciate e trascurando il loro orientamento; non ci si deve preoccupare di ciò che egli lascia dietro di sé, bensì di ciò di cui si è impossessato!
7) Giuliano Ladolfi ama Giacomo Leopardi e, come lui, intende spesso la poesia come la poetizzazione di un pensiero filosofico, come l’esempio in figura di un concetto. Io amo Leopardi prosatore.
8) Nel mio romanzo: il poeta non concede la sua opera, il professore migliore non insegna, chi ama non fa l’amore, chi è tentato perennemente dal tradimento è fedele, chi è fedele invece tradisce, chi è ignorante veicola la sapienza nel corpo, chi parla ai convegni non dice nulla di nuovo, e così via, senza troppo svelare. Persino l’autore onnisciente non è esterno al libro. Per questo ritengo che quando Giuliano abbia parlato di ossimoro e di “superba umiltà” si stesse approssimando alla soglia iniziatica che protegge il sacrario dell’opera: peccato che se ne sia subito allontanato.
9) Ma, allora, chi giudica, chi attribuisce senso? L’opera stessa?
10) A fronte di tutto ciò, torno ancora una volta a riconoscere la lucidità della lettura di Scarpa, sotto tutti i punti di vista
11) Per quel che mi riguarda, forzando un po’ fino ad arrivare a una radicalizzazione estrema, solo la poesia ha la potenza di “accoppiare” gli opposti e di attribuirsi valore da sola. In questo senso ritengo di aver tentato di portare la poesia in un romanzo: non nel contenuto. Come Luzi e Sereni erano per il Cielo di Marte dei trabocchetti (senza rinnegarne i debiti concreti!), così il preteso biografismo di questo romanzo ha valore solo nella sua alterazione, nel suo non essere più autobiografico. Ho scritto per andare al di là. E il fatto che il romanzo attualmente mi consegni a questa dimensione (sono ormai dentro la mia “profezia privata”) è per me la prova di un valore che non ha bisogno del riscontro editoriale, critico o commerciale.
12) Un brano espunto dal romanzo (ma apparso in un racconto per Atelier):
Quand’è che sente di aver terminato un nuovo libro?
«Mai. Un libro non si conclude, si abbandona.»
Lei, è noto, è uno scrittore estremamente esigente con sé stesso e molto di quello che scrive alla fine lo distrugge. Quando capisce che l’opera che ha scritto funziona e merita di essere pubblicata?
«Quando mi permette di dire: “Averla scritta, mi ha reso un uomo migliore”.»
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