Andare a capo (1)
Sono ancora in debito di una risposta, in riferimento a quanto emerso dai commenti di questo articolo. Comincio dunque ad aprire l’officina anche su questo tema. Non ho certo la pretesa di insegnare la poesia “a bottega”, però non credo ci sia niente di male nel confrontarsi, direi artigianalmente, intorno alle diverse esperienze artistiche, alle pratiche che ciascuno “abita” con il proprio specifico linguaggio. Il confronto (molto operativo, testuale) intorno alle varie poetiche era anzi uno dei grandi intenti di “Atelier”, impresso nel nome stesso della rivista. Ve lo dimostro, recuperando un brano che mi ripromettevo di rivedere, ma che adesso vi ripropongo così com’è. Risale alle origini della rivista, esce da una rubrica che si intitolava Labor limae…
(L’opera scelta come copertina – cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa – è di Massimiliano Marrani)
IL VERSO
Entriamo dunque nella nostra officina con l’umiltà di chi vuole sperimentare, elaborare ipotesi, chiarire il proprio rapporto con la scrittura attivando (portando a coscienza) i vari livelli che fra loro interagiscono durante il gesto creativo. Non vogliamo trarre troppe conclusioni, giudicare o sistematizzare le nostre riflessioni: innanzitutto perché evidenziare, come dicevamo, i vari livelli attivi durante la scrittura, significa ridurre, di volta in volta, l’atto complesso e inesauribile del fare poetico ad uno solo dei suoi aspetti, che lo può caratterizzare, sempre in modo diverso, ma non esaurire; secondariamente, le conclusioni possono solo giungere alla fine (forse); in ultimo, la competenza di chi scrive, scarsa o notevole che sia, non può che essere, nella migliore delle ipotesi, un invito a proseguire personalmente a porsi altre domande, a scavare più a fondo, a continuare la ricerca.
Non è semplice lavorare sulle parole, perché dietro ad esse possono nascondersi abissi inimmaginabili di pensiero, solitudine, sofferenza, anelito disperato alla comunicazione. Noi ci proveremo nella speranza di non offendere nessuno, di non ferire nessuno nella motivazione profonda che lo spinge sull’orlo della pagina bianca, ma nella convinzione che una poesia o un qualsiasi altro testo si pone intrinsecamente come dono (anche quando muove da una condizione di indigenza e reca in sé un appello umano) e perciò, nel momento stesso in cui si fa dono, smette di appartenere a colui che lo porge, esce dal nido di urgenze nel quale è germogliato per compiere la propria strada, nella quale si farà tramite di risonanze che non si potevamo nemmeno immaginare. Non c’è da stupirsi, in poesia – e non solo in poesia – che un lettore acceda, per il tramite di determinate parole, a dimensioni sconosciute all’autore stesso: è questo uno dei grandi misteri dell’arte, specie se intesa come luogo di insorgenza di senso, come aurora della conoscenza (estetica) e non come inganno intenzionale, oscurità fine a se stessa, mero dispositivo da destrutturare per attribuirgli “qualsiasi” significato.
Ma andiamo oltre.
E partiamo dalle cose semplici, da ciò che sembra banalità. “Ciò che è in alto – dice l’Imitazione – non si regge senza ciò che è in basso”.
Qual è il primo indizio che suggerisce di trovarsi di fronte a un testo poetico?
Immaginiamo di dover sistemare una biblioteca e di dover separare i libri di poesia da quelli di prosa. Ne riceviamo uno fra le mani; il titolo, l’autore e l’editore non ci dicono assolutamente niente. Lo apriamo a caso, e vediamo che le righe del testo sono interrotte, che vanno “a capo” prima della fine della pagina, che ci sono molti spazi bianchi. Decidiamo istantaneamente di porre il libro sullo scaffale della poesia.
Il verso, dunque, è un primo indizio di poesia. Si badi: “indizio”, perché noi, non completamente sprovveduti, sappiamo che non tutto ciò che è in versi è poesia o tutto ciò che “non va a capo” è prosa.
Banalità? Provate a pubblicare la poesia di un amico andando a capo quando pare a voi. Se non perderete il vostro amico, vi sentirete per lo meno ammoniti per non avere inteso le ragioni profonde che guidano la scelta di andare a capo in un preciso punto della frase e non in un altro. Tutti coloro che hanno un rapporto di minima vicinanza con la scrittura intuiscono l’importanza di questa “strategia comunicativa”, che solo in apparenza è mera convenzione tipografica.
«Ogni verso è “versus”, vale a dire ritorno. In opposizione alla prosa (“prorsus”), che procede linearmente, il verso torna sempre su se stesso» (Jean Cohen, Struttura del linguaggio poetico, Bologna, Il Mulino 1974, p.76) Verso deriva dal latino vertere, volgere, e significa “voltata”. Tra l’altro, siccome la voltata è caratteristica dell’aratro alla fine di ogni solco, in latino versus significò anche “solco”, “filare”.
Le conseguenze di questa operazione sono notevoli e ogni poetica, anzi, deve dare una risposta a questa pratica. Ogni autore deve avere delle motivazioni, consce o inconsce, semplici o complesse, per la propria versificazione. Nessuno scrive poesia andando a capo arbitrariamente, nemmeno chi crede che la versificazione non abbia senso e dunque segue, coscientemente, una insensata (meglio: casuale) disposizione verticale del testo (dà, cioè, un risvolto pratico-ideologico e non linguistico-estetico alla versificazione). Il filosofo Carlo Sini, per esempio, vede in quel “tornare su di sé” della frase un rimbalzo sulla scrittura dell’oralità primaria, ovvero l’insorgenza di un modo diverso di pensare, che supera il principio logico di non contraddizione imposto dalla linearità della scrittura. (Chi voglia approfondire l’argomento può riprendere la relazione di Sini contenuta nel volume La poesia e il sacro alla fine del secondo millennio che uscirà a giorni presso la Casa Editrice San Paolo [1996]).
Rileggiamo un altro, celebre passo di Cohen dallo studio citato. «Prendiamo una frase di prosa la più banale, per esempio un’informazione qualunque stralciata da un giornale: “Ieri, sulla Statale sette, un’automobile, correndo a cento all’ora, ha cozzato contro un platano. I quattro occupanti sono rimasti uccisi”. Spezziamo ora il parallelismo e scriviamo questa frase così:
Ieri, sulla Statale sette
Un’automobile
Correndo a cento all’ora ha cozzato
Contro un platano
I quattro occupanti sono rimasti
Uccisi.
Evidentemente, questa non è poesia. Cosa che dimostra chiaramente come il procedimento preso isolatamente, senza l’aiuto di altre figure, non è in grado di costruirla. Ma, diciamolo pure, non si tratta già più di prosa. Le parole si animano, la corrente passa, come se la frase, solo in virtù del suo taglio aberrante, stesse per risvegliarsi dal suo sonno prosaico» (p. 95). Dalla “dormiente” modalità di pensiero cosiddetta “razionale”, che governa le nostre comuni azioni e i dialoghi spenti della quotidianità, si risolleva una parola, un’idea, un’immagine, una figura musicale che accende, rimette in movimento dentro di noi un flusso di senso che saprà, trascinandoci con sé, cambiarci, stupirci, far cadere da noi un po’ di polvere e ricordarci la ferita dell’esistenza.
Ma lasciamo che questi pensieri acerbi maturino a tempo e luogo, e torniamo alla concretezza del testo. Proviamo, ad esempio, a motivare un’altra possibile versificazione della nostra ipotetica notizia giornalistica. Più correttamente: proviamo a pensarla con un altro ritmo; proviamo a dare un’altra configurazione alla “musica di pensieri e di immagini” di cui è fatta. (Propongo e cerco di motivare quelle che sarebbero le mie scelte, cioè i criteri che guidano la mia limitata “sensibilità” o “educazione” estetica, da accogliere, lo ripetiamo, come provocazione a pensare da sé, cioè non come norma, ma come modello)
Personalmente, sento una voragine, una pozza di silenzio nel primo verso, dopo “Ieri”. Credo sia dovuta sia all’interazione col piano semantico (nel verso si distinguono due nuclei informativi: 1. “Ieri”, informazione di tempo; 2. “Sulla Statale sette”, inf. di luogo) sia all’interazione col piano che potremmo chiamare “musicale”, o ritmico. Esordirei, cioè, già con tono tragico, sospeso, e quindi con un verso breve, ungarettiano:
Ieri
La mia scelta è forse dettata anche dal fatto che un simile inizio pre-figura, ovvero anticipa – proprio per la tonalità grave – quello che poi sarà l’ultimo verso (“Uccisi”). (C’è una misura anche nella varietà; c’è un ritmo anche nel verso libero…)
Proseguirei, poi, accelerando, e cioè facendo scorrere le parole in versi più lunghi:
Sulla Statale sette
(e mi accorgo che ho a che fare, manco a dirlo, con un settenario.)
Un’automobile
(un quinario che rallenta, dopo l’accelerazione del secondo verso)
Evidenzierei poi il settenario “Correndo a cento all’ora”, senza però separarlo troppo dal sintagma verbale “ha cozzato”, che viene finalmente a darmi la notizia fondamentale concernente l’automobile, a rendere cioè sensata l’introduzione del soggetto principale (fino ad ora potevo domandarmi: “un’automobile… Un’automobile cosa? Che cosa c’è stata a fare un’automobile, sulla statale sette, ieri, che possa riguardarmi?”):
Correndo a cento all’ora
. ha cozzato
(la spezzatura del verso tende quasi a esasperare l’attesa della notizia di cui necessito e a riprodurre il trauma che il verbo “cozzare” in qualche modo implica).
Per il resto, terrei la versificazione ipotizzata dal Cohen (con il bell’“a capo” dell’ultimo verso, dove quel “rimasti”, che chiude un endecasillabo “irregolare”, cioè con accento in quinta, si sporge davvero su un ciglio vertiginoso, su una pausa innaturale e violenta), lasciando semplicemente uno spazio bianco prima dell’ultima frase.
Rileggendo il testo così ottenuto, sento tuttavia che ci sono ancora troppe spezzature, che dove volevo provocare (meglio: sentivo più sensata) un’accelerazione ritmica le parole sfilano ancora troppo lentamente e non arrivano a “cozzare” nel verso centrale con sufficiente forza d’urto. Unisco perciò il secondo e il terzo verso (ottenendo, tra l’altro, un endecasillabo). Il risultato finale è:
Ieri
Sulla Statale sette un’automobile
Correndo a cento all’ora
. ha cozzato
Contro un platano
I quattro occupanti sono rimasti
Uccisi
(Per inciso: abbiamo detto che il primo “verso” era grave, ungarettiano, tragico: sia chiaro che la tonalità non è data solo dal numero delle sillabe, ma dalla collaborazione tra il piano metrico-ritmico e il senso della frase…)
Questa operazione non mira a far diventare poesia ciò che non lo è né a ridurre tutti i piani che agiscono nell’elaborazione artistica a questo soltanto, ma a far riflettere sul fare poesia, sul senso misterioso di una pratica di scrittura che appassiona moltissimi e che, anzi, cambia la vita a molte persone, fino a rivelarsi una modalità autentica per rendersi uomini, per guardare e attingere con sguardo diverso all’esistenza.
Dunque, il lavoro che vorremmo iniziare in queste pagine non è, se non all’apparenza, arido e intellettualistico. Cercheremo di mettere le mani nella creta delle parole con il massimo rispetto verso l’intenzione che le ha mosse (segreta o palese che sia), consapevoli, però, che maggiore è la bravura dell’artista e maggiore sarà, come diceva Eliot, la distanza tra il cuore che soffre e la mente che crea. Quando si scrive, ci si abbandona, utilizzando tutti gli strumenti in possesso senza pensare ad essi ma al senso, all’urgenza del gesto, esattamente come un buon pianista non penserà più ai tasti, ma alla melodia. La poesia, diceva Montale, cresce spontanea in un sottobosco coltivato. Tuttavia niente è perfetto all’origine e anche per scrivere bene bisogna avere, oltre che delle forti motivazioni e dei validi contenuti, un’adeguata abilità tecnica. E questa la si impara con pazienza e passione.
È la prima volta che leggo di pratica di poesia ( di un suo aspetto) , scritta in modo così diretto e funzionale. Per dire: la spezzatura del verso (ho cozzato). Ovviamente mi è capitato di vederlo utilizzato nelle poesie, ma mi chiedevo a che servissero. Molti anni fa mi sembrava decisamente un vezzo, a volte ho avuto il dubbio che questa forma visiva fosse inserita perché il verso non stava nella giustezza della colonna prestabilita, e allora il fotolitista si trovava costretto a utilizzare questo stratagemma, che ho pensato fosse convenzionale…col tempo, a fronte del fatto che di spazio invece ne avrebbe avuto per continuare il verso, mi sono dato come spiegazione che tornare indietro con l’occhio avrebbe richiesto troppo tempo e avrei perso il contatto con la fine del verso precedente, dal quale doveva stare però staccato, ma non troppo . Beh, non ci ero andato lontano. Solo che lo so davvero adesso che ho letto questo articolo. Prima era nel gas. E allora ecco la novità, una nuova arma: quando mi ritrovo con degli snodi all’interno di una poesia in cui una virgola è troppo poco, ( ce ne vorrebbero come due in fila) ma un andare a capo è decisamente troppo ( lontano), trac, la spezzatura del verso. Si chiama così. Fantastico. Grazie.
Sulla questione degli accenti e il numero di sillabe da cui è formato un verso: è un aspetto molto più complesso, puzza di scuola e sono già sulla difensiva. Mi occorre un libro di grammatica, ma aspetto a comprarlo o rischio la noia.
Caro Massimiliano, magari un po’ di lezioni di versificazione le scriverò o registrerò anch’io, su questo sito. E’ una dei tanti argomenti che mi piacerebbe/servirebbe trattare.