La poesia di Franco Acquaviva
È da poco uscita la raccolta d’esordio di Franco Acquaviva, edita da Ladolfi Editore. Si intitola Teatro nelle fibre del corpo e già questa sigla è una dichiarazione di poetica. Franco è un caro amico e in questi anni ho avuto modo di conoscerlo. Mi ha tirato però un brutto scherzo chiedendomi di introdurre il suo libro, per due buone ragioni. Anzitutto, proprio la vicinanza crea spesso un’interferenza, anche se, ovviamente, concede pure certi vantaggi. Ma, soprattutto, io odio le prefazioni e non credo di saperne scrivere di particolarmente adatte. Non ho saputo, comunque dirgli di no, quindi mi sono cimentato in questo ruolo ingombrante. Fatto sta che il suo libro è proprio bello e meriterebbe attenzione: se non riescono, le mie parole, a suscitare il vostro interesse, sono certo che ci riusciranno le poesie che ho scelto per farvi tastare la qualità dell’opera.
(L’opera scelta come copertina – cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa – è di Giuliana Iannotti)
L’ESILIO, LA PATRIA E UN’ALA DI GABBIANO
Franco Acquaviva da tempo ha messo radici in una terra di laghi e di montagne, i cui silenzi furono forgiati e resi aspri dai colpi di scalpellini prima e, in seguito, dal più assordante, ritmico rimbombo di stamperie e di rubinetterie. Sono terre abituate a questa durezza: l’incanto del lago d’Orta non è disteso, turistico, come quello del lago Maggiore, appena sull’altro versante delle alture prese a dimora dall’autore: è pronto a chiudersi, a incupirsi in varie tonalità di grigio. E anche quando il cielo si apre, la durezza dei ghiacciai domina sopra ogni cosa e il tempo raramente si cesella in giochi di azzurri e di verdi. Anche il cielo, anzi, qui è addestrato a essere duro come la selce: «Come un tetto di basalto che si sposti / tutto il cielo pare scorrere sul capo».
Franco è giunto a queste terre, immaginiamo, ripercorrendo «sentieri di capre» non troppo dissimili da quelli su cui lo stesso Dante, nel mirabile discorso di Mandel’štam, ha dovuto mettere alla prova la propria andatura, umana e prosodica. Malgrado l’improvvisa, straziante bellezza della natura che ancora straripa in questi luoghi, non c’è idillio in quelli che si rivelano essere un «cantiere perenne, ostile…»; piuttosto, c’è una pace tesa, combattuta, come di chi avesse imparato a trasformare l’esilio in patria, nella terra dei padri. Si veda nelle pagine che seguono, in tal senso, il richiamo costante agli antenati, ai morti, alla memoria delle genti di cui il paesaggio resta intriso – ma anche ai figli, naturalmente, perché il filo della civiltà non si spezzi: «Non chiamarli figli, ma incantatori; / loro hanno tessuto questa tela intorno / sta a te tenerla tesa, non disfarla, / controllare che il loro peso sia accolto / ogni giorno con levità, vegliando».
Dante, Mandel’štam… Prima di giungere qui, l’autore ha percorso un viaggio sicuramente lungo, fisicamente e idealmente, tanto che la Russia si rivela sorprendentemente appena dietro l’angolo, nelle sue memorie, come se a quelle latitudini, tra fine Ottocento e i primi del Novecento, si fosse vissuto un periodo mitico, per il teatro certamente – il principale interesse dell’autore – ma per l’umanità in generale. I richiami alle esperienze di Vachtangov o a Treplëv, personaggio di Čechov, sono qualcosa di più che reminiscenze o omaggi intellettuali. Sono indizi sintomatici, alterego nel tempo e nello spazio chiamati in questi versi a portare testimonianza.
Non si creda che a spingerlo a fermarsi su questo confine sia stato il sogno di una missione civilizzatrice. Da decenni, è vero, egli insiste tenacemente, testardamente a proporre con il suo Teatro delle Selve, malgrado tutte le difficoltà di natura sociale (ovvero economica e politica), forme di avvicinamento a un pubblico ancor più ostinatamente arroccato nel dualismo lavoro-svago, sistole e diastole vitale che impongono asservimento al dovere e intrattenimento come due lati connessi di una medesima assuefazione alla realtà o allucinazione esistenziale. Tale impegno è infatti soltanto il corollario, rispetto alla presa di posizione netta che Franco Acquaviva ha compiuto e di cui ci parla proprio in questo libro.
Egli ha affidato infatti al linguaggio della poesia, così assoluto, così oppositivo rispetto al fascino ipnotico della narrazione (che ci costringe a spendere il tempo linearmente verso uno sbocco conclusivo) il suo messaggio intransitivo, forse paradossale. E qui diventa utile, appunto, il testimone chiave: «Il non-teatro di Treplëv starà lì / a testimoniare da più di un secolo – / e qualcuno voleva ancora lo spettacolo». Ecco, mi azzardo a interpretare in questi termini il nucleo irradiante che i versi di questo libro circoscrivono, rivelano e proteggono: teatro è mostrare, non nascondere. Per quanto le maschere inducano sempre al riso, per quanto la gente si attenda il palco e la distanza rassicurante con la scena allestita a suo uso e consumo (passivo), l’arte non può adagiarsi in questa postura viziosa, ma la usa per infrangerla, più o meno esplicitamente, per avvitarsi e staccare improvvisamente i tiranti su cui si regge ogni metafora, predisposta perché vi sia, infine, la (ri)scoperta del mondo, della natura, nella sua ammutolente evidenza. Lo scatto da compiere è nella marionetta che prende vita, in quel linguaggio che «non dice eppure profetizza»: paradossale afasia del poeta che, con il suo silenzio, offre la verità, la mostra. Poesia che diventa teatro. Finzione che si fa evento. Scrittura che si appercepisce come gesto concreto.
Talmente concreto che non sorprenderà affatto il piglio civile che in talune sezioni del libro diviene predominante: ma non c’è risentimento acre, rivalsa, nel tono di questi versi. Del resto i poeti «avvisano la specie» delle catastrofi che si annunciano attraverso i dettagli che la loro sensibilità sa cogliere. C’è semmai, quindi, nell’atteggiamento di questa poesia, la ferma opposizione, la pacifica resistenza che può modularsi anche in qualche nota di sarcasmo, ma ogni titanismo romantico, ogni retorica d’eroismo, al fine consolatoria, qui è già bandita. Come è stato possibile raggiungere questo risultato, in un’opera prima? Il fatto è che l’autore giunge esplicitamente alla poesia dopo un lungo percorso e se le diverse movenze stilistiche che si intrecciano nei suoi versi tradiscono un rapido, accelerato percorso di sperimentazione, si percepisce pure, allo stesso tempo, come il poeta provi e accordi il proprio strumento alla luce delle precedenti esperienze, come se fosse finalmente giunto il momento di rendere esplicito un legame genetico finora taciuto. Poesia e teatro, ancora una volta dunque, si ricordano l’uno dell’altro e si ricongiungono qui come fratelli dispersi nelle loro reciproche avventure.
La verità dunque è questa mancanza di sbocchi consolatori, questo stare qui verticali, intransitivi, a rendere ragione dei luoghi, della vita più grande che ci circonda e ci sovrasta. I nostri commerci, i nostri affanni, il nostro rincorrere chissà che, trovano nelle opere d’arte dei blocchi, degli ostacoli. C’è chi è abituato e si destreggia nel superarli senza nemmeno farci più caso, in uno slalom utilitaristico che li porterà rapidamente a tagliare il traguardo. Ma di tanto in tanto qualcuno ci sbatte contro, è costretto a prendere in mano un libro, viene inquisito da una tela, deve reagire a un attore che si rivolge a lui direttamente. E questi intoppi salutari potrebbero indurlo a sbagliare strada, a finire fuori pista. Prima di darci nuovi punti di orientamento, l’arte deve necessariamente disorientarci, magari costringerci a perderci in una selva oscura – che potrebbe anche celarsi in qualche anfratto di queste terre splendide, se le si ripercorre sui sentieri delle capre, con il ritmico picchiare, in sottofondo, degli scalpellini, fino a trovare uno specchio azzurro che ci stordisce, nel gioco di capovolgimento tra l’alto e il profondo, tra le acque terrestri e i vapori celesti. Se, in questi casi, confusi tra epifanie del sublime in mezzo alla desolazione, all’immondizia, all’insensatezza di tanta vita moderna, finissimo a scorgere un guizzo bianco, come l’ala di un gabbiano, non bisognerà credere a un’allucinazione. Quel gabbiano c’è davvero, esplora all’avanguardia ogni luogo. È fermo, è già stato ucciso infinite volte e lo tengono imbalsamato in mille salotti, ma resta imprendibile, vivo, inutile e guizzante. Come la poesia. Come Dio. Come la vita.
* * * * * * * * * * * * * * *
Il mio teatro s’infoglia e sfoglia
nelle distese appassite che chiamiamo ottobre
non s’inalbera cerca il ramo spoglio
il canto già staccato e sceso al suolo
teatro della terra e del ricanto
prepara il racconto degli impasti
che animali vermi e versi, i loro pasti
preparano in attesa della mano
che ogni giorno li risveglia e veste e incanta
nella luce crivellata del giardino.
*
Leggerò a voce alta
sussurro di mare
impennata di cima radiosa
tutte le parole che mi darete
capirete da voi – forse
per qualche segno che non svelo
se l’aria delle frasi dette
sarà più tesa di ciò che taccio
come il vento sulla vela –
e se il non detto farà da scena
al teatro delle viscere contratte.
*
Di questo precipitare di colline
il lago sembra disfarsi;
nella conca afosa lontana
solo rade vele condensano
la luce – il resto è
un’evaporazione di atti
verso la verità della stasi.
*
O mio guru che stai al fondo
delle parole e scalzi a poco a poco
la mia inettitudine
fa’ che non ripiombi la mia inerzia
sopra il lavoro ancora da fare
che il barlume di coscienza che
la notte mi ha donato e forse i sogni
e l’esilio verde non si spenga
guru caro
anche in assenza di me.
*
Questa cura di cose che vanno
e vengono immagini postate
sembra una cura del corpo
quando al mattino ti specchi
e cerchi la luce che rifletta
il tuo lato migliore lo sguardo
più vivido; ci si sposta
tra un post e l’altro come fra tanti nomi
di sé tutti diversi…
Si fa
dichiarazione universale di sé
a scomporsi in immagini;
immaginare il corpo intero
invece è già ricostruire
ritrovare la piccola parte di terra
che premiamo sotto i piedi.
*
Questo accalcarsi di case
e il sorriso imperturbabile della dea
sull’isola di fronte dove l’affaccendarsi
di pescatori impietrati nei muri
anime che si danno al lago
a pochi metri da colei che ampia
abbraccia con la fronte
illuminata dall’arancio delle luci
il breve tratto d’acqua – specchio per chi
scorge nei battellini ancorati
la disarmonia del secolo-acciaio
per chi scava nel profilo antico
di ogni linea o curva la vena d’acqua
del proprio fluire fuori dal tempo
col sorriso imperturbabile della dea.
(Se tu mi dai, o desktop, questi piaceri
come lontano dalla vita posso io
sperare di trovare nella vita un identico
piacere?)
*
O medico di montagna sano d’albero
che pure conosci le linee della città
le cacofonie dei rami del tram
i fragori della metro le serenate
storte sui sedili i cantieri eterni
i buchi nel soffitto le volte diacce
che l’attesa sotto il portico si allunga
e intorno c’è solo un quanto di densità
popolare al culmine della consistenza
intorno c’è solo esistenza cellulare
accelerata dal sabato e le guglie
che colmano il cielo – e le voglie,
fammi il calcolo delle probabilità
rubami un pezzo di dignità dimmi
di che vita sia in attesa la mia morte.
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