I poeti sono tutti pazzi
(L’opera scelta come copertina – cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa –
è di Maurizio Milanesio. La riproduzione è vietata)
Il mio romanzo, che intreccia varie storie d’amore, dominate da due vicende, una relativa a una coppia di sposi senza figli e l’altra con protagonisti due giovani, si apre con un prologo e si chiude con un epilogo, che rispetto alla storia si pongono come delle specie di ali, in cui si sviluppano dei ragionamenti sull’attività poetica. Vi propongo qui di seguito il Prologo.
Dove si allerta il lettore intorno al male della poesia e alle follie degli scrittori, mettendolo duramente alla prova, per iniziarlo alle amene vicende del presente libro
E va bene, se proprio Leopardi non vi è sufficiente quale emblema dell’infelicità umana, causata dal genio e dalla sensibilità poetica, e siete propensi a risolvere la faccenda a una questione di piccole deformità che per fortuna non scorgete nel vostro specchio al mattino, pensate alla compagnia brusca degli scapigliati, pandemonio del secolo decimonono, tutti dediti a sesso alcol e poesia, con Emilio Praga morto a trentasei anni corroso dalla “fatina verde”, ovvero il distillato di Artemisia absinthium che tracannava a bottiglie con Giuseppe Rovani sulla soglia del Caffè Gnocchi a Milano. Se invece siete tipi tranquilli, volgete un pensiero a Pascoli, con il padre morto ammazzato quando aveva dodici anni, seguito dalla madre, dal fratello e così via, in una lunga litania di lutti che finì per impedirgli di costruire uno straccio di vita affettiva. Anche Gérard de Nerval perse la madre da bambino, e non si riprese mai dal trauma: smarrita la ragione, si impiccò in una strada di Parigi. Sarebbe sempre e solo questione di malasorte? Guardate allora a Hölderlin, che a trentaquattro anni impazzì e visse quasi per altri quarant’anni in una torre sulle rive del Neckar. Se invece voi preferireste morire per nobili ideali, in paesi lontani e mitici, diciamo in Grecia, rammentate la vicenda di lord Byron, abbandonato dalla moglie quando scoprì il suo rapporto incestuoso con la sorella. Sorte non dissimile, peraltro, capitò alla sorella di Trakl, quel poeta che toccò con mano l’orrore assistendo da solo a un centinaio di feriti gravi della battaglia di Grodek, durante la Grande Guerra, tanto da tentare subito il suicidio. Lo salvarono, ma per poco: a ventisette anni trovò pace con un’overdose di cocaina. Baudelaire invece preferiva l’hashish, che gli permetteva di fuggire dalla miseria coltivando il culto della bellezza, in mezzo a propositi suicidi e relazioni torbide con attricette per bene (ma anche lui chiuse il cerchio della sua esperienza, dopo lunga agonia, spirando fra le braccia dell’amata madre). Maledetto per maledetto, Rimbaud fuggì lo stomachevole perbenismo della sua educazione senza fermarsi all’alcol e alla vita sregolata: a vent’anni abbandonò anche la poesia e se ne andò a vendere schiavi in Africa, dove perse una gamba e a soli trentasette anni la vita, portando a compimento il suo progetto di autodistruzione. Se non altro, direte, avrà contato su qualche amico, come quel Verlaine che, fresco maritino, preferì lui alla moglie, facendosi contagiare dai suoi deliri, salvo reagire a revolverate, quando capì di non poterlo seguire fino in fondo. Ma non bistrattiamo il povero Verlaine, che ebbe il merito di riscattare dall’oblio quel tapino di Tristan Corbière, che i vicini di casa soprannominavano l’Ankou, lo spettro della morte, tanto era magro e dinoccolato. Non sapevano che aveva avuto un’infanzia terribile ed era malato di reumatismo articolare (morì non ancora trentenne), ma forse anche di altro, visto che era amante di travestimenti stravaganti e fu capace di partecipare a un carnevale romano portando al guinzaglio, davanti al Papa, un maiale travestito da vescovo. Tutti disadattati da internare, vien da dire. E in manicomio Alda Merini assaggiò più volte l’elettroshock, quasi fosse un incentivo per raggiungere stati di ispirazione pari a quelli dovuti agli allucinogeni. In una clinica psichiatrica poté riposare i suoi piedi di instancabile vagabondo Robert Walser. In manicomio morì quell’italico maledetto, e poeta dei due mondi, che rispose al nome di Dino Campana. Dal manicomio quel geniaccio politicamente insopportabile e delirante di Pound uscì grazie a Eliot, che pare debba molti spunti della sua Terra desolata alla moglie, altra alterata psichica. Del resto, dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna. Chiedetelo a Sylvia Plath, che sposò un poeta famoso (Ted Hughes, che poi le preferì la moglie di un altro collega) e quindi morì suicida a trentun anni, infilando la testa nel forno a gas, dopo aver scritto l’ultima poesia e soprattutto preparato pane, burro e latte per la colazione dei suoi bambini. Era l’11 febbraio 1963. Lo stesso giorno, trentatré anni dopo, si suicidò Amelia Rosselli, figlia del famoso antifascista Carlo Rosselli assassinato in Francia. Le autorità sovietiche invece se la presero direttamente con Marina Cvetaeva, altra depressa che abbracciò la morte volontariamente. Come Antonia Pozzi, che scelse i barbiturici, o Anne Sexton (amica della Plath, con la quale seguì anzi un corso di poesia di Robert Lowell, altro scrittore, indovinate un po’?, segnato dalla follia), che pose fine alle sue cadute in depressione intossicandosi con il monossido di carbonio nel proprio garage. Entrambe avevano avuto rapporti difficili con i genitori; la seconda forse subì un abuso sessuale. Ma non è detto che tutti abbiano la forza di compiere gesti estremi. Emily Dickinson a venticinque anni decise di rinchiudersi nella sua camera al piano superiore della casa dei suoi genitori: non uscì da lì nemmeno il giorno del loro funerale. Scelta originale e femminile? Vladimir Holan fece lo stesso, autorecludendosi nella sua casa nell’isola di Kampa (Praga). Clemente Rebora, invece, in preda al proprio delirio d’eternità si fece rosminiano con il voto segreto di “patire e morire oscuramente, scomparendo polverizzato nell’amore divino”. Qualcuno potrebbe chiedersi dove stia la differenza. Vita ascetica fece a suo modo per un certo periodo di tempo anche Carlo Michelstaedter, evitando quasi di toccare cibo e dormendo per terra. Ma era già, a ventitré anni, agli sgoccioli: con sé teneva la pistola che si fece consegnare da un amico in occasione di un precedente viaggio in Argentina: chiese a quella stessa arma di fargli raggiungere il fratello e una sua amata, altri trapiantati nel settimo cerchio dell’inferno. Al momento della morte Artaud, seduto di fronte al letto, teneva invece in mano una scarpa. Il decesso si dovette a una dose letale di chloral, un farmaco (da anni entrava e usciva da diverse cliniche), ma c’è da scommettere che se il poveraccio, psichicamente rovinato da una meningite grave a quattro anni, avesse potuto scegliere, avrebbe preferito ricorrere alle virtù del Peyote, cactus ben noto agli sciamani dei nativi americani. Chissà, magari qualche viaggetto interiore in suo onore lo compì Henri Michaux, devoto della mescalina.
Non vi basta ancora? Dovremmo parlare di Rilke, un altro inquieto vagabondo borderline, o di Gozzano, che morì poco più che trentenne di tisi, o di Pavese, che, schiacciato dalla solitudine, si uccise poco più che quarantenne in una camera d’albergo? Sandro Penna invece ce lo immaginiamo gentile come un angelo mentre ci sorride effeminato, con la bocca devastata dalla piorrea, in mezzo alla puzza di piscio e di merda cui si abbandonò. Pasolini, altro “diverso” e anticonformista per eccellenza, morì ammazzato da un “ragazzo di vita” suo cliente, sempre che sia andata solo così… Paul Celan a cinquant’anni si gettò nella Senna. Attila József, schizofrenico, preferì distendersi sui binari a trentadue anni.
Basta, fermiamoci qui. Adesso i lettori che hanno resistito all’elenco meritano una storia graziosa e divertente. Naturalmente, si tratta di una vicenda vera, verissima, quasi inventata. Ne vedremo delle belle.
Resta da capire, comunque, perché ci siano così tante persone che ancora oggi si dannano l’anima pur di diventare poeti famosi, cioè squinternati-morti-di-fame. E sarebbero anche capaci di tutto, c’è da crederci, pur di raggiungere il loro scopo.
Mah.
Le due cose secondo me non sono collegate: suicidio pazzia e tossicodipendenza e compagnia bella da una parte e successo dall’altra. Sono collegate solo se si parte dal presupposto, secondo me errato, che esista un collegamento a priori, che qui viene suggerito e che trovo altrettanto errato e con conseguenze che potrebbero risultare nefaste per i giovani ( poeti?): il poeta per essere tale pare debba essere marchiato dal dolore, altrimenti il gioco risulta falso. E’ più corretto per me pensare ed eventualmente professare che un poeta, anche uno dei tanti citati, era tale nonostante la sua malattia, non grazie ad essa. La causalità qui manifestata è solo presunta e a mio parere più dannosa che vantaggiosa.
Esistono biografie di tante persone sconosciute, affette dalle medesime patologie, dipendenze, anche ben peggiori, il mondo ne è pieno, le stazioni, le piazze, le cliniche…sono malate senza che queste malattie abbiano fatto di loro dei poeti ma solo degli anonimi disgraziati, con un qualche valore per i propri cari diciamo. Domanda: valgono di meno le loro malattie? Non credo. Soffrivano forse meno? Non credo proprio. Bisogna fare attenzione perché di questo passo si rischia al solito di sacralizzare il dolore, di renderlo bello, di renderlo desiderabile e necessario. Si declama il poeta come l’anello di congiunzione tra questo mondo e un altro.
Quindi solo il loro dolore è sacro, perché solo loro sanno soffrire, il nostro di dolore non vale nulla. Allora guardiamo i giovani, che convinti di questo maledettismo, un bel giorno davanti al burrone non sapranno bene che fare: hanno seguito alla lettera tutto il programma per far parte della cerchia desolata, perché la Letteratura è sul ciglio del vuoto che ti porta no?, ma dopo? Dopo sono affari tuoi. Quindi no, a mio parere collegare i poeti alla malattia di vivere in generale è lasciare dedurre che questo binomio sia inscindibile e che la poesia possa nascere solo a questa condizione.
La poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” sarebbe meno potente se il poeta le fosse sopravvissuto?
Sì può rispondere anche sì, ma mi piacerebbe che mi fossero spiegati i motivi.
Riguardo alla fama che viene cercata attraverso la poesia. La domanda diventa legittima, ripeto, sulla base di una distorsione, ovvero dell’equivalenza tra poesia = disperazione.
Immagino che la poesia essendo un mercato debole è dir poco, forse ancora più debole della distribuzione dei semestrali di uncinetto per vestiti di bambole, sia allora la sfida ultima, assoluta, perfetta, per chi desiderasse, non tanto scrivere per pura necessità ( cosa vuol dire non lo so) ma per usare la poesia quale campo di battaglia sul quale finalmente poter perdere, non vincere. La sua povertà assicura la gloria del gesto e subdolamente fa credere al poeta, che ha fede nei sacri valori nichilisti, di essere una sorta di guerriero colmo di paura e nobile proprio per questo. In un certo senso, meno letterariamente, a livello di meccanismo, non si comporta diversamente da un qualunque giocatore d’azzardo che sfida l’universo ogni giorno con risultati catastrofici e una sola certezza: di essere un reietto. Tale immagine, tale programma, se è verosimile, da dove parte se non dall’inganno letterario che il poeta debba essere maledetto? Per spiegarmi meglio: intraprendere un percorso che presenti il minor grado di successo e la maggior probabilità di sconfitta, non è questo fa il poeta che vuole la fama attraverso la sua poesia? Egli non si vuole alla fine solo appropriare dell’immagine che lui stesso, poeta, ha del poeta in quanto mito? In linea di massima direi che chi sceglie la poesia come campo di battaglia per ottenere successo sceglie il campo ideale dove poter affermare se non altro il proprio fallimento. In questa affermazione ipotetica, di fallimento annunciato, non se ne ricava forse l’aspetto più tragicamente e squisitamente eroico? In questo modo non ci si avvicina ancora di più, non si incarna ancora meglio quell’ideale di perdita che il poeta pare ci voglia da sempre comunicare usando parole diverse? Di qui l’autodistruzione più o meno convinta, l’autocommiserazione, la testardaggine, l’inutile spirito ribelle adolescenziale, le pose, la saggezza ad ogni costo, la sciatteria narcisa, la posa intellettuale a oltranza …tutte caratteristiche che sono un attimo portarsele appresso anche ben oltre il giro di boa della propria vita. Parlo a chi crede davvero e in profondità al matrimonio con la mitologia del dolore. Parlo di questo inganno atroce e crudele insito proprio nell’arte, diciamo per semplificare, colta e alta.
Arduo dunque stabilire il confine se ciò che si scrive lo si faccia per necessità, visto che di un pubblico comunque se ne ha bisogno, inutile negarlo. Qui entra in gioco l’onestà personale di ognuno.
A tal proposito il peggiore dei mali per me rimane la mancanza di consapevolezza, e mi chiedo quante volte i poeti non debbano fare tesoro proprio di questa mancanza, quanti e quali mosse devono compiere per proteggerla, pur di non correre il rischio di vedere il sipario cadere, capire che il dolore può essere lenito, che una tossicodipendenza si può curare, o che magari le parole non siano mai bastate, o che non bastano più. Quante volte abbiamo conosciuto artisti in genere che invece rimuginano, come meccanismi rotti, in questo loro narcisismo rovesciato ben coltivato? Io abbastanza da farmene un’idea e concludere scrivendo: meno male che esistono numericamente parlando più “uomini organizzati” che artisti sofferenti.
Saluti.
Caro Massimiliano, quante cose vorrei scrivere per rispondere al tuo commento… Anzi no, rispondere non è il verbo giusto: corrispondere, dialogare, aggiungere… Non si tratta di persuadere l’altro intorno a una visione specifica, le cose vanno lasciate essere, nella loro perpetua e complessa danza che le rende loro stesse e sempre qualcosa d’altro. Credo che le mie precisazioni rispetto a tutto ciò che di assolutamente sensato tu stia dicendo io le dissemini un po’ ovunque in quel che faccio; ad ogni modo, restando con i piedi ben piantati a terra, mi sento di rilanciare queste considerazioni:
– quello che hai commentato non è un saggio, ma l’avvio di un romanzo! Non tiraci fuori una teoria, lasciala semmai saltellare, impertinente com’è, capricciosa e immatura se vuoi, tra il titolo di maniera che pone un serissimo birignao per deviare la voce, creare una distorsione (pur minima) alle parole, e il “Mah” finale, così bonario, ironico, saggiamente perplesso e distaccato…
– il dolore è il vero nostro maestro. Dolore è, spesso, il nostro schiuderci alla conoscenza. (Per fortuna, ovviamente, non solo il Dolore)
– anche i poeti sono uomini ordinati, organizzati, normali e normalizzati. Come tutti. Poi, però, a un certo punto arrivare la poesia… Come arriva l’amore a squinternare l’esistenza del più logico e organizzato degli uomini di questa terra.
– la poesia, o qualsiasi forma di arte, non consacra nessuno; un artista non è un uomo superiore. Solo, è un uomo ben avventurato dentro a un sentiero particolare. Io certe esperienze, certe dimensioni umane, le raggiungo grazie alla lettura e alla scrittura, soprattutto poetica. Altri le raggiungono tramite la preghiera, la riflessione, la contemplazione muta di un paesaggio, una condizione che si crea all’interno di una pratica sportiva… Togli la visione romantica, selettiva, insomma, e lascia andare in ogni direzione l’umano
– e tuttavia, detto, questo, almeno per quanto riguarda me e la mia esperienza, pur stando artigianalmente sul bordo della mia scrivania, mi accordo spesso di camminare sul ciglio di profondi abissi psichici.
Certo, magari è solo una mia illusione romantica. Sono vittima della mia cultura.
Magari no.
Perdonatemi l’intromissione. Personalmente ritengo che la poesia, come tutte le altre forme di arte, qualora diventi preponderante nella vita di un’anima, possa condurre alla follia ed alla disperazione. Non ci possono essere vie di mezzo. Tale disperazione può anche accompagnata da momenti di eccitazione, gioia profonda, misticismo. La poesia è anche chimica. L’anima è anche corpo.
Addentrarsi nei meandri della percezione, scoprire gli angoli più reconditi dell’animo umano, non può non destabilizzare emotivamente e turbare l’animo di un uomo. Almeno in questa dimensione.
L’uomo dappoco, ” i piccoli uomini” come vengono soprannominati in mandarino, non godono di questo privilegio e non soffrono di questa condanna. Scendere in profondità toglie l’ossigeno, sottopone a pressioni altrimenti inesperienziabili. Volare oltre le vette più alte acceca, inebria, rende inermi ed attaccabili. Bisogna essere abili o fortunati e saper gestire gli estremi. Camminare sul ciglio degli abissi psichici (citando Andrea) apre porte…entrare in questi luoghi può condurre alla vera perdizione.
Personamente ritengo che la poesia non sia un qualcosa che l’uomo incauto o impreparato possa tenere a bada.
I più fortunati sono morti mischiando sangue e vomito ad oscurità e luce, ma saranno ricordati per sempre.
La sfortuna è che non si saprà di essere cauti abbastanza o preparati abbastanza fino a quando non ci si presenterà al cospetto dei propri limiti…basterà poi poco però per perdere l’equilibrio…
“Basta poco per perdere l’equilibrio…”. Vorrei poter non concordare, ma mi piacerebbe trovare il modo di esprimere questa posizione senza creare un “esile mito”, senza “darsi un destino”, senza assumere una “postura romantica”. Anche per questo forse ho cercato di mettere il problema in un romanzetto. O, comunque, mi piace ricordare che i poeti non sono sempre poeti, lo sono solo quando la poesia li cerca. Il resto è mestiere, esercitazione dell’equilibrio, scrittura cautelata.
Il me non ricercato dalla poesia concorda.
Ecco, il sig. Francesco ha colto quanto secondo me incarna il mito del poeta, con tutta la sua epica del dolore e della follia. No, per me non è possibile parlarne affrontando la questione creando un nesso causale tra poeta e dolore cosmico, primo lo trovo un po’ scontato. Poi il romanzo non l’ho letto sia chiaro, se ho capito e’ in elaborazione, ma la sua premessa, a sè, porta proprio a questa distorsione, la fonda, perpetua anche la credenza, vivissima in tanti, che il poeta sia una sorta di sciamano; e ancora peggio che la poesia debba essere “sincera” ovvero, e qui c’è il caso limite, spontanea, nel senso di buona la prima o quasi.
C’è tutta una retorica del dolore poetico che vorrei vedere, per mano di qualcuno capace, sbriciolarsi e svelare, svelarmi, un legame inatteso, inusuale, trasversale. Magari questo romanzo saprà fare questo e altro.
Entro in punta di piedi in questo salotto letterario in cui non mi sento all’altezza ma desidero dire la mia. Quando mi laureai, parecchi anni fa, con una tesi su Antonia Pozzi, il mio relatore mi chiese se la sofferenza fosse elemento necessario e sufficiente alla produzione poetica. Tutti i docenti dell’alto consesso espressero la loro opinione senza arrivare ovviamente ad alcuna conclusione ma tutti continuammo a leggere poesia e non solo. Concordo con Massimiliano nel ritenere che non tutti i folli dipingono “I girasoli” e non tutti coloro che soffrono scrivono grandi opere tuttavia chi produce arte interpreta un bisogno universale in cui chiunque si può riconoscere magari perchè condivide un sentimento o un’esperienza con l’artista. Scrivere o esprimersi con altra forma d’arte è sempre un bisogno interiore, sempre che non si debbano pagare debiti di gioco o sfamare la famiglia, e l’elenco dei grandi autori che erano spinti anche da queste motivazioni sarebbe facilmente compilabile. Mi piace pensare che i poeti siano anche uomini organizzati e riporto le parole di una grande scrittrice, secondo me, Etty Hillesum, che nel suo diario del 7 ottobre del 41 scrive: “Una sensazione di questo genere: non raccontarti storie, bambina, i momenti “artistici” che sperimenti ogni tanto possono essere magari belli per farne un romanzo commovente,ma nella vita reale non vale non valgono nulla. Ed ecco la sensazione: l’uomo esprime i suoi momenti migliori soltanto nell’arte, non può viverli nella concretezza? La sensazione che c’è un mondo di sogno e un grigio, quotidiano mondo reale, e che sono inconciliabili. E io li voglio conciliare, voglio viverli entrambi nello stesso momento, e so che si può.”
Cara Monica, i tuoi interventi sono sempre preziosi, davvero. Se poi citi Etty Hillesum… Il fatto è – ma non riesco a spiegarlo bene – che l’abisso è sotto i piedi di tutti. I poeti non volano più in alto, non hanno privilegi, non escono dalla normalità. La normalità non esiste. La vita in cui siamo immersi, imbambolati dai nostri incantesimi (l’educazione, la lingua, la cultura…) sono cauterizzazioni della vertigine che ci risulterebbe insostenibile, se fossimo davvero sempre esposti alla verità. L’uomo non può reggere a troppa realtà, ricordava Eliot. Noi abbiamo bisogno di rendere grigia la vita, di normalizzarla, per sostenerla, per acquietarci dentro le nostre storie. Il poeta – come tanti altri, anche analfabeti – è uno che percepisce l’abisso e cerca di danzarci sopra con le sue parole, o di sprofondarci dentro, se preferisci. Ecco, l’insostenibile è a un battito dal cuore di tutti. La Presenza è tale mentre sorge dal Nulla che la fonda. Te lo dico in un commento a un articoletto, così, come fosse una battuta da “salotto letterario”, appunto. Così è già cauterizzabile, maneggiabile, citabile. Sta al poeta tradurre questa cosa in una visione, di tanto in tanto. Con tutta la gradazione che esiste: non ha diritto di cittadinanza solo la poesia tragica, per intenderci, ma anche la leggerezza della filastrocca. Non credo a Uomini eccelsi e a uomini dappoco – anche se, purtroppo, i “bruti” esistono. C’è spazio, in questo abisso, per tutti i colori. Si può essere semplici, certo, anche sopra questo abisso. Si può guardarlo, e naufragare dolcemente, senza nemmeno essere capaci di scriverlo. Si può persino giocare, con le ombre.
Andrea, una domanda: cosa intendi: “non ha diritto di cittadinanza la poesia tragica e la filastrocca” Grazie.
Caro Massimiliano, ho scritto “non ha diritto di cittadinanza SOLO la poesia tragica” proprio perché riconosco che la poesia in sé non esiste, esistono infinite forme di poesia. Se vuoi essere razionale parla di diversi generi e di diverse intonazioni: dalla poesia seria e tragica a quella più leggera, impertinente, senza pretese.
Nel momento in cui, come ho cercato di dire, rifiuto l’immagine del poeta eroe assoluto e interprete dello “spirito del tempo”, nel ventaglio delle varie possibilità della poesia io mi sento (perché questa è la mia esperienza) comunque più vicino a questa possibilità. La mia strada passa di qui – e poi vedremo che direzioni prenderà. Ho avuto, inoltre, come amico e compagno di strada Simone Cattaneo, che si potrebbe aggiungere all’elenco del prologo.
Ridendo e scherzando, poi, quel prologo richiama fatti reali. Senza farne una questione filologica, l’elenco è da prendere in considerazione.
(Il romanzo, comunque, è già scritto e pubblicato.)
ah ok, l’avevo intesa: NON ha diritto di cittadinanza SOLO la poesia tragica etc. le altre sì, lei no. Avevo capito male. Ma il libro qual è?
il prologo è serissimo, c’è ben poco da ridere.
Qualcuno, mi dicono, è riuscito a chiamare sorella persino la morte, e ad abbracciarla felice, ridente.