Tiziano Scarpa, scrittore avventato
Mi prefiguravo, una volta terminata la lettura dell’ultimo romanzo di Tiziano Scarpa, Il brevetto del geco, di lasciar decantare le mie impressioni ed eventualmente di discuterle con l’autore. Per varie ragioni, invece, licenzio questo testo appena scritto, quasi nemmeno senza averlo riletto. Sento che questa avventatezza corrisponde a ciò che il romanzo ha suscitato in me. Ci sarà comunque modo di riprendere, correggere, rintuzzare, se ce ne fosse bisogno. Del resto, siamo tutti parte di una creazione incessante.
(L’opera scelta come copertina – cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa – è di Arianna Angelini)
– Scrittori e scrittori –
Ci sono scrittori che gestiscono la propria opera e ci sono scrittori avventurati, persino avventati in qualche passaggio rischioso e creativo. I primi sono saltimbanchi che recitano la perdita di equilibrio, tranquillizzati dalle reti di salvataggio ben predisposte e collaudate; i secondi sono così attratti dai loro miraggi o obiettivi che non calcolano i profitti o i danni immediati e hanno a volte movimenti bruschi, scatti d’umore. I primi percorrono sentieri noti, i secondi ne creano di nuovi – a costo di perdersi.
Questa differenza non genera automaticamente un giudizio di valore. Si può essere un buon autore appartenente alla prima tipologia o uno mediocre della seconda. Inoltre, difficilmente uno scrittore si adegua sempre a una sola di queste possibilità. Talvolta è la materia stessa della narrazione che trasforma, obbliga a tentare soluzioni inedite. Ancora: persino la seconda postura si presta all’impostura: c’è una retorica della sperimentazione, una classicità dell’avanguardia, una posa della naturalezza, una disciplina del disordine. Credo tuttavia che tutta l’arte contemporanea non possa prescindere da questa criticità interna. Non esiste più un’arte spontanea: il simbolismo è una soglia irreversibile e anche laddove si miri al conseguimento di una naturalezza di secondo grado, l’arte avrà comunque interiorizzato quella riflessione su se stessa che è una prova di maturità, una soglia iniziatica. Al più, insomma, ci si può limitare a costeggiare questa parete, a seguire tale limite. Ogni romanzo, oggi, non può che essere anche un metaromanzo, in qualche modo.
Ciò non toglie che esistano ancora scrittori diligentemente composti, sapientemente obbedienti al genere o al tema assegnato. Autori che hanno accettato le leggi del Mercato e che, magari, si immaginano in grado di dominarle e cavalcarle, per sfruttarle a loro vantaggio.
Tiziano Scarpa non appartiene a questa categoria. Lo dimostra tutto il suo percorso e lo conferma il suo ultimo romanzo, Il brevetto del geco. Scarpa è un autore avventurato e a tratti avventato.
La riprova sta nel fatto che questa scrittura sbriciola le categorie con cui tentiamo di volta in volta di approssimarci al suo nucleo fondativo. Possiamo descriverla per assalti, brevi assedi, toccate e fughe – non di più.
– Vanità e vanità –
In ossequio all’ambivalenza già evocata nella Prefazione, il libro potrebbe ricadere tanto sotto una classificazione quanto sotto quella opposta (o quasi). Il brevetto del geco è infatti un libro realistico, ma anche fantastico; lineare, ma anche calvinianamente aperto al molteplice; distopico, eppure profondamente addentro al presente – e così via. Vorrei appena concentrarmi un poco su Federico Morpio, il protagonista maschile (cui si associa un altro protagonista, femminile appunto: Adele). Gli si potrebbero riconoscere tratti persino cinici, eppure è il personaggio in cui si manifesta più profonda la pietà. Lo si metta in rapporto al tema dell’amore o più esplicitamente della sessualità: è colui attraverso il quale il legame affettivo si mostra come condivisione intima dei propri lati peggiori, più che delle “maschere” decorose che cerchiamo di indossare di fronte al “mondo”. Eppure è il personaggio in grado di passare dall’autismo masturbatorio (rubo questa espressione a Giorgio Falco) allo slancio verso una paternità ideale: Morpio si offre alla donna che ama, mentre questa scopre, nella maternità appena iniziata, l’insensatezza del rapporto con il proprio compagno. Eppure, questo stesso gesto si rovescia nella mente del protagonista e da atto di pura generosità si prospetta come certificazione consolante da fornire alla coscienza.
Altre ambivalenze costitutive di Morpio: è l’artista più vero che si incontrerà nel romanzo, ma ovviamente non trova riscontri al suo talento. Arriva a capovolgersi, ad attraversare sé stesso e a rinunciare alla sua natura. Vince in sé ogni invidia, rinuncia sinceramente all’arte. Eppure, al di là delle vicende in cui resterà implicato, il lettore comprende che è proprio in quel momento che realizzerà compiutamente la propria natura, come se avesse finalmente smantellato le sovrastrutture che gli impedivano di dedicarsi senza compromessi all’opera (quindi, egli diventa artista quando è sinceramente indifferente a ogni necessità di riscontro sociale). Questo perché, fondamentalmente, si è artisti malgrado sé stessi. Si diventa autori quando si smette di impersonarne la parte, quando ci si dimentica di sé, quando si buca la membrana di quel simbolismo iniziatico che è l’autocoscienza intrinseca dell’opera. Si diventa autori, insomma, quando si smette di essere narcisi incompiuti e si affoga, si muore nella propria vanità – e la vanità, intesa come eccesso di amor proprio, diventa sapienza della vanità, ovvero percezione del proprio irradiante nulla.
– L’autore (?) e la felicità dell’arte –
Questo è un tema, una sofisticazione, un trucco retorico oppure è un tratto davvero distintivo dell’opera? Spostiamoci sull’autore per verificarlo. Chi parla, in questo romanzo? Tiziano Scarpa, nella prefazione, si dà per disperso, si offre come prestanome o garante. Compie ciò che Morpio aveva solo prospettato. Il romanzo parla infatti attraverso le parole stesse: sono loro che si dicono, che prendono forma, e si osservano e si descrivono in questo movimento creativo. Si permettono anche di gestire i tempi della lettura, dichiarano l’apertura di momenti di passaggio come si trattasse di camere per “depressurizzare” l’impatto con il testo. E ruotano attorno a una voce speciale, quella del misterioso Interrotto, che si manifesterà solo alla fine della storia, riprecipitandola al suo inizio. Tutto, dunque, è una sciarada, un gioco di specchi, un avvitamento intellettualistico, se a parlare è ciò che non è vivo, se a fondare la vita è la non-vita?
Il problema non è rispondere a questa domanda. Il problema è abitarla, perché una delle verità raccontate nel libro è appunto la natura non ambigua ma ambivalente dell’arte (e della vita). Perché l’esistenza è il mondo della possibilità e gli scrittori avventurati, a tratti avventati, sperimentano questo limite, vivono questa soglia. L’arte, nel suo stato nascente, è indecisa e indecifrabile, in bilico fra capolavoro e banalità, fra tutto e niente.
Al lettore serve la mia testimonianza? Se mi fermassi a questo punto, senza espormi in un giudizio sostanziale, rischierei di svuotare di senso questa analisi? In tal caso, non ho alcuna difficoltà nell’affermare che il lavoro di Scarpa a me suona del tutto sincero, credibile. Lo si percepisce nella lettura, quando, più volte, si avverte che il divertimento, la sorpresa, lo sfondamento di un limite (anche di buon gusto, anche di convenienze strategiche) non sono un vezzo, uno stilema, un capriccio di chi controlla il gioco, ma uno slittamento in cui l’autore cede il posto all’opera, la lascia germinare da sé stessa. Si tratta di una percezione sottile che richiederebbe una disamina minuziosa, che qui non mi interessa proporre; mi preme sottolineare che non è così semplice trovare autori che ti lasciano l’impressione, in tanti frangenti, di “essere in presa diretta”, di stare nel punto creativo, di dare continuità all’atto del concepimento – come se la storia prendesse forma davanti a te, raccontata in quel momento, da una viva voce. Il più delle volte, ripensandoci, senti che quel colpo di scena in quel tal romanzo era stato più o meno sapientemente preparato, che quella particolare stravaganza resta imprigionata, non è essenziale, è un’enclave cauterizzata. Percepisci insomma che tutto è una simulazione. Un tempo si usava invece parlare di “felicità dell’arte” per circoscrivere quei punti in cui spontaneità e sapienza strutturale collassavano l’una nell’altra, come in un’amorosa estasi. Ecco, nel Brevetto del geco si susseguono molti “passaggi felici”, che finiscono per formare una collana, anzi, si rinsaldano come vertebre a sostenere l’opera.
– Leggibilità –
Ma i lettori d’oggi non reggono a tanta verità, hanno bisogno di belle storie, di intrighi, di una dose calibrata di contenuti. E di fronte a questa esigenza (il libro, c’è bisogno di sottolinearlo?, parla anche di questo) l’artista può romanticamente infischiarsene e sprofondare nella propria grandezza e solitudine, oppure accettare la sfida del contemporaneo, difendere l’intransigenza costitutiva dell’opera ed evitare di bruciare quelle strutture minime che garantiscono l’esperienza di una lettura più semplice. Insomma, l’opera necessita, per esistere, anche del contatto con il pubblico, quindi occorre imprigionarne il nucleo entro un corpo rivestito di una membrana protettiva (che cos’è una forma, se non ciò che mostra nell’atto stesso in cui ricopre?). Così come l’opera prende il sopravvento sull’autore, essa deve rapire anche il lettore. In questa magnifica triangolazione si avvera, perché soltanto qui si crea quel campo di esistenza impersonale, anzi intersoggettivo, in cui il reale passa dalla potenza all’atto. In tal senso l’arte è, e rimane, fondamento di civiltà. (E mi viene da chiedere: non è che la triangolazione che si stringe infine fra Morpio, Adele e l’Interrotto possa per qualche via subliminale rappresentare il modello di questo patto costitutivo o rituale fondativo che dir si voglia?).
In effetti, il romanzo si presta a essere esperito anche in una prospettiva rassicurante. Non c’è necessità di chiamare in causa Manzoni per ricordarci il trucco della prefazione che “decentra” l’autore (anche se in Manzoni il trucco serviva per farlo entrare nel romanzo come personaggio-narratore e insieme come anonimo del Seicento, entrambe figure di appoggio per il narratore onnisciente, mentre qui Scarpa è messo letteralmente a tacere, benché si conceda anch’egli una comparsa improvvisa e muta dentro la storia). C’è una cornice che garantisce una suspense strutturale e circoscrive il nucleo incandescente, con la fantomatica evocazione della Nuova Sovversione Cristiana. C’è, infine, una linearità strutturale da manuale di narratologia: il romanzo porta avanti due storie parallele, apparentemente slegate l’una all’altra, che alla fine ovviamente si intrecciano…
Rieccoci all’ambivalenza costitutiva, alla soglia da abitare. Rieccoci all’ingestibilità dell’opera, che rispedisce a casa ogni giudizio, che rivendica la propria impermeabilità a ogni analisi: Il brevetto del geco è un arduo sprofondamento nei segreti della creazione oppure è un mero esercizio, seppur felice? Qui davvero non ho testimonianze da offrire, perché l’opera, nel momento in cui ci sfugge nella sua natura inesplicabile, supplica il lettore, sa di esistere solo nell’esperienza, ha bisogno del contatto per inverarsi…
Ogni libro chiuso è un mondo possibile.
Verità elementare.
Possibilità insostenibile.
– Sfondare la parola –
Così la parola sogna di essere gesto. Così l’arte pretende di essere trafitta, squarciata come nelle famose tele di Fontana. E sono molteplici i luoghi in cui Scarpa obbedisce a questo atto di traboccamento. Tali infatti sono, dal mio punto di vista, tutti i lasciti del suo tipico gusto per i segni grafici più disparati, che richiamano la necessità di una riduzione organica del mistero, di un confinamento materico della parola alla dimensione del segno: si tratta insomma di graffi, di ironie visive, di simboli semplici e nello stesso tempo potentemente apotropaici, di emoticon spiazzanti che nella loro leggerezza si mostrano, si ostendono come fregi e sfregi, incantesimi, reificazioni dell’assente, punti di ancoraggio contro l’ipnosi dell’arte, sfiati per il demone imprigionato, affinché non fermenti, non fagociti l’opera e l’artista, non si elevi al rango di idolo (in altri termini: non pretenda di esistere spezzando quella triangolazione magica, ovvero escludendo davvero il lettore).
L’ironia dell’artista è dunque una pratica di umiltà, nei casi più felici.
Il corrispettivo tematico di questo tratto stilistico è l’evento della resurrezione, obiettivo della ricerca di alcuni personaggi del libro. Lo scrittore che riesce a “sfondare la parola” (e quindi a rifondarla) è quello che riesce a dare voce all’aldilà che agisce qui e ora nell’avventura creativa, che ne fonda la stessa essenza, ne costituisce il nucleo irradiante, che è nulla, mancamento, proprio come la resurrezione è il fondamento non storicizzabile della verità storica del cristianesimo: cardine su cui tutto ruota e si regge, enigma che, rimanendo tale, permette al reale di esistere, di farsi natura, di incarnarsi.
– Leggerezza –
Toccate e fughe, dicevamo. Ecco, abbiamo osato un affondo, torniamo adesso alla superficie, ricorrendo a un’altra categoria calviniana (qui ci è già occorso di richiamare di sfuggita la molteplicità): in questi costanti attraversamenti di soglie, tutto si connota con magistrale leggerezza. La scelta di cedere la voce alle parole stesse le trasforma spesso in fate birichine che si concedono le loro bizzarrie (ovvero mirabili increspature lessicali, per cui in questo libro convivono espressioni banali con resoconti specialistici, elenchi pirotecnici, divagazioni nomenclatorie, autoironie retoriche e quant’altro, in un mix che tiene insieme sublime e osceno – come fin dalle origini del percorso di questo autore, del resto). Ma la capacità di stare linguisticamente nella polla del linguaggio, nella scaturigine dell’immaginazione, offre all’autore (all’opera?) di trasformare un geco in un’occasione di conversione religiosa, o una lavatrice in una teoria filosofica, oppure concede la possibilità, del tutto imprevista e a rigor di logica insostenibile all’interno del “patto con il lettore” appena avviato, di far parlare i cani, o i paesaggi…
Ecco, lasciar scorrere gli occhi sulle parole di un libro significa rimettersi in discussione anche come lettori e accedere nel regno, più reale del re stesso, della meraviglia…
Altra sublime ovvietà.
O ambivalente verità
– Il nulla irradiante, l’assenza che si incarna –
Dunque Il brevetto del geco circoscrive il problema della generazione, diventa esperienza della paternità. Del resto, intreccia continui paradossi, quando incrocia i destini di donne che rifiutano il frutto del loro grembo e di vergini che si impongono sulla maternità altrui, di padri che non sanno più essere tali anche quando lo diventano biologicamente e di uomini che sono realmente e pienamente padri senza aver biologicamente creato.
Torno alla costellazione generata dai tre punti focali della storia: su un vertice troviamo Adele, la Vergine (potrebbe non esserlo, ma in effetti tale diventa, ancora una volta, per forza di scrittura) all’origine dei Cristiani Sovversivi; sull’altro, Morpio, che si offre come San Giuseppe a una paternità ideale (con un’altra donna, ma non importa); infine, sull’ultimo vertice, in alto, l’Interrotto, il non nato che per il tramite della scrittura non soltanto vive, ma conosce addirittura la propria risurrezione, entra in tutte le vite, abita il regno in ogni sua forma, mettendo in pratica, nel nulla radiante della morte, la sua esistenza “circonferenziata” ovunque…
Ci sono due categorie di creatori, dicevamo all’inizio. Alcuni sono padri-padroni che non generano altro che replicanti sbiaditi della propria vanità (magari prodotti ben vestiti, ben piazzati nel mondo) e altri che sono padri di figli che magari li rinnegheranno o li metteranno nei guai, che sicuramente li processeranno e giudicheranno, ma che alla fine faranno tutto questo per un combattimento d’amore, riconoscendo, nel loro essere altro, una indefinibile e indistruttibile somiglianza.
L’opera di Tiziano Scarpa ci investe allora, in definitiva, con questo potente sapere universale che non si confina in nessuna dottrina univoca: ci espone al donativo esorbitante dell’esistenza, che ci lega ai trapassati e ai venturi, che ci obbliga alla trasmissione della medesima, grande, sovrumana eredità che fonda la nostra medesima condizione di uomini.
La scrittura – senza troppe autocelebrazioni, senza prosopopee, semmai con francescana beatitudine -, è ancora un avamposto dove si mantiene desta la fiamma dell’umano, dove si rinsalda il vincolo della civiltà.
Tiziano Scarpa e il Suo “il cipiglio del gufo” ..mi tormento sul finale tragico assieme al pensiero che “Niente serva mai a qualcosa”.
..con questo libro mi sento solo triste e depressa dopo la lettura. Vorrei capire perché.