Poveri professori

Questo è un brano espunto dal mio romanzo. Ne ero particolarmente affezionato, ma ogni potatura comporta i suoi sacrifici. Vediamo se l’innesto a spacco su questa pagina funziona.

Poveri professori. Una volta erano delle autorità. In paese si salutavano con ossequio: «Professore, buongiorno!», con la parola detta solennemente, per esteso, con la stessa deferenza con cui si salutava un medico o un avvocato. Se un professore si trovava a passare in un locale, nel bel mezzo di una discussione, lo si coinvolgeva per ottenere la soluzione della disputa, e tutti ascoltavano ammirati e anche coloro i quali si scoprivano dalla parte del torto assentivano come bambini ubbidienti. Una volta l’insegnamento era una professione ambita e i genitori ascoltavano le parole degli insegnanti dei loro figli come quelle di un luminare.

Ora, invece, basta entrare in un’aula per accorgersi di quanto il mestiere sia in declino. Non c’è bisogno di presentare i casi estremi, per scoprire la difficoltà di mantenere almeno un minimo di disciplina. Anche in un buon liceo, con una popolazione tutto sommato privilegiata di studenti, come era il caso del Liceo “Rimbaud”, si annusava subito la mancanza di stima dei ragazzi verso quella strana categoria di adulti. Adulti? Qualcuno non li percepiva nemmeno come tali, sempreché nella società odierna vi sia qualcuno, agli occhi degli adolescenti, capace di manifestarsi come un uomo maturo, un essere qualitativamente diverso rispetto alla loro esperienza. Ma i prof, ecco, i prof erano la categoria di adulti che più facilmente potevano confondersi con loro. Anzitutto, perché avevano a che fare con loro per mestiere, certo, ma questa poteva essere anche la situazione ideale per mostrare la differenza che intercorre tra un giovane e un uomo. E invece. Molti professori davanti agli studenti sono evidentemente impauriti e quindi si sforzano per mostrarsi autoritari, e si irrigidiscono sempre di più, fino alla nevrosi. Altri giocano il ruolo di amiconi, cercano la confidenza, dànno autorità agli allievi e non sanno più riprendersela, rimanendo costretti entro il ruolo dei complici, che, appena varcata la soglia, devono rituffarsi in incognito nel mondo dei colleghi. La percentuale di casi di schizofrenia in quest’ambiente è più alta che altrove, si dice. Insomma, i professori non hanno più una grande reputazione nemmeno fra i loro studenti, nemmeno quando si tratta di buoni insegnanti e ragazzi altrettanto buoni. Del resto, in tasca gli adolescenti tengono marchingegni che valgono un intero stipendio dei loro maestri: perché mai queste persone dovrebbero sembrare loro qualcosa di diverso da operai specializzati? I loro genitori nella maggior parte dei casi hanno redditi superiori e ruoli sociali più appetibili. Perché mai dovrebbero essere i docenti i modelli per progettare una carriera da parte degli studenti? Perché mai dovrebbero, essi, ambire a proseguire per tutta la vita quella noiosa vita nelle aule? Altro che desiderare di diventare intellettuali — i veri intellettuali, poi, stanno in TV, mica in aula. E il benessere non si raggiunge attraverso lo studio e la fatica, ma attraverso l’intraprendenza, e qualche raccomandazione. Lo apprendevano in casa, d’altronde. Al primo problema, il genitore si scaraventava contro l’insegnante per chiedergli ragione delle sue pretese, del motivo per cui ce l’avesse con suo figlio bravo ragazzo.

Professori vigliacchi. Prendersela con i figli, salvo poi cercare pateticamente di restare giovani come loro. Li sentite parlare, i prof? Altro che maestri di pensiero, ormai non sanno spiaccicare parola e si impappinano in ogni discorso, trincerati come sono dietro ai manuali accademici, ai programmi da rispettare, ai decreti ministeriali. Impegnati solo a produrre uno stormo di pappagalli pronti a ripetere a comando informazioni inutili, anacronistici conservatori di un sapere non più spendibile nel mondo. Le vere competenze, infatti, si apprendono fuori dalla scuola. Basti l’esempio della tecnologia, di tutte quelle diavolerie esecrate dai prof, appunto, buoni solo a lanciare anatemi contro TV, PC, iPod e compagnia bella. Sapessero almeno insegnare l’educazione! Aveva ragione Papini: «La scuola è così essenzialmente antigeniale che non istupidisce solamente gli scolari ma anche i maestri. Ripeti e ripeti anni dopo anni le medesime cose, diventano assai più imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio — e non è dir poco. Poveri aguzzini acidi, annoiati, anchilosati, vuotati, seccati, angosciati, scoraggiati, che muovon le loro membra ufficiali e governative soltanto quando si tratta di aver qualche lira in più tutti i mesi!»

Professori maledetti. Dovrebbero essere all’avanguardia nel recepire i cambiamenti del mondo, lì a contatto con i giovani, in trincea, e invece chi li ascolta più? Lesti solo a bloccare ogni tentativo di riforma, per proteggere i loro privilegi da fannulloni. Eh, già, vogliamo parlare delle vacanze? Eppure, guardateli, così depressi, tristi, incifositi sui libri che sfogliano ormai senza passione, distrattamente. Produttori di tristezze. Responsabili di generazioni fragili e senza qualità. Monadi ereditate da un umanesimo che non esiste più, fluttuanti e parassitarie all’interno di una società dove nessuno, nessuno sente di avere qualcosa da imparare. Perché dunque loro dovrebbero presumere di avere qualcosa da insegnare?

 

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