sucCesso, installazione di Simona Vanetti

Le cinque vie del successo

(L’opera scelta come copertina – cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa – è di Simona Vanetti)

Nell’epoca dei talent show se c’è un fatto evidente a tutti è la nostra incapacità di valorizzare i talenti. Prendiamo proprio l’esempio del mondo dello spettacolo, con più lustrini e coriandoli di quello letterario. Dove sono finiti i cantautori? Semplicemente, non hanno la possibilità di emergere, sono schiacciati dal sistema, che funziona secondo regole spietate che nulla hanno a che vedere con la reale promozione del talento. Proviamo a spiegarle.
Oggi nessuno si sogna di far quattrini vendendo CD. Le case discografiche puntano allora tutto su determinate canzoni, preconfezionate, di repertorio, oppure scritte da chi è parte del giro che conta. E poi che accade? Bisogna promuoverle nelle radio e nelle tivù, così che esse paghino la Siae, che a sua volta pagherà le case discografiche. Quindi si organizzano i talent show, per prendere il fantoccino di turno, gettarlo nell’arena, sfruttarlo per un paio di anni. Poi gli si permetterà di girare qualche pubblicità, magari della TIM, e in seguito si vedrà se sarà disponibile qualche trasmissione di riciclo. Altrimenti, chi s’è visto s’è visto. Sostenendo peraltro l’ultima catena della filiera: gli psicologi di alto rango, pronti a soccorrere i nuovi, illustri e giovani depressi (agli psicologi di rango inferiore resta invece da sfangare tutti i vari problemi legati all’emergenza educativa del nostro Paese, con i vari disturbi di apprendimento annessi).
Lo spiegavo in questi giorni ai miei studenti: “Amate la musica? Cercate gli autori di cui nessuno parla, sostenete chi cerca di trovare una via di fuga dalle fauci onnivore del Mercato, lasciatevi attrarre dai nomi sconosciuti”.
E in letteratura, invece? Quali sono le strade percorribili per ottenere non tanto il successo (e bisognerebbe chiarirsi sul termine – ma questo, un’altra volta. All’immagine di copertina demando lo spernacchiamento del fantoccio), ma la creazione di un circuito virtuoso che permetta l’eventuale valorizzazione del talento? A me ne vengono in mente cinque. (Se qualcuno ne conosce altre, le indichi pure nei commenti: prenderò nota).

La prima strada è essere baciati dalla Dea Bendata. Può accadere in varie forme. Nascere come buon figlio di papà o parente di qualcuno che conta. Aderire al Movimento giusto. Indovinare il libro alla moda. Trovare l’editor che azzecca titolo e copertina. Finire dentro un discorso importante e diventare un tormentone. Essere letto e apprezzato da qualche grande maestro (che ha pescato davvero nel mucchio dei libri che riceve, in un momento di ozio o di rimorso della coscienza). E così via.
E anche questa è una strada di tutto rispetto, non si pensi che sia qui a mettermi nei panni del censore. Hai la fortuna di chiamarti di cognome Maldini? Bravo, gioca bene le tue carte – anzi, i tuoi palloni. Sei finito per sbaglio nella redazione che conta? Sfrutta la tua opportunità. In vacanza ti sei trovato, come vicina di ombrellone, Patrizia Valduga? Dacci dentro.
Da parte mia, metto ovviamente in conto che qualcuno finisca per trovarsi sulla cresta dell’onda per puro caso, ma che importa? Tanto, per rimanerci occorre talento. Altrimenti, al primo cambio di vento, bentornato tra i comuni mortali.
Il problema è che questa strada non è registrata su nessuna mappa e, per quanto tu decida di metterti sempre nelle condizioni giuste, col vento alle spalle, sarà solo lei a decidere di comparire sotto i tuoi piedi.

La seconda è quella eroica di chi lavora in solitudine totalmente dedito all’opera, puntando dritto alla grandezza. Verrai in tal caso regolarmente visitato dai demoni, dovrai reggere all’urto delle tensioni psichiche che nasceranno da ogni rinuncia, ti occorrerà l’aiuto di qualcuno o qualcosa che ti impedisca di fissarti nei tuoi deliri. E non tutti hanno la forza di un Moresco (autore del quale, prima o poi, dovrò parlare, per chiarire definitivamente il mio amore-odio nei suoi confronti, la vicinanza ideale che diventa abrasiva, come accade solo tra un padre e un figlio dai caratteri troppo forti, forse troppo simili, pur nell’evidente differenza).
Questa è la strada più pericolosa e quella che dà meno garanzie. Non è nemmeno una strada, anzi, perché ancora non esiste. Nasce dalla capacità di costruirla – letteralmente – dove ancora non c’è, ovvero dalla forza autoriale che si autoriconosce.

La terza via consiste nello sfruttare le leggi di Mercato a proprio favore: scrivere un bel giallo, per esempio, oppure cavalcare il dibattito del momento. Mettersi sulla scia di quelli che vendono e impararne i trucchi – e poi lavorare dignitosamente per la propria promozione, senza risultare troppo schizzinosi: ogni lampione è buono per fissare un ritrovo – ma se poi finisci nelle librerie cool oppure ti riesce qualche comparsata in tivù, tanto di meglio, è grasso che cola.
In fondo un potenziale grande scrittore è pur intelligente, scaltro, ha l’indole del secchione. Provaci una, due, tre volte, prima o poi la pietanza giusta gli riesce. Sa capire il mondo. Sa intercettare gli orizzonti di attesa. Ha fiuto. Possiede i ferri del mestiere.
E l’opera vera, il capolavoro che gli sta a cuore? Avrà tempo di scriverlo dopo aver ottenuto il successo, quando avrà la garanzia di trovare accoglienza. Sempre che, a quel punto, non si ritrovi ingabbiato nella categoria dei soliti stronzi, sempre che non si sia definitivamente infrollito e abituato agli agi. Sempre che, sulla cresta dell’onda, arrivino ancora le voci dell’aldilà che ti chiedevano di bucare la pagina, di tentare la creazione vera, anche a costo del fallimento – piuttosto che perdere tempo a titillare le parole come gli altri si aspettano, in platea, eccitati dallo spettacolo.

La quarta via per me era l’opera comune. Consisteva nel riconoscersi per tempo tra simili, per creare la cellula vitale di una nuova società letteraria, in cui sentirsi parte di un lavoro collettivo che rimettesse in circolo la valuta rifiutata dal Mercato, ovvero la parola nuda e cruda, potente per sua natura, in grado di dar vita a un’opera capace di imporsi per il suo intrinseco valore. Gli scrittori affermati non hanno tempo di leggerti o non ti capiscono? Gli editori devono tenere in piedi il carrozzone di cui tu non sei parte e di cui non accetti le logiche? Che importa, io so quel che faccio, e non sono solo, esisto, ho altri che mi leggono.
I problemi legati a questa ipotesi di percorso sono vari e ne ho parlato fin troppe volte, per cui sarò sintetico, anzi sommario. Questa strada si presta a un facile equivoco: “Ecco una nuova generazione, ecco un nuovo intruppamento dietro una bandiera, una sigla, una poetica. Ecco i giovani che pretendono attenzione per il solo fatto di essere giovani. Ecco i separatisti che vogliono ricrearsi il grande gioco a loro uso e consumo”. E invece l’opera comune era il sogno di un riconoscimento fra persone della stessa tempra morale, capaci di andare ben oltre la propria poetica, in grado di dichiararsi guerra per amore – sì, perché all’interno di questa cerchia virile vige la suprema regola per cui si è sinceri fino in fondo, dolorosamente spietati soprattutto verso i propri congiunti, dal momento che in letteratura (così come in ogni forma di arte) colui che è in grado di distruggermi, di sfondare la mia opera, di mostrare l’imperfezione del mio lavoro (con una critica o con il confronto con il suo capolavoro), diverrà il mio più caro fratello, il Maestro in grado di aprirmi a una nuova visione, di portarmi, con la sua opera, nell’aldilà che soffia qui, sulla pagina. E questa cerchia non è affatto chiusa, ma centrata sulla tradizione: convoca nell’agone tutte le epoche, tutti gli autori. Vive nella reale contemporaneità, che non ha niente da spartire con i dati anagrafici o i numeri del calendario.
Lo ha capito bene Giuseppe Carracchia, che mi ricordava qualche giorno fa (generosità sua, dal momento che non ha partecipato direttamente a quella stagione, per mera tempistica: troppo giovane, ci ha raggiunto quando il progetto si era ormai sfaldato) un’intervista in cui Simone Cattaneo presentava l’opera di un altro autore. Non aveva scelto uno dei suoi amati scrittori americani. Come opera da mettere sul tavolo in qualità di pietra di inciampo che meritava di divenire chiave di volta di una storia tutta ancora da scrivere, aveva portato Annali, libretto di Davide Brullo. Un libro totalmente diverso da quelli che scriveva lui. Anzi, a tratti incomprensibile a lui stesso. Grande Simone: quella era l’opera comune. Riconoscere quando qualcuno cantava, per quanto lo facesse in una lingua diversa dalla tua. E non temere di mostrarlo agli altri – anzi, sentirsi in dovere di farlo.
“Ovvio” – diranno i cretini che non hanno capito un bel niente – “Portava il libro di un amico, edito nella collana in cui era stata pubblicata anche la sua raccolta. Dov’è la differenza con i favori e le marchette che si scambiano gli autori che prendono parte al Grande Circo?”. La differenza sta, semplicemente, nella mancanza di ipocrisia, nel credere davvero in quello che si dice. Tutto qui. Abissalmente. La controprova l’avremmo avuta nel caso in cui Simone Cattaneo fosse stato riconosciuto nel suo valore. Quale libro avrebbe messo sul tavolo della trasmissione televisiva di mezzogiorno del canale nazionale? Quale libro avrebbe nominato per il premio Strega? Quello dell’autorevole prefatore della sua ultima raccolta? Il Grande Vecchio della scuderia presso cui anche lui ora si trovava a correre?
Io lo so, quale libro Simone avrebbe messo sul tavolo, quale nome avrebbe bisbigliato, con la sua voce da killer, agli amici della Domenica. E mi immagino la scena: “Davide Brullo? Ma chi cazzo è Davide Brullo?!”. “Uno dei più bravi, coglione. E se non voti per lui ti aspetto fuori”.

Non sono un nostalgico, riconosco il fallimento di questa utopia, dovuto a tanti fattori: la fretta di arrivare; il dubbio che qualcuno rompesse le righe e si proiettasse troppo avanti, tradendo gli altri; la fatica di mettere insieme le differenze e tessere una storia che rendesse ragione anche al fraterno avversario; la voglia di obbedire al canto delle sirene, senza accettare che gli amici ti costringano al palo della tua identità – morale prima che estetica. O più semplicemente sarà stata colpa delle incombenze, delle necessità stringenti e immediate, del vigore che viene meno quando la fatica si fa sentire. Meglio correre da soli, che farsi strappare il fiato dallo scattista di turno o assumersi la responsabilità di scattare a tua volta anche per gli altri. Meglio credere in sé stessi e in una gloria completamente individuale, che prendere parte a una storia.
Così adesso siamo alla farsa. Siamo al talent show di provincia, dove possono sedersi sullo scranno dei giudici quelli che, in verità, sono ancora soltanto delle buone promesse delle patrie lettere, ma sono bravi belli e beneducati, sempre collegati, social al punto giusto e senza veleni addosso, dal momento che non hanno mai pestato i piedi a nessuno, soprattutto a quelli che contano, ma nemmeno ai nuovi giovani, agli ultimi arrivati – tanto cinque minuti di gloria sul palco se li meritano tutti.

E non sono nemmeno sopraffatto dalla delusione per questo fallimento, non mi sono incattivito. Come ho scritto, abbraccio sempre una visione costruttiva e detesto le lamentele, perché mantengo la sensazione che basterebbe poco per rovesciare la storia, per dare vita a una stagione creativa capace di rappresentare una vera rinascita culturale e civile. L’interruttore è qui vicino, da qualche parte, e forse prima o poi qualcuno lo troverà. Forse si tratta di attendere qualche evento storico che ci costringerà a riconnetterci in un tessuto in cui la crisi, la disputa, il dubbio metodico smettano di essere quella palude novecentesca in cui ancora sguazziamo e quell’avvitamento improduttivo che in politica diventa saccente paralisi, un cretino invito all’assenteismo perché tanto le decisioni, poi, le prenderanno altri anche per noi. Sì, ci dev’essere un interruttore che riporti questa perpetua crisi su cui si fonda l’identità stessa dell’Occidente alla sua naturale funzione di perno che regge il circuito virtuoso della creatività – morale, mica economica.
Chi, a questo punto, volesse tacciarmi di renziano ottimismo, è pregato di affrontare la mia possibile ira funesta e di venire a dirmelo in faccia, qui, in quel di Talonno, magari mentre trascorro il pomeriggio, dopo le lezioni, a estirpare erbacce, a mettere le mani nella terra, proprio come mi è capitato il pomeriggio in cui in testa ha preso forma e ha cominciato a girare all’impazzata questo discorso.

E la quinta via, te la sei scordata? Devo finire di percorrerla, poi vi saprò dire. Forse non esiste, forse è solo un’illusione. Assomiglia a tratti al terzo sentiero, ma vi trovo (è solo un miraggio?) più pace, più luce. Eppure, si rimane bestie pronte ad azzannare. Si resta alla ricerca di fratelli dispersi nella nebulosa dell’opera comune. Si parla con i propri fantasmi, cercando un’estasi mai irrimediabile, che genera sempre il ritorno.
Da qui, su questo sentiero che forse non esiste, lo sguardo si allunga verso le montagne, sopra i boschi, cercando un punto in cui, com’è giusto, il successo coincide con il fallimento – o lo si lascia posare su un orizzonte più prossimo, lungo il limite del cortile, sullo sguardo dei figli, che chissà quando sapranno leggere nel tuo questa ineluttabile forza che ti costringe, malgrado tutto, malgrado la stanchezza e l’insensatezza della stagione, a rientrare, a rintanarti fino a notte fonda come un lupo, ferito e felice, solo e abitato da moltitudini di voci, per prendere il foglio, e scrivere ancora.

 

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