Jonathan Franzen, di Antonello Silverini, illustrazione per La lettura (Corriere della Sera)

Fra me e Franzen

A inizio mese avevo rilanciato una recensione a Franzen, relativa a Le correzioni, il libro che avviò il suo successo planetario. Ora i più sono immersi nella lettura di Purity, che invece io sto rimandando, sia perché ho deciso di dar la precedenza a vari libri di autori italiani contemporanei, sia perché rispetto a certi colossi, a certe letture “dovute”, nutro una sorta di disagio, per cui mi piace affrontarle “fuori tempo”, quando ormai gli echi (positivi o negativi) che le accompagnano si sono affievoliti o spenti del tutto. Continuo questa pratica di distanziamento e ripropongo un’altra recensione, di Edoardo Gino, comparsa sul numero 65 di “Atelier”, sempre relativa a Le correzioni.

Ma quali libri ho frapposto fra me e Franzen? Ho appena letto (e recensito su questo sito) Il brevetto del geco di Tiziano Scarpa, La primavera tarda ad arrivare di Flavio Santi e Il grande animale di Gabriele Di Fronzo, mentre ora sto leggendo Etica dell’acquario di Ilaria Gaspari. Seguiranno (in ordine sparso), oltre a vari libri in formato digitale che ho sul desktop: La rancura di Romano Luperini, L’amore ai tempi di Batman di Massimiliano Parente, Una storia quasi solo d’amore di Paolo Di Paolo, L’addio di Antonio Moresco, Cella di Gilda Policastro, Cade la terra di Carmen Pellegrino, Le tartarughe tornano sempre di Enzo Gianmaria Napolillo, Non adesso, per favore di Annalisa De Simone, Conforme alla gloria di Demetrio Paolin, L’argine di Deborah Gambetta, Un terremoto a Borgo Propizio di Loredana Limone, Unico viaggio di Danilo Laccetti, La vita a rovescio di Simona Baldelli, La forma minima della felicità di Francesca Esposito, Maria di Ísili di Cristian Mannu, Dalle rovine di Luciano Funetta…

(L’opera scelta come copertina è di Antonello Silverini.
Cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa)

Jonathan Franzen, Le correzioni, Torino, Einaudi 2002

di Edoardo Gino

«Un romanzo formidabile, un vero pugno nello stomaco all’America. Un capolavoro corale che è insieme aggressivo e acuto, insinuante e potente, che psicanalizza senza pietà il corpo esanime del sogno americano, affogato nelle acque stagnanti della propria completa realizzazione, seguendo l’intrico psicologico di una famiglia americana media, bianca, benestante: cinque esistenze che non riescono a uscire dal circolo dell’insensatezza. Franzen, pagina dopo pagina, accumula ventate su ventate di pura entropia letteraria fino a condurre l’ingenuo lettore alla domanda: perché vivo? Se tutto è così privo di vie d’uscita, se ogni scelta è quella sbagliata, se un senso non c’è, perché vivere? Non lo sappiamo».

Questa, per respiro e stile, compresi i corsivi, è la recensione che Jonathan Franzen scriverebbe in dieci righe per le sue Correzioni. Sarei tentato di concludere qui anche la mia, perché in fondo in queste poche frasi c’è già tutto; ma sto rileggendo un libro che ha già compiuto i dieci anni di vita, e che per precisa scelta (o per calcolata miopia) è radicato nel proprio tempo quant’altri mai; quindi la questione si complica non poco.

Franzen, bisogna ammetterlo, ha indovinato la congiuntura economica, sociale e culturale con tempismo imbarazzante: la prima edizione originale esce il primo settembre 2001. Non mi dilungherò inutilmente nel ricordare come e perché dieci giorni dopo, nella consapevolezza collettiva degli Stati Uniti interi, sia finita un’epoca: non tocca a me, né sarei in grado di argomentare adeguatamente, visto che qui ci si occupa d’altro. Limitiamoci a constatare il dato fondamentale: con il Nine/eleven morì un mondo, o meglio, un modo di guardare il mondo, che già da tempo mostrava preoccupanti crepe e difetti strutturali. Di riflesso, la consapevolezza della crisi di un intero modello economico-culturale ruppe gli argini e cominciò a farsi strada, trovando finalmente uno spettacolare riscontro oggettivo nel centro di New York, in un giorno feriale, sorprendendo tutti con la sua raccapricciante semplicità.

Franzen, al suo terzo romanzo, interpretò queste angosce latenti con maestria, trovandosi del tutto inaspettatamente a cavalcare l’ondata emotiva di un Paese intero. Nel suo caso davvero la letteratura si fece portatrice del sentire comune, come dimostrano la miracolosa univocità delle prime recensioni, concordi nel gridare al capolavoro, e il successo quasi nazionalpopolare decisamente insolito per un’opera di densità simile, che richiede al lettore un impegno non indifferente (senza esagerare: Franzen vuol piacere a tutti, e si sforza per riuscirci; circostanza, questa, di cui il lettore minimamente smaliziato si accorgerà immediatamente). Non voglio con questo dire che la fortuna del libro sia legata esclusivamente alla situazione propizia, perché sarebbe ingiusto nei confronti di Franzen e del suo pur notevole lavoro; ma certo non si può ignorare l’importanza del contesto nel determinare le fortune di un autore.

Dopo un prologo che nelle prime righe sembra una parodia dell’esordio di Furore di Steinbeck, il romanzo si articola in cinque parti: quattro monografie sui cinque membri della famiglia Lambert (padre e madre ultrasettantenni sono trattati insieme, i due figli e una figlia adulti hanno ognuno il proprio capitolo) e una sezione finale dove tutti i nodi relazionali si sciolgono, durante Un ultimo Natale nella casa dei genitori. Segue un breve epilogo, che porta un inaspettato, parziale scioglimento della tensione.

Non vale la pena di scendere nell’intrico delle vicende, accuratamente tessuto, ma in fondo funzionale ad approfondire il lavoro d’indagine psicologico-relazionale, che è ciò che realmente interessa a Franzen. Quest’attenzione alla «relazione» è già di per sé significativa e meriterebbe una più ampia trattazione, ma preferisco concentrare l’attenzione sugli strumenti di cui Franzen si serve per il suo lavoro: i personaggi. Ѐ importante notare che, in un romanzo del genere, i personaggi costituiscono il 95% della sostanza e dell’attrattiva, e se questi attori si rivelassero inadeguati l’intera architettura collasserebbe.

Prendiamola alla larga. I Raskòl’nikov, gli Hans Castorp, i Francis Macomber, gli Hal Incandenza possiedono tutti una caratteristica irrinunciabile: la profondità. Non importa quanto spazio sia dedicato alla caratterizzazione psicologica: ciò che conferisce loro questa rara qualità è l’agire. Nell’azione Macomber si redime, nell’azione e nel rovello Raskòl’nikov è Raskòl’nikov. Nell’azione e nel suo modo di portarla Hal Incandenza è ciò che è. I personaggi di Franzen sono meravigliosamente caratterizzati, ma sono freddi, morti, bidimensionali. È appunto Franzen che li agita sulla scena come marionette, facendoli interagire secondo una sceneggiatura studiata con una cura quasi maniacale. Non c’è vita in loro. La vitalità che emana un Hans Castorp sin nelle sue azioni e parole più insignificanti è lontana anni luce dalla gelida policromia dei Lambert. L’unica eccezione, a tratti, sembra essere Alfred, il vecchio capofamiglia, il grande monolite; ma quanto di originale ci sia in questa figura, quanto di essa si debba effettivamente a Franzen, è ben difficile da stabilire: l’uomo incomunicabile, orgoglioso e delicato insieme, totemico, inavvicinabile, eppure tanto più emotivamente fertile è, se non un topos dell’ultimo secolo, quantomeno un territorio già battuto palmo a palmo e con risultati migliori, da Hemingway in giù. Il vero problema, come si sarà capito, è che a questi personaggi non ci si può affezionare: li si può capire, compatire forse, ma amare qualcosa di inanimato non è possibile. Di più: questi non sono personaggi, sono maschere. Sono automi studiati alla perfezione da una mente calcolatrice. Volendo infierire, dal punto di vista della scrittura quello di questo libro è un autore costruito, nel senso più degradante del termine. Spiace essere così schietti, ma l’impressione è netta: Franzen è il perfetto esempio di scrivano che nasce dotato di indubbio talento descrittivo, di affilata penna analitica e che non di rado dà prova di eccezionale acutezza di osservazione, ma che cresce senza un’autentica vena letteraria, quella che gli consentirebbe di distendere lo stile, dare una reale profondità ai personaggi e un respiro diverso all’intera vicenda, quale che sia non importa, purché si scrolli di dosso la smania di scrivere per stupire, per avvincere e per convincere. Che la scrittura debba calzare come un guanto sulle vicende, per valorizzarle, è una buona regola generale, soprattutto quando si voglia trattare di argomenti complessi e viscerali, come questo romanzo psicologico-relazionale di seicento pagine si prefigge apertamente. La critica non è diretta alla scrittura in sé, certo pesante, ma a tratti davvero brillante nelle sue invenzioni, quanto al taglio formale che Franzen decide di dare all’intera opera, che fa perdere del tutto all’incredibile lavoro d’analisi psicologica svolto quell’incisività, quella vitalità e quella genuinità che consentirebbero l’autentico, magico incontro tra l’intelletto dell’autore e la personalità del lettore; incontro che, laddove accade, segnala l’autentica letteratura.

In due parole, da duemilacinquecento anni a questa parte ars est coelare artem, ma Franzen sembra non averne mai sentito parlare.

Per queste ragioni, e per altre che la brevità richiesta da una recensione non consente di esporre a dovere (le frequenti concettosità, la disomogeneità dello stile, il realismo-ad-ogni-costo, le tante immagini sbalestrate e buone solo a coprire vuoti d’ispirazione), se Le correzioni resisterà alla prova del tempo sarà soltanto come efficace rappresentazione di un momento storico e culturale, la fine del millennio, altrimenti difficile da cogliere nella sua estrema complessità.

Tirando le somme, Le correzioni sono certamente un «grande romanzo», anzi, «il grande romanzo americano», come diligentemente strombazzò a suo tempo il «New York Times Literary Supplement», e la formula resiste agli anni. Lo sono per ambizione, per vastità, per coraggio, per scrittura; e lo sono soprattutto per le loro seicento pagine, che ne fanno decisamente un bel tomo. Dopo tutto, «grande» vuol dire questo, no? Ecco, forse sarebbe più adatto «il più grande romanzo americano bidimensionale di sempre».

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