Ritratto di Luzi, di Anna Cecchetti (2003)

Il peccato originale di Luzi

Prosegue la pubblicazione di materiali dedicati a Mario Luzi. In questo caso, propongo uno scritto un po’ polemico, che cerca di smascherare alcuni pregiudizi intorno all’autore. Provo anche a dimostrare come le analisi compiute da Mengaldo su Mario Luzi e su Vittorio Sereni siano in gran parte sovrapponibili, ma il giudizio sia opposto – perché, in fondo, ogni interpretazione si basa su una poetica, su alcuni assiomi impliciti. Una volta si parlava di “gusto” letterario; oggi, che di buon gusto ce n’è poco, i critici più seguiti sono quelli di Masterchef.

(L’opera scelta come copertina è di Anna Cecchetti.
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Il peccato originale di Luzi

 

O Orpheus, o Dionisos, o altri –
«chi dicono che io sia?»
Luzi

Per diversi anni Mario Luzi è stato il candidato ufficiale italiano al Premio Nobel. Ora che, dopo una lunga attesa, il più ambito riconoscimento torna al Belpaese, l’intellighenzia dribblata dall’inatteso responso, che ancora una volta ha penalizzato il poeta fiorentino, si divide fra indignazione più o meno esplicita e rassegnazione (ma c’è pure chi se la ride).

Al di là dei meriti di Fo, il preferito, non siamo rimasti nemmeno troppo sorpresi dall’esito sfavorevole a Luzi. Indubbiamente, l’Accademia di Svezia si avvale di criteri geopolitici estranei alla considerazione del valore esclusivamente letterario; l’ultimo responso inoltre si è prestato ad amene interpretazioni sociologiche: si è parlato  addirittura di un “segno dei tempi” (“la poesia è morta”, “non c’è più religione”, “è la dimostrazione del degrado culturale” e bla bla bla), si sono formulate più complesse teorie storiche (“all’estero non siamo più considerati un popolo di santi, di poeti e naviganti, ma un popolo di saltimbanchi”, “è un riflusso culturale di nostalgia per la rivoluzione mancata”) oppure ci si è tuffati in sottili disquisizioni accademiche (“è un equivoco nato dagli specchi deformanti della traduzione”).

Noi, dicevamo, non siamo sorpresi della “beffa” toccata a Luzi. Ci sembra, infatti, che il Nobel mancato non sia altro che il suggello, lo stigma reso esplicito di una sorta di diffidenza che ha sempre accompagnato la lettura delle sue opere.

Si tratta di un atteggiamento di fondo e subdolo: nessuno o quasi osteggia apertamente Luzi. Rispetto al passato, il fuoco della controversia si è giorno dopo giorno attenuato e alcuni suoi libri hanno perentoriamente messo a tacere le critiche frontali. Il poeta, anzi, ha dato ampiamente prova di notevole apertura nei confronti delle riserve che gli venivano di volta in volta mosse, tanto da trovare nel proprio percorso creativo un movimento dialettico di assimilazione, approfondimento e superamento delle stesse critiche. “È un poeta iper-letterario”, si disse per poi dover riconoscere il suo superamento dell’Ermetismo; “È chiuso nella sua torre d’avorio”, si sentenziò prima di essere zittiti dal suo viaggio, per onore del vero, al fondo delle campagne; “Non si impegna nel sociale”, qualcuno pensava tra sé, senza poter prevedere che ciò che ora resta degli anni Settanta in letteratura lo dobbiamo a lui; “È un poeta cattolico”, si pensa e ancor meno si dice, convinti che chi non è nichilista sia per forza un ottuso.

Insomma, adesso che Luzi ha ampiamente dimostrato a tutti di essere uno dei tre-quattro classici del Novecento, ci si associa al blando clima di consacrazione che lo circonda, stringendo fra i denti le perplessità, in attesa di tempi più idonei all’esercizio della critica. Al più, si lascia trapelare il disagio che si prova di fronte alla figura di Luzi da una smorfia leggera, da un aggettivo ben calibrato o da una reticenza ambigua.

Siamo vittime di un senso di persecuzione oppure di questo “vago sentire” si possono trovare riscontri oggettivi?

Si rilegga, per esempio, l’intervista di Camon inclusa nel Mestiere di poeta. Fin dalla descrizione iniziale dell’ambiente, si avverte un’indisposizione profonda, che rischia di pregiudicare l’incontro: «Il silenzio è tale che il luogo mi sembra adatto solo al pensiero e alla meditazione: qui la parola non riesco a immaginarla se non come eco e ricordo. Risento il disagio già avvertito in passati incontri con Luzi: non può essere un colloquio facile, e sotto certi aspetti neppure piacevole». Camon si accorge di tale diffidenza e non può che partire da essa, facendola presente all’interlocutore, così da aggirare subito l’ostacolo: «Non è cosa facile un colloquio con lei, per l’impressione, subito avvertita, di una sua naturale ritrosia, di un suo riserbo, di una gelosia della propria solitudine, e forse anche di una sfiducia nell’utilità di un contatto aperto. Romanò, a questo proposito, ha parlato di “orgoglio intellettuale”».

Sia chiaro che portare sulla pagina queste sensazioni è precisamente un merito di Camon. Ci interroghiamo tuttavia su questo: qual è il fondamento (storico, letterario, biografico, caratteriale) della diffidenza che la figura di Luzi trascina con sé? Pesano come pietre le parole d’esordio di Camon e, infatti, Luzi appare piuttosto spiazzato nei primi passaggi dell’intervista. Qual è la ragione di quelle parole?

Interrogato da Patrizia Valduga sul valore dell’“ultimo Luzi”, Mengaldo ha dichiarato: «Mi lascia un po’ perplesso». Il giudizio è secco e non argomentato, come se si trattasse di una questione di “affinità di pelle”, di gusto, di congenialità. Di natura, insomma. E infatti, se si riprendono le pagine della sua famosa antologia dedicate al poeta fiorentino, anche chi condivide sostanzialmente il suo giudizio avverte quanto il critico calchi sulle sfumature, lasciando trapelare da esse le personali predilezioni e riserve. La «raffinatezza» del primo Luzi diventa così «schifiltosità spirituale», la sua evasione nell’estetismo è «aristocratica», la sua psicologia è caratterizzata da una «immobilità fachiresca». La sua produzione viene colta sempre come “eco e ricordo” di altro: la linea orfica della poesia moderna nella stagione dell’Ermetismo, Montale ed Eliot nella stagione più “realistica”, addirittura Sereni nell’ultima evoluzione, dove i dialoghi messi sulla scena nella raccolta Nel magma non sono privi di «spettrale banalità», “compiaciuti”, nei quali «la storia, se entra, entra solo di sbieco» (storia = cronaca? Mengaldo cita il verso luziano: «Dicono a una radio di Eichmann»…): anche ora, la poesia di Luzi per il critico «continua ad affermare, con orgoglio travestito da umiltà, la sua integrale vocazione metastorica».

«Con orgoglio travestito da umiltà»: non si può certo dire che Mengaldo non osi nelle sue critiche, esercitate in piena maestria di stile.

Si confrontino queste parole con quelle spese per Sereni, che per «schifiltosità», pardon, «ritegno», poteva anche avvicinarsi a Luzi:

Frontiera […] è la struggente elegia della giovinezza al tramonto, e insieme della scomparsa di un’epoca […]. Pedale profondo e prima manifestazione di uno dei grandi temi sereniani, [è] l’assidua presenza dei morti […]: la fedeltà ai luoghi è anzitutto fedeltà ai morti, a una sotterranea osmosi di vivi e morti in cui ciò che vive rivela, assieme alla sua immediata friabilità, anche la sua verità ultima.

Il Diario d’Algeria è insieme punto d’arrivo e superamento dell’ermetismo nel senso che la tematica basilare dell’«assenza» qui si invera come assenza da una precisa realtà storica, con la quale tuttavia è indispensabile misurarsi. […]Il libro è tanto più la viva testimonianza di una generazione e di un’epoca quanto più è esclusivamente ripiegato a registrare pulsazioni e scacchi dell’individuo alienato da una guerra insensata […].

Nel «terzo tempo» di Sereni, che tende ormai alla grande angolatura del romanzo lirico, le vicende e la psicologia private sono sempre confrontate, con un continuo spostarsi del fuoco dal primo piano allo sfondo e viceversa (e una delle ragioni del sottile fascino narrativo degli Strumenti umani è proprio nella mobilità cinematografica di ambienti e fondali), alle grandi vicende della storia successiva alla fine della guerra. Ha scritto giustamente Crovi che Sereni «è il poeta che… ha meglio interpretato il passaggio, in Italia, da una civiltà di opzioni individuali a una civiltà di conflitti collettivi, da una cultura preindustriale a una cultura di massa, da un decoro provinciale piccolo borghese a una tensione problematica di crisi e rinnovamento antropologico». Ma il rapporto fra l’uomo Sereni e questa nuova storia è ancora una volta di estraneità […]. All’origine dello smarrimento delle certezze, psicologiche e ideologiche […] sta una radicale insicurezza di sé, il dubbio sistematico, nonché sul proprio ruolo, sulla propria stessa identità. Da ciò le due grandi costanti tematiche della raccolta […]. Intendo dire il tema del rispecchiamento di sé in altri o in un proprio doppio, garanzia di essere al mondo ma anche occasione continua di rese di conti, di autoprocessi; e quello, altrettanto ambivalente, della ripetizione dell’esistere, insieme sollecitata come rassicurante permanenza, segno d’identità col proprio passato, e patita come manifestazione della vischiosità del vivere. […] Sereni avventa contro la deludente realtà del presente niente di meno che la «gioia», in quanto azzardo vitale e anticipo della pienezza futura […] e la testimonianza dei morti, giudici e insieme vendicatori della nostra vita, segreti latori di diverse «possibilità d’uso delle nostre esistenze» (Fortini) che un giorno, infallibilmente, «parleranno» (v. soprattutto la splendida lirica […] La spiaggia). […]

Punto d’arrivo o summa provvisoria di anni di lavoro, il poemetto Un posto di vacanza rappresenta a un tempo la coscienza e la crisi dei motivi più profondi elaborati da Sereni nel dopoguerra, bilicandosi fra il racconto autobiografico e la metapoesia: nel senso che qui i contenuti più tipici del poeta – il ritorno sugli stessi luoghi, il dialogo con interlocutori ironici o accusanti, i bilanci fallimentari dell’esistenza ecc. – generano un discorso sulla possibilità di scrivere ancora versi, si danno insieme come eventi biografici e motivi da assumere nel testo poetico in formazione […]; e il no finale allo «specchio ora uniforme e immemore» è gesto di rifiuto della funzione narcissica e consolatoria della poesia. Ma a parte il caso speciale del poemetto, non sembra facile per ora definire la fisionomia complessiva (non certo la qualità!) di Stella variabile.

La differenza di tono è inequivocabile: il critico si lancia anche in apodittici e appassionati esclamativi e non un solo aggettivo mette in discussione il giudizio ampiamente positivo sull’opera di Sereni, della quale peraltro si tacciono i molti influssi da autori maggiori e in particolare da Montale.

Eppure, se applicassimo queste stesse parole alle opere di Luzi, sostituendo a Frontiera il suo primo libro, La barca, a Diario d’Algeria Un brindisi, agli Strumenti umani le due raccolte Dal fondo delle campagne e Nel magma (e alla «gioia» sereniana la «grazia» o il «debito» luziano, tanto per fare un esempio, mentre La spiaggia potrebbe trovare il corrispettivo nel Duro filamento o La valle o il dittico conclusivo dello stesso libro) a Stella variabile e il poema incluso Un posto di vacanza, infine, Su fondamenti invisibili e uno dei suoi tre poemi, sentiremmo, con minimi aggiustamenti, che il discorso sostanzialmente filerebbe.

Attraverso questi esempi concreti la tesi di una sotterranea “antipatia” nei confronti della figura umana di Luzi comincia forse ad apparire meno cavillosa. Senza insistervi troppo, aggiungiamo almeno un altro caso: i rapporti fra Luzi e «Officina».

Sulla storica rivista bolognese, a parte qualche citazione in un saggio di Leonetti su Leopardi e in una postilla bibliografica di Romanò, troviamo per la prima volta chiamato in causa Luzi nella nota redatta da Scalia sulla rivista «La chimera»:

E a proposito di «realismo» leggiamo i molti dubbi di Mario Luzi, che con Betocchi e Parronchi sembra costituire la «direzione» della rivista. Dubbi che ci conducono ancora a una ideologia di spontaneità interiore, di rivelazione e accessibilità sacerdotale della Verità. L’incapacità di previsione (o di rischio) che è inerente al lavoro critico e ad una letteratura che voglia essere attiva e presente, la volontà di una tautologia scoperta nell’affermazione di Luzi che «la realtà si spiega solo con sé stessa» in un senso di pericoloso «immanentismo» mistico, rifiutante una concezione realmente scientifica e razionale della realtà: sono gli aspetti significanti un lavoro ancora fondato su un’esigenza di assoluta «autonomia dell’arte».

In merito a queste considerazioni, Luzi invierà una lettera di rettifica alla rivista, che la pubblicherà sul numero 3, settembre 1955, facendola seguire da una giunta redazionale in cui si ribadiva il giudizio espresso da Scalia:

[…] l’interpretazione che Scalia offriva è da riferirsi a tutto il pensiero di Luzi: ad una idea della realtà che si presenta in suo particolare spiritualismo, insieme trascendente e immanente, mistico e insieme naturalistico.

È poi sul concetto di realtà che, evidentemente, non siamo d’accordo e non ci comprendiamo con Luzi. Va premesso allora che non si vuole di certo negare che sia possibile e interessante un lavoro poetico anche con questa sua ideologia fondata più o meno esplicitamente sulla equazione Verità-realtà, piuttosto che su una concezione razionale della realtà, «iuxta propria principia», che è la nostra ed è tendenzialmente cosciente della direzione del pensiero moderno. (Converrà ritornare, e ritorneremo, su questo punto). Ma è per noi che dichiarammo intanto pericoloso un immanentismo contraddittorio come quello di Luzi, che si postula ancora in forme di interiorità e individualità pura. E perviene infatti, nello scritto sopracitato, a una conclusione siffatta: «nella natura percepita con purezza, nella sua voce profonda e continua che informa i linguaggi degli uomini, risiede la possibilità di conciliare il dissenso tra il soggettivo e l’oggettivo, tra l’assoluto ideale e il concreto storico».

Che da un punto di vista di rigore logico è secondo noi, adoperando parole di Hegel, qualcosa come la vecchia schellinghiana notte in cui tutte le vacche sono nere.

È passato indubbiamente molto tempo da allora, tanto che queste espressioni suonano piuttosto ideologiche e sommarie. Per quanto l’impresa si rivelerebbe esaltante, non è possibile entrare qui nel merito della disputa per dedurre i diversi concetti di realtà implicati, da misurare poi a cospetto dell’evoluzione del pensiero moderno, scientifico e razionale. D’altronde, la disputa prenderebbe una piega troppo filosofica, mentre il valore letterario si confronta con la lettera del testo, presa «iuxta propria principia».

Così sembrerebbe fare Leonetti, che elegge un verso luziano, «Dell’immobilità del movimento», a titolo di un suo intervento sul primo numero della Nuova Serie (marzo-aprile 1959; Luzi nel frattempo aveva pubblicato sul n. 4, dicembre 1955, tre fra le sue liriche più famose, Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo, Las animas e Nell’imminenza dei quarant’anni sotto il titolo complessivo Conversazione durante il viaggio):

Campione (intellettuale insieme che stilistico) di una posizione cui contraria è la nostra, ma ripresa con intelligenza e fervore profondo, è il luogo di Luzi da cui è estratto questo verso […]. Contrariamente alla storicità terrena portata da Dante nell’aldilà […] abbiamo qui un sostenuto dantismo verbale, il cui motivo psicologico è una vivente ma rigida elezione di eternità; che viene sovrapposta, anzi internamente imposta, alla vita nelle sue forme effimere come in quelle vivaci o ricche di energia. Le poesie sono iscrizioni di un fremito tra sfinito, nobile e contratto.

La stessa religiosità par trattenuta, per questo progetto, in un fuoco sordo; anzi è civile la volontà di far luce stando nella pena, alcune volte espressa, o un po’ messa innanzi… L’atto di relazione è sempre uno slancio pudicissimo ma desolato verso l’altro […].

Non è che Luzi dica, con la sua voce squallida e pura, la presenza continua della morte; il suo cristianesimo non è agonico, perché non intende più reale l’angoscia; né mira a esprimere la vanità della parvenza, piuttosto offrendo un «onore del vero», con venatura di razionalità, insieme concessa e a se stesso rivendicata. In un vecchio numero di «Comunità» Fortini illustrava memorabilmente i sottili motivi della carriera anteriore di Luzi; ora appare che tutti questi accenti di armonia, precisi, conseguenti, che noi stimiamo i suoi più perfetti, sono ricavati da una presenza cosciente, da un abito mentale, per una singolare struttura, voluta con concretezza attraverso l’esame proprio e il rifiuto dei sentimenti proposti dal dopoguerra: nell’intrapresa di un equilibrio del significato e della voce che produce questo risultato altamente parziale, questo esito di magistrale onestà. Così divergente dalla irrelata fantasia del Luzi ermetico.

 […] Nel libro immagini di profonda pietà non mancano, anche brevi cataloghi, e affermazioni schiette di partecipazione alla sofferenza; però di singolo a singolo, con gesto sacerdotale, un po’ in disparte.

Nonostante qualche passaggio non del tutto perspicuo, il giudizio sull’opera di Luzi è positivo, ma viene sempre accompagnato da un “però”, da una postilla ideologica o filosofica.

La domanda che ci eravamo posti all’inizio, ci sembra che a questo punto abbia davvero preso corpo: qual è, in definitiva, il peccato originale che macchia in modo indelebile la poesia di Luzi? Credo non sia altro che la sua provenienza culturale: da un punto di vista ideologico, non gli si perdona l’appartenenza, più o meno pacifica, al cattolicesimo; da un punto di vista letterario, la derivazione poetica dal simbolismo; da un punto di vista sociale, la sua “solitudine aristocratica”. Insomma, Luzi è stato presto imbalsamato nel ruolo di “sacerdote delle lettere e della Verità”, stigmatizzando così la sua natura, il suo carattere. È sempre una questione di pelle: egli ha attraversato il secolo in modo appartato, senza esporsi pubblicamente, fuori dai recinti della letteratura e della coscienza individuale. Appartato o più intimamente esposto? Varrebbe la pena, a questo punto, rileggere poesie come Presso il Bisenzio o molte altre in cui la controversia trova chiara espressione. Preferisco, invece, riportare una sua testimonianza:

Per significare la vita più intensa bisogna, in un certo senso, morire alla vita, quella specie di terribile dialettica, insomma, che è in fondo all’arte stessa, quello che volgarmente si dice o vivere o scrivere. Ma più che vivere, devi anche conoscere, non puoi senza prima assentarti, assentarti alla vita, non puoi significarla, non puoi renderla viva attraverso l’arte se non sei morto. Questo vale anche nell’amore: tu puoi misurare la disponibilità fra desiderio e felicità, solo rinunziando, fuggendo e vedendo fuggire, o lasciando fuggire l’oggetto. La felicità la do per impossibile perché il desiderio è troppo grande, è infinito e la soddisfazione è sempre finita; è un evento di tipo cosmico insomma, e anche con qualcosa di fatale, se vuoi.

Qui trova formulazione la natura poetica di Luzi, la sua ragione artistica. Si tratta di una riflessione anche amara e drammatica, che non va assolutizzata: il poeta muore alla vita nel vertice del suo atto creativo, ma prima e dopo il margine della pagina la vita persiste ed è anzi essa a delimitare quel punto incandescente di annullamento. L’acquisto di coscienza, per l’essere umano, si ha nella perdita. Solo attraverso la caduta di qualsiasi schermo soggettivo e culturale si avvera la «conoscenza per ardore» e il contatto con l’essenza della vita brucia e marchia la dizione del poeta, sconvolto dalla pura presenza che gli si pone di fronte, nuda e tragica oltre ogni attesa e proiezione.

Morire alla vita non significa evadere da essa, ma scendere più in profondità nel contenzioso, progredendo “in coscienza”; significa partecipare agli eventi vedendosi da un terzo punto di focalizzazione, un altrove che dà fondamento allo stesso “essere qui e adesso”. Ecco perché l’eterno in Luzi si coniuga con l’effimero, le vicende quotidiane portano il marchio delle generazioni e della storia, il divenire è garantito dalla stessa eternità.

Le riserve che accompagnano l’opera luziana nascono da qui. Sono presenti prima della poesia, nell’implicazione di un’idea diversa dell’essere umano. Eppure la poesia non vorrebbe essere un contatto con la vita che attraversa i diaframmi ideologici, li distrugge e li ricrea? La poesia “sente” laddove la mente cerca conferme, si espone alle domande laddove si hanno certezze preconfezionate per misurare l’orgoglio e l’umiltà altrui.

Per questo non siamo rimasti sorpresi del mancato riconoscimento a Luzi. Anzi, siamo certi che gran parte degli attuali incensatori del poeta siano gli stessi che hanno già pronti, nei cassetti, i coccodrilli. E ci tornano alla memoria altre riflessioni compiute da Luzi, a proposito di Goethe:

[…] lui si è autocensurato continuamente, si è fabbricato su se stesso attraverso varie perfezioni, vari itinerari di perfettibilità fino a una possibile perfezione, quindi è un po’ uno che si cancella mentre si offre […]. È un uomo che progredendo si è, non disdetto, ma perfezionato tanto che non si sa mai dove prenderlo, e forse non sai mai chi è, un poeta puro, tanto puro da non avere una identità, da non identificarsi con la sua identità; questo esclude quell’adesione viscerale che nasce con altri […]. Tutto questo è molto poesia, è un tipo di poesia nel senso vero, in senso orfico forse più di ogni altro; Orfeo era questo, probabilmente, senonché poi Orfeo viene mangiato, divorato, prende una verità tragica da questo; ma chi dice che anche Goethe non abbia avuto la stessa sorte? Vissuto negli ozi fino all’ultimo momento, doveva anche sentirsi molto posseduto, fagocitato da quelli che gli stavano accanto, che lo bevevano, che lo mangiavano e ne approfittavano.

In mezzo a tanti consensi “di convenienza”, preferiamo le critiche di parte, certamente più oneste e costruttive.

 

1 commento
  1. Salvatore Armando Santoro
    Salvatore Armando Santoro dice:

    DIMMI MARIO

    Dimmi Mario, ovvia or tu confessa,
    “Presso il Bisenzio” non sei andato a caso
    non era un dì olezzante il fior nel vaso
    né quella nebbia di quel giorno spessa.

    Perché proprio il Bisenzio e non sull’Arno
    dove c’è stato anche un gran cialtrone?
    Tutti ha confuso da grande imbroglione,
    il tuo parlare s’è sprecato indarno.

    Quel tuo ragionare approfondito
    come hai notato t’ha causato guai
    i tre più anziani t’hanno detto: “vai”
    solo il giovane al fine l’ha capito.

    Si sa, è nella logica dei fatti
    finito è il tempo del materialismo
    impera adesso sol massimalismo
    anche i diritti li han tutti disfatti.

    E l’ han disfatti dove l’Arno scorre,
    quel fiume di Fabiani e di La Pira
    quel misticismo antico più non spira
    Luzi presso il Bisenzio sol discorre.

    Salvatore Armando Santoro
    (Donnas 10-6-2017 – 12.10)

    A Mario Luzi

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