Luzi: verso il celestiale appuntamento
(L’opera scelta come copertina è di Fiorella Nuti.
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Altro intervento sulla poesia di Luzi, la cui opera ora è letta alla luce del tema del sacro.
VERSO IL «CELESTIALE APPUNTAMENTO» [1]
Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Dante
Premesse
Non essendo questa la sede appropriata per specificare in modo dettagliato la categoria del sacro, che si presta anche a interpretazioni divergenti, delimiteremo il campo di pertinenza del nostro discorso adottando i seguenti accorgimenti:
1 – definiamo con il concetto di sacro ciò che appartiene a Dio e si manifesta, almeno inizialmente, come totalmente Altro rispetto all’uomo e, pertanto, come intoccabile e irriducibile;
2 – distinguiamo il sacro dalla religione, termine che evidentemente apre un campo semantico contiguo e a vari livelli sovrapponibile. Nella nostra prospettiva, tuttavia, non assumiamo un punto di vista dottrinale; anzi, potremo con un’equazione definire che
teologia : teofania = religione : sacro
Consapevoli che queste coordinate spostano semplicemente le ambiguità del discorso dall’idea del sacro a quella del divino, che si dà come presupposta, ci sembra che un’idea iniziale troppo chiara non sia necessaria e, anzi, possa pregiudicare l’emergenza dei significati dell’opera luziana. Cercheremo, in altre parole, di interagire con la sua poesia avvalendoci via via degli strumenti forniti dal testo stesso. Come non possiamo ridurre il sacro ad altre categorie, così non possiamo spiegare la poesia di Luzi in rapporto al sacro partendo dall’esterno del suo discorso, almeno al momento della lettura, cioè dell’incontro con la sua voce.
Non sarà nemmeno possibile puntualizzare tutti i passaggi logici del discorso né tantomeno esaurire il tema. Per gli stessi motivi, anche il taglio più propriamente critico del nostro contributo si adatterà all’intento divulgativo e provocatorio che sta alla base della presente iniziativa, anche se cercheremo di ancorare, dove possibile, le osservazioni almeno ai dati stilistici più evidenti – e questa limitazione ci rammarica non poco, trovandoci in questa sede alla presenza di illustri critici che si sono da tempo confrontati con la poesia di Luzi, con l’acutezza che è riconosciuta loro.
D’altronde, confidiamo nel fatto che il privilegio di aver ascoltato dalla viva voce dell’autore le sue considerazioni introduttive alla materia del convegno, sopperisca almeno in parte alle inadempienze del presente intervento. I più solerti lettori della poesia di Luzi e i partecipanti a queste giornate che fossero interessati, possono reperire agevolmente informazioni aggiuntive sulla questione, consultando la bibliografia critica e soprattutto i recenti studi e le interviste che illustrano il percorso di approfondimento dell’autore della propria formazione religiosa e culturale. Ci riferiamo in particolare al volume La porta del cielo [2], ma anche a tutti i precedenti interventi che hanno messo in luce, per esempio, le influenze sul pensiero luziano della spiritualità orientale (e in primis indiana), della teologia di Teilhard de Chardin, della letteratura patristica e di altre letture ed esperienze di vita (non ultima quella dei numerosi viaggi che hanno portato l’autore a diretto contatto con realtà nuove), senza trascurare, naturalmente, la rilettura delle fonti primarie, ovvero i vangeli e i testi sacri.
Privilegeremo, inoltre, la sola opera poetica di Luzi, come del resto è chiarito fin dal titolo, a scapito della produzione teatrale e critica.
Un rivolgimento poetico
Il sacro, in quanto luogo di approssimazione della divinità, attrae e respinge allo stesso tempo, si mostra come minaccia per l’identità dell’uomo e sua potenziale rivelazione. Uno dei simboli tipici in cui si ri-vela è il fuoco: una fonte di energia esterna che invita ad avvicinarsi per goderne i benefici, ma distrugge chi, invece, pretende di carpirne il segreto. Il sacro esige si rispetti il mistero.
C’è, dunque, un atteggiamento giusto (santo) di avvicinamento al sacro e uno deleterio (violento e perciò sacrilego). In questi secoli, entro quello che potremo definire il cammino della modernità, abbiamo assistito a svariate forme, tanto letterarie quanto umane, di prometeica sfida, di delirio di onnipotenza e volontà di appropriazione del sacro, che si è tradotto sempre in un naufragio tanto esaltante quanto folle e distruttivo.
Quando si palesa la questione del sacro nella poesia di Luzi e in che modo egli si avvicina a questa fonte suggestiva e pericolosa di senso? Potremo anche chiederci: quando egli percepisce la differenza fra qualsiasi forma di professione di fede e diretto accostamento al sacro?
Dopo le prime pubblicazioni, Luzi prende le distanze da una via di incontro con la realtà troppo mediata dalla letteratura (come così almeno potrà apparire con il senno di poi, senza entrare nel merito e dando anzi per scontata la sincerità iniziale che ne determinò il fervore poetico). Egli si rimette interamente in discussione come uomo e come poeta. Chiunque può verificare questo atteggiamento di fondo che si esplicita nelle opere del dopoguerra in un crescendo che assume i toni di un complessivo esame di coscienza, scevro da compromesso alcuno. Con queste opere egli giunge alla notorietà e secondo il giudizio comune raggiunge i vertici della propria produzione artistica.
Questo ripensamento generale culmina con le raccolte Dal fondo delle campagne e Nel magma, dove l’angoscioso e angustiante assillo personale («tempo / di mia nascita e insieme tempo e luogo / per ricordare i miei morti per forza, / i miei caduti sotto il piombo – poco / prima i miei padri, dopo i miei fratelli – m’investe a fiotti in pieno viso il vento / di vita e tutt’uno di rapina / e di morte, mi mozza il fiato, mentre / levo le mani a questi alberi e spicco / frutti per la mia cena ancora avido» [3]), sotto l’incombenza del peso della storia e di un passato che ha ormai assunto consistenza, si innesta nel senso irrequieto di appartenenza a una vicenda più vasta, che lega generazione a generazione in un unico travaglio (Dal fondo delle campagne si conclude con una interrogazione rivolta a un “noi”, agli uomini «nel pieno dell’età, / nella fornace dei tempi»). L’autore oscilla fra un senso di giustificazione, connesso a un moto di orgogliosa consapevolezza, e un senso di autopunizione («M’avvio verso il mio posto, / tengo a mente il mio onore ed il mio debito» [4]), che si accompagna a un atteggiamento di “svolta” interiore (si leggano, in questo senso, soprattutto le poesie Il duro filamento e La valle, in cui si esplicita la volontà di non indulgere nell’elegia e di concedere la morte ai morti, per tornare infine “sui propri passi”). A proposito della raccolta Nel magma si è anzi ravvisata l’intenzione dell’autore di rappresentarsi come imputato di fronte alle plurime rivendicazioni dei personaggi evocati, come se il poeta entrasse «nel mondo non interrogando il mondo […], ma facendosi interrogare dal mondo» (l’affermazione è di Mario Specchio). Lo stesso Mengaldo notava un eccesso di «compiacimento per la propria esperienza d’umiliazione», dando un giudizio alquanto riduttivo di quest’opera – mentre Caproni ne evidenziava il valore risolutivo, da parte di un poeta «che da anni ormai sta lavorando oltre che per sé per tutti noi (anche per quelli di noi che amano definirsi suoi antagonisti)».
Inizia qui il viaggio luziano di ricerca dell’alterità, di accoglimento all’interno del poetico di ciò che inizialmente sembrava a esso negarsi. Questo atto d’umiliazione diventa necessaria premessa per il superamento della prospettiva soggettiva (l’elevazione esistenzialistica dei moti psicologici personali a paradigma universale), iniziazione umana e letteraria di estroversione o, meglio di abbattimento dei confini fra interno ed esterno, fra coscienza e storia.
Non è possibile, a questo punto, analizzare gli sviluppi che si hanno nei successivi libri (Su fondamenti invisibili, Al fuoco della controversia), in cui l’orientamento complessivo si può approssimativamente risolvere nella ricerca di una completa aderenza fra la voce del poeta (che scopre come la vita «crea / nel molteplice l’unità» e dal Fiume giunge al Mare aperto, «Nel più alto punto / dove scienza è oblio d’ogni sapere», liberando dal peso di ogni giudizio la «vita fedele alla vita») e gli eventi nel momento della loro appercezione. In percorsi poematici in cui l’io poetante non si distingue più nettamente sullo sfondo delle vicende e dei pensieri, propri o altrui, Luzi adotta una dizione fluida (abbandona la versificazione tradizionale a vantaggio di una metrica sempre più libera che avvicina l’andamento sintattico alle movenze della prosa, senza perdere tuttavia in raffinatezza letteraria), pronta a rovesciare subitamente il punto di vista sulla realtà, anche a costo di smarrire “il filo dell’avvenimento” nel passaggio da un frammento all’altro. Attraverso un poema per improvvisi bagliori e lacerti, ci si inoltra nel flusso di pensieri, figure, eventi reali e immaginari che costituiscono una diversa memoria, non più ancorata sul passato dell’ego («Bruciata la materia del ricordo ma non il ricordo / […] / Ricordo senza limiti, ricordo senza corpi né ombre», ma siamo già al libro successivo), ma aperta al cosmo, al punto incandescente in cui passato e futuro si ricongiungono al presente (e bisognerebbe interrogarsi tanto sulle influenze di dottrine orientali, sulla poesia luziana, almeno quanto sullo sviluppo della concezione del tempo agostiniana).
Si è compiuta, in altre parole, una sorta di rivoluzione copernicana nella poesia di Luzi, la fonte della cui voce non risiede più nel soggettivismo lirico, ma fluttua all’esterno di volta in volta assumendo nuove prospettive di approssimazione, in un dilemmatico inseguimento, alla verità.
Oltre il varco della letteratura
Il viaggio nel magma che si è appena iniziato non potrà forse nemmeno avere approdi. La spinta decisiva sembra venire dalla presa di coscienza di un equivoco sottile che doveva ancora essere denunciato, anche se proprio su di esso si fondava l’apprezzamento delle opere precedenti, quelle più vicine a un gusto “realistico”, per così dire. L’equivoco consisteva, appunto, nel preteso realismo di un discorso poetico centrato sull’io. Non si tratta, a ben vedere, di una contraddizione in termini? Come può emergere la realtà attraverso lo specchio deformante, anche in senso ideologico, dell’io? Non è, l’io, una entità oggettivamente discutibile?
Questo ripensamento implicito comporta anche l’abbandono dell’idolatria dell’arte, il superamento dell’illusione del valore assoluto dell’atto creativo, che pretende di imprigionare lo «spirito nella lingua», il «fuoco nella materia» che la storia umana ha smarrito o mai riconosciuto («L’immemorabile evangelio», infatti, «cova l’incendio» «sepolto nelle rocce»).
Siamo, con questa ulteriore presa di coscienza, a Per il battesimo dei nostri frammenti, libro propiziatorio fin dal titolo, e più precisamente alla sezione d’apertura, significativamente intitolata Dizione. Qui, il poeta si interroga circa un fantomatico «avvenimento» che ha luogo oltre «la lingua e il testo» e riconosce uno scarto fondamentale fra la realtà e la capacità dell’uomo di significarla: «sopravanzano le cose il loro nome». In modo più esplicito che altrove, qui la poesia di Luzi si affaccia sul sacro, si pone la questione della Parola. E, questa volta, l’impresa non può essere assunta al di qua degli schermi della letteratura: «la vita si cerca dentro di sé», oltre «il giogo della metafora».
Si tratta, se non di una crisi, di un profondo ripensamento dei fondamenti cristiani. Si rilegga, in merito, la poesia Abiura io? Chi può dirlo [5], nella quale il nostro, pur attraverso un gioco di specchi (il testo è definito una «epifania di Betocchi»), sussume a proprio paradigma il percorso dell’amico e «maestro».
La poesia si espone al sacro
Ci chiedevamo in che modo Luzi si approssima al sacro, quali sono le conseguenze nella voce del testo di questa sua altissima scommessa.
Già abbiamo accennato alla perdita dell’identità dell’io poetico, che non si trova più nella condizione di difendere i propri sentimenti, pensieri e azioni. Il soggetto delle poesie non si staglia come un’entità autonoma: i frammenti da salvare sono «nostri», le minime vicende personali non contano più in quanto tali ma in quanto determinazioni particolari di un unico canto, più universale. «Come pensarlo soltanto / d’avere io quello che le sassifraghe non hanno»? Anche il “grande codice” della natura, tema centrale delle interrogazioni delle ultime raccolte di Luzi, rientra come cifra segreta di questa unità non data, ma da invenire. Se una grazia esiste nelle cose, essa deve rilucere in tutte le forme di vita, altrimenti è privilegio che nasce dalla proiezione dei desideri e dei limiti umani.
Da una centratura psicologica della voce del poeta siamo giunti a una centratura “creaturale”.
Il moto di approssimazione al sacro, può avvenire infatti solo per il tramite di un atteggiamento non supponente, non autodeterminativo. Se il poeta pretendesse di disporre del fuoco della materia, come nel grande sogno romantico, questo gli si ritorcerebbe contro. Egli non può nominare il sacro direttamente, deve anzi diffidare della propria voce se vuole mantenere integro il mistero.
La nuova dizione poetica, pertanto, si attua nel mare aperto delle possibilità, è interrogativa, essenzialmente dilemmatica. Essa non riposerà in alcuna espressione asseverativa, anche se risulterà infine patente la valenza positiva che assume, non precludendosi a priori alcuno sbocco, superando in tal modo l’impasse della via negativa dell’inchiesta intorno allo statuto delle cose, eletta dalla linea dominante del nostro Novecento. I dilemmi, sia chiaro, sono fondativi: tutto questo discorso resta un pur poeticissimo delirio o ha qualche fondamento? Le affermazioni del poeta sono illusioni o esperienze concrete? Siamo dentro o fuori la realtà? E se anche si trattasse foscolianamente di illusioni, perderebbero il loro valore, dal momento che l’uomo ha perduto definitivamente la propria nefasta sicumera?
Anzitutto, queste sono le stesse domande che si ripete l’autore, di poesia in poesia.
A queste altezze di riflessione, il poeta si avvicina all’ineffabile con atteggiamento dantesco, senza esasperazioni, accettando la relatività della dizione e la sua intrinseca fragilità. Anche tipograficamente, i versi si spezzano sulla pagina come abbandonandosi a uno spontaneo anelito di significazione, in una sorta di sismografia del senso che emerge senza dover rendere conto di alcuna forma preordinata (il verso non deve preesistere, ma risultare, come spiega l’autore). «Dove stava la verità? – Non stava, / era, cioè diveniva / se stessa continuamente. / Se stessa o la sua ultramutevole apparenza?» «Sei tanto lontano / da non poterti raggiungere / o senza avvedermene / ti ho oltrepassato…/ uscito dalla parabola / tu o io dall’inseguimento?». Se una voce esiste, oltre gli scogli dell’ego, indistinguibile dalle cose e dagli eventi, bisogna abbandonarsi a essa, farle spazio, castigare le intenzioni dell’io («Deserto – quale deserto? Questo, / questa vacanza / di umanità nell’uomo»), sfiorando anche l’annullamento («lei e io, equiparati a zero / da una celestiale algebra»; poi il poeta si interroga: Tutto perso, tutto parificato?), pronti però a riconoscere che, malgré tout, non si perde nulla: «C’è tutto, tutto, / tutto incredibilmente», la realtà non si perde («Voce ancora umana che mi parli non so da dove / per tutto il tuo discorso / non vengono / mai meno i monti»). Anche la primavera ritorna, riportando la vita al momento della sua generazione, sempre nuova, tuttavia, giacché nulla si ripete senza che vi sia un acquisto di coscienza: «E ora, dopo un calo di forze, eccolo / quell’occhio aprilino è la risurrezione, / la resurrezione è quel fuoco d’acqua e di smeraldo, / quelle ciglia, quella trasparenza implacabile / […] / Oh vittoria, balbetta nel suo sgomento lei. / Vittoria, vittoria impietosamente»
Il celestiale appuntamento
Le ovvie perplessità che suscitano simili affermazioni, si accrescono con gli ultimi volumi, Frasi e incisi di un canto salutare e Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Se, infatti, Per il battesimo dei nostri frammenti sembrava ancora mosso dall’urgenza di mordere la realtà, seppure da questa prospettiva inconsueta (un titolo emblematico in tal senso è quello della plaquette Reportage), il peso referenziale delle raccolte più recenti sembra risolto in un immaginario tutto interiore, abitato da figure, come per esempio i Magi o i protagonisti del viaggio di ritorno di Simone a Siena, più o meno fittizie e interlocutorie.
Ma questo è un corollario che deriva dalla materia stessa del canto poetico, dall’impossibilità, cioè, di guardare al sacro se non per speculum et in aenigmate. Varrà la pena sottolineare, tuttavia, che anche le apparizioni più evanescenti lasciano trapelare la loro incidenza simbolica e allegorica. Simone Martini, pare persino banale affermarlo, è figura anche di Luzi, pur essendo già altro, rivendicando la propria autonomia a circuito poetico attivato. Il problema dell’adesione del nome alla cosa è d’altronde quello da cui prende l’avvio, lo abbiamo visto, l’inseguimento a una lingua che arda al fuoco della metamorfosi, sospesa inevitabilmente fra gli abissi dell’oscurità gratuita e della «disabitata trasparenza» («Lingua – / acqua dal suo primevo. / Acqua, lei, in alto / dalla rupe / appena dirocciando. / Luce da quel solare scintillamento? / O brividi d’oscurità? / L’una e gli altri, certo, / ancora non comprendevo…»). Seppure in modo traslato, il poeta continua a chiedere che la parola giunga al «celestiale appuntamento» recando almeno memoria della cosa e del poeta.
Si legga questa memorabile poesia dal Viaggio di Simone Martini:
Rimani dove sei, ti prego,
. così come ti vedo.
Non ritirarti da quella tua immagine,
non involarti ai fermi
lineamenti che ti ho dato
io, solo per obbedienza.
Non lasciare deserti i miei giardini
d’azzurro, di turchese,
. d’oro, di variopinte lacche
dove ti sei insediata
. e offerta alla pittura
. e all’adorazione,
non farne una derelitta plaga,
. primavera da cui manchi,
mancando così l’anima,
il fuoco, lo spirito del mondo.
Non fare che la mia opera
ricada su se medesima,
. diventi vaniloquio, colpa.
Così il pittore (il poeta) si rivolge alla donna e alle proprie figure, avvertendo che la vera e più profonda dissacrazione sarebbe cercare «lo spirito del mondo» fuori di esso, fuori dell’incarnazione.
Non è questa, purtroppo, la sede per analizzare in modo dettagliato tutti i temi posti in essere in queste recenti raccolte e le scelte stilistiche che essi impongono. Sarebbe particolarmente interessante, ad esempio, approfondire la concezione luziana della memoria e del tempo con la relativa simbologia (le stagioni, l’alba), che si riconnette, come accennato, alla concezione della natura. Il piano metalettario (ovvero la riflessione intorno alla lingua e alla poesia), inoltre, si sviluppa di libro in libro con accumulo di riferimenti almeno quanto si evolve l’immagine del femminino. Si potrebbero persino cercare, nelle magiche caverne della poesia luziana, le vene sottili di una ispirazione civile, ma tutti questi spunti finirebbero per diventare arbitrari per eccesso di approssimazione. D’altronde, essi andrebbero organicamente sviluppati in rapporto non solo a tutto il lavoro poetico di Luzi, che attraversa ormai il nostro secolo quasi per intero, ma anche alle riflessioni teoriche e soprattutto al teatro, che proprio in questa sua ultima fase creativa assume un valore sempre più centrale.
Se, tuttavia, dovessimo chiederci quale sia la manifestazione tipica del sacro, accanto a quella della donna, credo si potrebbe rispondere: la luce. Si può infatti parlare, in merito alle ultime opere di Luzi, di una fase paradisiaca, giustificata dallo stesso autore e dal suo aperto confronto con la terza cantica dantesca. Approssimandosi al sacro, il poeta si immerge gradualmente in una luce sempre più sfolgorante e intensa, non tuttavia devastante, ma trasfigurativa.
Una almeno sommaria fenomenologia della luce divina la ricaviamo da alcune sue riflessioni:
La luce è insieme l’evento e il linguaggio. Non possiamo d’altronde non lasciarci convincere dal sottinteso dantesco il quale sembra dire: è impossibile parlare della luce se non luminosamente così come non si può parlare del sogno se non sognando e della visione se non vedendo. Da questa assoluta immedesimazione tra tema e modo, che supera e annulla la metafora, prende avvio l’opera celeste, l’alchimia suprema del Paradiso.
[…] Continua poi con altri prodigi di trasparenza e di ubiquità la cui premessa è la onnipresenza della luce – anche «luce intellettuale» – e il suo imperio nel quale le leggi conosciute della cosmologia e della geometria sono trasformate. […] Ciò che noi possiamo umanamente concepire è, all’interno dello splendore – eccettuati i momenti di eccesso e dunque di abbaglio – la differenza, lo scarto. Sono per noi «meravigliosi» i modi paradisiaci del loro accadere e del manifestarsi, ma in sé sono, dicevo, concepibili. Solo dalla differenza e dalla variazione possiamo desumere il dinamismo che è inseparabile dal linguaggio. […] Tutto ciò che è detto è immediatamente in atto: hic est. l’allegoria orchestrata e non meno il simbolismo puntuale sono superati a questo livello dalla energia intrinseca della luce e delle sue figure, e della musica che coopera spesso a definirle.
[…] L’aspetto eracliteo e quello parmenideo del pensiero di Dante si conciliano e si pongono definitivamente nella sommità dell’immaginazione poematica. Quiete e movimento dentro lo splendore continuo esauriscono esteticamente le disposizioni intellettive fondamentali della mente umana. […] Quanta oscurità e quante incertezze crepuscolari lo hanno preparato a questo scenario che non elide i precedenti, né tanto meno li oblitera. È una luce, quella, pervasa dal molto buio e della molta opacità che ha sconfitto: e può, in virtù di quella faticata vittoria, esultare nei suoi giochi, incantarsi nei suoi effetti […].
Il linguaggio costante e movimentato della luce non è fenomenico ma, come sarà detto solennemente, «intellettual piena d’amore». Si vale di tutte le accidentalità dell’ottica, ma è sempre di più scopertamente la gioiosa potenza d’amore che in lui risiede e in lui si manifesta […].
Luce nella luce: così si esprime il massimo della presenza e dell’appariscenza. […]
All’ultimo e supremo momento la luce è divenuta puro sguardo; sguardo reciproco tra l’uomo e Dio che nella sua profondità tutto contiene unitariamente ciò che «per l’universo si squaderna». Lo sguardo è consentito dall’abbondante grazia e prodigio di estreme rivelazioni, dette però come reminiscenze supposte, perché la memoria e la lingua sono state sopraffatte. […]
La luce è la vita, e la vita non ha termini di confronto; non ha neppure misure calcolate.
La luce del Paradiso è il ritorno alla vita: è una luce di resurrezione. [6]
Se la nostra prospettiva era, in fondo, quella di spiegare Luzi con Luzi, non credo sia necessario aggiungere altre parole a queste, che mi sembrano il miglior commento all’ultima, «meravigliosa» poesia con la quale si chiude Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini:
È, l’essere. È.
Intero,
inconsumato,
pari a sé.
. Come è
diviene.
. Senza fine,
infinitamente, è
e diviene,
. diviene
se stesso
altro da sé.
. Come è
appare.
. Niente
di ciò che è nascosto
lo nasconde.
. Nessuna
cattività di simbolo
lo tiene
. o altra guaina lo presidia.
. O vampa!
Tutto senza ombra flagra!
È essenza, avvento, apparenza,
tutto trasparentissima sostanza.
È forse il paradiso
questo? Oppure, luminosa insidia,
un nostro oscuro
ab origine, mai vinto sorriso?
Qui, il fantomatico avvenimento si compie. Siamo al massimo punto di prossimità al sacro, anzi, ci troviamo di fronte alla luziana e novecentesca visio Dei. Il celestiale appuntamento si compie, pur all’altezza in cui scienza e oblio si ricongiungono e le parole significano senza affermare, senza pretendere di trattenere in sé il fuoco entro cui loro stesse ardono. «O vampa!», «tutto trasparentissima sostanza».
La noesi luziana, immersa nei flutti interminabili delle interrogazioni raziocinanti che si ripiegano sulla stessa visione ultima, che termina infatti nella sospensione di ogni certezza, riporta il sacro entro una concezione dinamica. L’intuizione non è assoluta, ma reimmersa nel divenire. Quello che infine il poeta ci suggerisce è che il sacro non è altro che la vita stessa. Eppure, questa semplicità della visione è una “vittoria faticata” che non annulla il viaggio. La metamorfosi, come ha scritto Giorgio Mazzanti, si fa trasmutazione, ma la soglia è impercettibile e nel passaggio nulla si perde [7].
Ed è questo, mi sembra il miglior augurio che Luzi poteva fare a noi e a se stesso.
Conclusione
Come si deve interpretare il viaggio poetico di Luzi? Da quale altezza (letteraria, poetica, umana) dobbiamo assistere alla manifestazione sublime di questa «luce intellettual piena d’amore»?
Nessuno pretende che si disconosca una salutare perplessità, specie in un’epoca, come questa, di orfismi a portata di mano e di affermazioni tanto altisonanti da apparire pretenziose, quando non pittoresche. Ma a giungere così vicini al mistero, lo ricordiamo, è il poeta che ha riconosciuto l’onore del vero, il poeta che più di ogni altro nel nostro Novecento non si è accomodato sugli allori, ma si è rimesso sempre in discussione, anche in tarda età, con la sua opera.
In questa sede, ci preme sottolineare, in conclusione, almeno questo: l’estasi cercata, lungo tutto l’itinerario poetico luziano, ha definitivamente perduto i tratti della stasi; la vicissitudine sospesa si è chiarita non come assenza di contrasto, ma sublimazione della controversia a un livello più alto, superando la via negativa esperita dalla poesia del Novecento a vantaggio di una piena, seppur problematica, dicibilità della presenza. Presenza che contiene forse la logica umana, ma non ne è contenuta; presenza che ci narra di una dimensione ulteriore, oltre la siepe leopardiana e il muro montaliano, ancora immersa ai nostri occhi imperfetti nella luce del sacro e del mistero.
NOTE
[1] Si presenta qui, nella stesura originale (dunque secondo un registro maggiormente discorsivo) la relazione per la seconda giornata del Convegno di Firenze Il sacro nella poesia contemporanea, 28-29 ottobre 1997 (Santa Croce – Certosa), organizzato dall’Associazione “Segni e Tempi” di Mario Luzi e dalla rivista «Atelier», con interventi critici di Mario Luzi, Antonio Prete, Marco Guzzi, Fabio Finotti, Silvio Ramat, Emerico Giachery, Giuliano Ladolfi, Franco Loi e Giorgio Mazzanti. Gli atti sono stati raccolti nel volume Il sacro nella poesia contemporanea, a c. di G. Ladolfi e M. Merlin, con un testo introduttivo di Mario Luzi, Novara, Interlinea 2000. Nello specifico, l’intervento si trova alle pp. 73-83 sotto il titolo Oltre il varco. Il viaggio poetico di Mario Luzi verso il «celestiale appuntamento».
[2] M. Luzi, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a c. di S. Verdino, Casale Monferrato, Piemme 1997
[3] Caccia, Dal fondo della campagne, in Tutte le poesie, Milano, Garzanti 19912, p. 280. Si osservino anche le ripetizioni di «Tempo» e «morti/e» e le allitterazioni della m, della p, della v, in un ordito franto regolarmente dall’occorrenza della f.
[4] La colonna, Dal fondo della campagne, Tutte le poesie cit., p. 303.
[5] Qui forse si avverte in modo esplicito lo stacco fra ricerca del sacro (la vera fede, inquieta e aperta alla problematicità delle cose) e la «teologale ultrasuperbia» che può insidiarsi in qualsiasi confessione. Ciò giustifica in parte la maggior attenzione posta sulle ultime opere nel presente scritto. Un’analisi esaustiva della religiosità di cui è intrisa tutta l’opera di Luzi (che si è più volte definitivo un autore ‘molto lavorato’ dal cristianesimo) non potrebbe, naturalmente, prescindere nemmeno dai testi imbrigliati ancora in un certo estetismo e non “esposti”, dunque, alla ricerca della verità al di fuori dei recinti della letteratura.
[6] Traggo queste riflessioni dal libretto di M. Luzi La luce (dal Paradiso di Dante), Forte dei Marmi, Galleria Pegaso 1994.
[7] Il riferimento è al volume Dalla metamorfosi alla trasmutazione, Roma, Bulzoni 1993.
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