Imparare a bottega (1)
Nell’occasione di un confronto con un lettore su un brano del mio romanzo, sono tornato su un tema a me caro: il ragionamento applicato al testo, per verificare nei tratti concreti dell’opera le varie opzioni stilistiche. Credo che l’arte si apprendi fondamentalmente ancora a bottega.
Penso addirittura che questo esercizio sia uno dei più validi in assoluto per esercitare l’intelligenza, perché impone di comprendere le ragioni altrui e di affrontare la complessità. Non è un caso che abbia voluto chiamare la rivista che fondai nel 1996 con Giuliano Ladolfi “Atelier”, ma, soprattutto, non è un caso che, oltre al lavoro evidente sulle pagine di quel periodico, con le recensioni, le poesie e le riflessioni critiche, ci fossimo imposti un immenso lavoro sommerso di lettura e di confronto con tutti gli autori che ci proponevano dei loro componimenti.
C’è però un principio fondamentale che non va perso di vista. La poetica che muove un artista non può, da sola, determinare il valore di un’opera. Ciò che conta nell’attribuzione del valore è un riconoscimento storico che sovrasta l’interpretazione individuale. Se nella bottega del maestro apprendi una poetica, fuori dovrai confrontarti con l’estetica del tuo tempo.
Tralasciamo il fatto che, oggi come oggi, la nostra epoca non è in grado di elaborare un’estetica condivisa, per cui ogni singola poetica troverà consenso secondo modalità varie: perché è una poetica scontata, perché è funzionale (volente o nolente) al Mercato, perché “fa scuola”, e così via.
Questo “combattimento” fra la poetica individuale e il consenso estetico è sempre interessante.
Per esempio, il mio interlocutore percepiva un eccesso di aggettivazione nel brano già discusso. Mi ha proposto come esempio questa frase specifica: “Lesse l’incipit. Lo colse l’istinto alfieriano di scaraventare il manoscritto fuori dalla finestra. Resistette.” Secondo lui, elidendo l’aggettivo “alfieriano”, che giudica giustamente anche sgradevole in sé, la frase risulterebbe “molto più efficace, perché diventa una sequenza di immagini rapidissime”. Le sue motivazioni sono impeccabili e corrispondono alla poetica del lettore.
Perché io, invece, ben consapevole delle sue ragioni, non mi sognerei mai di rinunciare a quell’aggettivo? Gli ho risposto in questi termini: “se quella frase vivesse da sola, per me tu avresti perfettamente colto un difetto. Ma quella frase è una cellula all’interno di un organismo più ampio. Le mie ragioni (sperando siano le ragioni del testo) che non pretendono di aver ragione, sono dunque le solite:
- la caricatura della scena sta per giungere all’acme. Serviva proprio un aggettivo reboante e persino sgradevole
- non voglio perdere l’isotopia del brano che attiva il richiamo alla letteratura. Il prof stava preparando la lezione, la sua mente era persa nelle sfere letterarie (Carducci…), questa arriva e gli propone “poeticume”, la sua reazione “doveva” essere “letteraria” (e sempre caricaturale)
- in generale, questo mio romanzo è anche un romanzo che vuole fare i conti con il postmoderno (ci sarebbe una citazione chiave, al suo interno…), quindi ha per tema anche la letteratura. Chiama in causa, direttamente o indirettamente, tante voci (“Tutte le voci…”). A proposito di Alfieri, per esempio, c’era inizialmente un brano che poi alla fine ho tolto (ed è più doloroso, credimi, togliere un brano che un aggettivo…). Se hai voglia di leggerlo, sta qui“
Da queste ulteriori precisazioni trarrei due conclusioni:
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la ragione, laddove ci sia un minimo di consapevolezza, non sta nell’autore né nel lettore; semmai, nel testo, anche se quest’ultimo non parla una volta per sempre, ma viene perennemente interpretato, secondo l’estetica dell’epoca
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per ottenere il successo immediato, un autore dovrebbe compiacere il proprio tempo; se vuole invece vivere fino in fondo la propria esperienza artistica come avventura e ricerca di senso, la sua poetica dovrà inevitabilmente combattere i gusti dell’epoca, o tradirli in modo strategico, nella speranza di parlare ai lettori del futuro – anzi, nella speranza, addirittura, di suscitarli, di permettere a una nuova forma di umanità di emergere.
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