Imparare a bottega (3)
Prosegue la pubblicazione di lettere avviate ieri.
27 febbraio 2000
Gent.ma Maria Pia,
[…] In onore di neve è un libretto che mi ha sorpreso. Potrà forse immaginare quanti libri semiclandestini riceviamo in redazione e quanto sia difficile, solitamente, trovare in essi qualcosa di interessante. (Ma ho sbagliato termine: tutti sono interessanti in quanto aprono a un nuovo rapporto, sono un piccolo incontro e una testimonianza, nel senso forte di trasposizione ad altri di un pezzo della propria vita. Intendevo dire, con interessanti, libri che oltre alla vita riescono a essere partecipi anche di un altro ordine di cose: la letteratura).
[…] Non entro nel merito del mio apprezzamento perché gli aspetti positivi della sua poesia sono molteplici e messi già in evidenza dagli stessi scritti di Manzoni e Valesio. Vorrei tentare qualche considerazione “provocatoria”, nel senso più amichevole possibile. Nella lettera scrive: «non riesco a dilatare i confini della mia solitudine, non solo di donna ma anche di scrittrice», facendo riferimento anche alla sua solitudine “geografica”, spezzata solo da saltuari, ma già selezionati, rapporti con alcuni poeti e scrittori. Ebbene, non deve farsi un cruccio del suo isolamento. Le assicuro che anche frequentare molti poeti, a Milano e in tutta Italia, come sto facendo io, non allevia la solitudine, ma forse la acuisce (per chi almeno non si lascia incantare dallo sfolgorio delle apparenze). Le vie con cui si è investiti da una tradizione, per uno scrittore, sono molteplici, misteriose e spesso assolutizzate da qualche forma di isolamento.
Non mi prenda per un moralista. Non cerco affatto di consolarla, anzi. Già mi stupisce il fatto che lei non parli di uscita dalla solitudine, ma solo di dilatazione: c’è qualcosa di vero in questo. La mia provocazione voleva essere utile dal punto di vista della scrittura. Mi spiego: dal punto di vista umano lei deve fare il possibile per risolvere quella solitudine, dare sfogo al “fiume in piena” che trattiene per farsi conoscere: le scelte spettano a lei. Può risolvere il suo isolamento spostandosi, accentando così i disagi conseguenti, oppure restando dov’è, con lettere, letture, telefonate e quant’altro. Ma dal punto di vista della scrittura lei deve liberarsi da quel sottile senso di colpa o di inferiorità che le deriva dal sentirsi intellettualmente isolata, altrimenti questo le si ritorcerà contro, in qualche modo. Lei deve fare di Lentiai il centro del mondo (Riccardi tentava qualcosa del genere, nel suo Il profitto domestico, facendo di Cattabiano il centro del suo universo poetico; con la differenza che lui da quel mondo paterno e agreste ne è «ferocemente all’esterno»: vive a Milano e lavora in Mondadori, infatti). L’esempio di Zanzotto mi sembra persino scontato.
Come si traduce questo possibile limite nella sua poesia? In testi come la memoria demente o Ruanda, dove confonde la cronaca con l’evento. Non intendo dire che lei non può scrivere di determinate cose oppure che non siano poetici temi “civili”: intendo solo dire che è veramente difficile trattare certe cose. Bisogna parlarne senza lasciare intendere che il nostro rapporto con quegli eventi è inautentico, veicolato da un video: si taccia del video o del proprio implicito senso di colpa per la distanza-isolamento-non partecipazione a quel fatto, e si parli di quel fatto liberamente, senza complessi di sorta.
Il senso del suo isolamento si traduce anche in una poesia che forse indulge all’occasione. Nella continuità di fondo di un ricco immaginario creaturale, con riferimenti precisi e fedeli (e già simbolici) ai suoi luoghi, le poesie si staccano tuttavia come pagine di un calendario. Perché non “dilatare la solitudine” delle sue singole poesie entro una solidarietà poematica, più o meno esplicita? Anche qui, mi spiego: non vorrei spronarla a scrivere poesie “lunghe”: l’importante è che ognuna sia un quadro di una rappresentazione più ampia, come i singoli giorni sono riassunti nella stagione, nell’anno, nella vita di una persona. Fare di Lentiai il centro del mondo: sentire nella quercia abbattuta un senso che riguarda tutti, non solo la sua persona. Un primo passo da compiere potrebbe essere quello di rinunciare alle date in calce ai testi: le annoti per sé, ma non le espliciti, se non in casi particolari e significativi (quando per esempio da una data si rende più esplicito il riferimento oscuro a qualche evento di cronaca presente nel testo).
Questa, però, è solo una bruta provocazione. […] Non la invito infatti a “falsificare” la sua testimonianza (rischio comunque reale per chi tenta una lettura meno autobiografica, o meno scopertamente autobiografica, della scrittura), ma soltanto a renderla meno intellettualmente timida, più consapevole di sé e del mondo, non viziata da alcun senso ingiustificato di inferiorità.
* * * *
16 apr. 00
Caro Fabio,
nonostante le bellissime righe che mi hai dedicato […], ti dico proprio che più provo a rileggere Intersex e più mi sembra che sia una sacrosanta, purissima e per nulla volgare cazzata. Roba da collegio, in notti non prossime a esami. Carta stampata, magari riciclabile.
Esagero, naturalmente, perché lo terrò per rileggerlo meglio: chissà che non riesca a decrittare qualche indirizzo da visitare assolutamente. Male che vada, potrò in futuro ricattarti.
A metà strada fra questo tuo lato goliardico (confesso che già a un secondo ascolto pure dei tuoi sonetti pornografici li sentivo insostenibili, non certo per la mia dissolutissima morale, ma per il senso della resistenza poetica) e le cose che più mi corrispondono metterei Play Station; già qui, in questo accostamento, sento consumarsi una poetica che non mi interessa, almeno finché portata avanti in questi toni. Ma è già un’altra cosa, questo testo.
Il corso di Tradate, al lato opposto, è grazioso ma anche un po’ manierato: preferisco l’incandescenza impura e a tratti un po’ ingenua di Lullaby.
Ma dove è finito il poeta capace di chiedere a ogni porta della sua pazzia?
Ne riparleremo davanti a un piatto di risotto, e con le donne al fianco. Che è meglio.
* * * *
5 giu. 00
Caro Francesco,
[…] Purtroppo non sono nelle condizioni di organizzare un discorso articolato, perciò mi limito a riprendere ciò che ho appuntato accanto alle tue poesie, in modo forse disordinato, che ha il vantaggio di ripercorrere però il sentiero che tu stesso hai delineato, soffermandomi su qualche particolare esemplificativo. […]
Il tenore della poesia introduttiva è ottimo, si sente il peso di un Discorso in atto, apre molte implicazioni, crea dunque una prospettiva profonda che subito lascia presagire una voce molto forte. Ma può essere ancora un limite la struttura montaliana dell’ultima parte, che si apre peraltro con una formula stereotipa («Dico l’immobilità delle cose….»)
Il primo nucleo di testi trova una felice, sebbene tipicamente novecentesca, coesione intorno a un ricco bestiario di riferimenti. Mi sembri bravo a spingere su questo pedale senza eccedere nelle concessioni a una poetica altrimenti troppo prevedibile e stucchevole. Bisognerebbe forse verificare la possibilità di qualche taglio o rivedere alcune scelte lessicali («ebbra»), ma il pericolo maggiore resta quello della “poetica su tema”. Si nota forse qualche strutturazione troppo trasparente: procedi a tratti per accumuli (anch’essi montaliani) e per parallelismi («È come… È quando»).
Mi chiedo se debba essere ancora infranto il limite dell’ironia, di una poesia ricca di sapienza letteraria che esorcizza il proprio disagio presupponendo verità che lascia intuire, ma non dice. Un certo minimalismo che si sente saggio (nel senso della propria consapevolezza intellettuale) e che si limita alla battuta, all’immagine conchiusa e lasciata nel vuoto, mi sembra ancora molto novecentesco. Forse ci sono lezioni poetiche che devi metabolizzare (quali sono le tue letture? Quanti anni hai?)
Poesia Lucciole. Mi sembra davvero una caduta linguistica, non tanto perché un linguaggio così crudo non ha senso, ma perché non fa senso nel “sistema” linguistico, tutto sommato attenuato, che finora ti contraddistingueva. L’understatement si rompe bruscamente. La «minuscola fica» mi ricorda De André, ma davvero cadi nella canzonetta (anche per colpa di rime troppo esibite): «E quasi piangeva non sapendo / il significato dell’amore, / se il piacere che avrebbe provato / fosse un piacere onesto o fosse peccato». Più che banale.
Credi, ho un curriculum fiacco: bella, ma non sarà una nuova versione di tanti inetti piccoloborghesi già visti e sentiti in tutte le salse? Attento a creare un tuo personaggio. Ci sono tante persone reali, invece, che chiedono di essere dette con amore, e senza pietà e commiserazione.
Dadi. È una boutade. Vanno bene queste poesie-gong, da far risuonare come moniti ogni tanto, nella raccolta. Ma si può scavare di più.
Noto che il nucleo delle prime poesie è stato sostituito da una volontaria immersione nel mondo contemporaneo, e questo è ancor più dannoso perché si presta con più forza a farsi trasportare da una poetica, non da una poesia libera. Ne è una nuova spia linguistica la poesia Hacker (e successive): le scelte lessicali sono tutte marche evidenti, generano una volontaria parodia. Le lascerei all’ultimo sarcastico Montale, al suo umore nero (o alla sua morsa oraziana: la tua epigrafe è giusta).
Mi piacciono le impennate di preghiera, del tipo «Dio salvi i muratori», «Dio delle derive»… Ma un mio amico dice una cosa molto giusta: Dio è un giocatore da panchina. Devi farlo entrare solo quando sei disperato, non accetta staffette continue. In altre parole: non cadere nell’automatismo con temi così importanti.
Togliere il bruttissimo: «sei negli occhi del ladro, / nel labbro viola dell’ubriaco, / nel viados che spasima» ecc. Se non è canzonetta, è un querulo abbandono domenicale.
Mi chiedo a questo punto se gli a capo interni al verso («Esistono cose eterne, vivono») non siano altri debiti non risolti verso qualche tradizione tua, dal momento che li sento inerti nella tua versificazione. Il loro uso discreto mi sembra un tributo più che a Luzi, che ne fa un uso radicale, a Rondoni, che già attenua la valenza di tale strategia. Ma in fondo questa cercata contemporaneità (anche linguistica) con tanti sbalzi verso la preghiera, mi ricorda davvero da vicino il buon Davide, le sue/tue «tangenziali».
La mano non è mi pare un’altra anomalia, questa volta anzitutto ritmica.
Banali e ribattute le chiusure di Circo, ancora in struttura parallela e cumulativa.
Avvertiti questi limiti, la terza parte giunge all’acme. Una poesia come Preservativi la sento quasi come dettata da una spinta ideologica. Vuoi fare poesia su certe cose, buttandoti rondonianamente nel reale a tratti impoetico, giocando su marche linguistiche compiaciutamene impure (in una poesia come questa basterebbe togliere il titolo per cambiare molte cose) con atteggiamento a tratti pietistico. «Poi, quando mangio, / il televisore è spento / e io guardo le cose / sulla tavola» ecc.: ancora Rondoni. E se non lo hai letto, la consonanza è ancor più preoccupante e potrebbe riportare a fonti comuni.
Va poi molto di moda scrivere poesie sul supermercato. Magrelli lo fa sui giornali. Tu lo fai anche sui preservativi. Insomma, ci sono davvero tante marche moderne o postmoderne che si prestano al nostro discorso. Woody Allen docet, e sinceramente mi basta.
Rocco Siffredi? Ah!, eccola l’ironia, insieme al vezzo di essere moderni e di saper fare poesia su Internet, Pornografia, sui Nostri tempi… Proprio come nei concorsi letterari si leggono poesie sulla speranza, sul duemila, su Sarajevo, sui barboni, sul Giubileo….
Il calcio, ah, ecco un altro Tema dei Giorni Nostri. Da Talk-show.
Mi fermo qui, non trovo più appunti nelle ultime pagine. Probabilmente dovrei aver indicato con sufficiente cinismo (ma è questo che serve, di fronte alla poesia propria e altrui, nel momento del lavoro letterario) le questioni essenziali. Spero tu sappia riconoscere dietro questo cinismo la passione e la voglia di andare a fondo, di non fermarsi a pensare e a sentire a metà strada, che mi sembra tu condivida. Non ti ho indicato i molti versi splendidi né ho indugiato sullo spessore tematico e stilistico complessivo del lavoro che ci hai proposto, proprio perché non sopporta l’idea (mia, assolutamente opinabile) che quanto di buono stai coltivando venga compromesso da ciò che ho voluto sottolinearti.
Poi, magari si tratta solo di fisime personali…
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24 dic. 00
Caro * * *,
la mia attenzione è stata sicuramente colpita, a partire dalla lettera, così sostenuta retoricamente che mi ha messo… in imbarazzo. Come fossi un letteratone imbalsamato (dio se passa il tempo!).
Beh, se fossi un letteratone imbalsamato, metterei giù adesso due righe di complimenti lusinghieri ma abbastanza vaghi, spronandoti a non abbatterti per le difficoltà che si incontrano nel cammino della poesia, e auspicando la pubblicazione del tuo libro (che non è discorso altro rispetto alle difficoltà della poesia, dal momento che il volume dovrai pagartelo).
E invece…
E invece mi sembra che il talento ci sia, nei tuoi versi, ma rischi di soffocarsi in qualche contorcimento intellettualistico. Mi sembra ci sia troppa enfasi, che i testi siano turgidi, e il linguaggio non abbastanza tagliente (piegandosi anzi nelle curvature dell’ironia, sulla quale ormai non scivola più nessuno, se non l’autore stesso… Montale è già saturo da un po’). Il lavoro sulla sintassi e sulle figure retoriche non viene illuminato da una sapienza filosofica che pure, sono sicuro, c’è (a tratti forse persino esibita), ma che non riesce a creare Visione, e ripropone il Discorso.
Sarei dell’idea di non pubblicare il canzoniere, ma non perché non sia già, comunque, un lavoro discreto, ma perché secondo me deve entrare felicemente in crisi. Inoltre, la * * * non è una buona casa editrice, e non è mai giusto pagarsi un libro. Se proprio vuoi avere qualcosa tra le mani che non sia la solita carta uscita dalla stampante o dalla macchina da scrivere e, nemmeno a Natale, ti vengono in mente valide alternative per spendere dei soldi, entra in una tipografia, e confezionati da solo il libro, risparmiando, ottenendo tutte le copie che in effetti paghi, diventandone insomma fino in fondo l’editore (dissolvendo il fantasma di editore col quale pensi di entrare in proficuo rapporto adesso).
[…] Insomma, non riesco proprio a dire tutto quello che vorrei in poche righe formali. La poesia è una faccenda davvero seria, e non si deve lasciar cadere nessun giudizio sulle cose, sia riguardanti direttamente la scrittura sia il mondo che, come un avvoltoio, le gira intorno, ansioso e famelico.
* * * *
18 marzo 2001
Caro Antonello,
il tuo è un dolcissimo errore giovanile, che avrei commesso anch’io. Dico dolcissimo perché il libro è bello, anche se a tratti mi sembra stucchevole nel simbolismo, lussureggiante nel linguaggio. Ma è fra le cose più buone che ho letto fra quelli della nostra generazione. Spero, però, che fra qualche anno riconoscerai il fallo: vorrà dire che sei cresciuto, che il tuo rapporto con la poesia è più rigoroso. Mi auguro non rimarrai, come capita a troppi, un eterno adolescente, e che i tuoi prossimi libri non siano accompagnati da prefazioni e quant’altro. La poesia chiede sacrificio, cioè il sacrificio dell’io. Reale, non poetico. Il cordone ombelicale da recidere non riguarda la tua scrittura, già deliziosa, ma il tuo rapporto con essa. Perché non ci deve essere confusione tra il corpo dell’autore e il corpo dell’opera (già, la spina dorsale…). Ma non voglio guastare con questo mio delirio la tua festa. Del resto, la mia considerazione è banale, a pensarci bene. Solo chi è pronto a non scrivere mai più nulla, è pronto a scrivere qualcosa sul serio, perché la materia gli è offerta dalla vita, improrogabilmente.
* * * *
6 aprile 2001
Gentile prof. * * *,
[…] Impressione prima: c’è misura, gusto, capacità di equilibrare la parola fra espressione emotiva, compostezza, autosufficienza dell’immagine. Sono poesie godibilissime, anche se magari la metrica risulta spontanea, alla fine anche prevedibile.
Il problema sorge dalla constatazione che manca qualcosa nel terreno in cui affondano: mi sembra si possa parlare di un ingrediente propriamente letterario. Se la meta da raggiungere per chi scrive è la sublime semplicità, essa deve risultare una vittoria faticata. Bisogna aver digerito e metabolizzato la tradizione.
Qui, però, urge una precisazione: non appartengo alla schiera di quelli che pretendono i poeti laureati (sebbene lei… lo sia), ma non bisogna nemmeno dimenticare che si sta parlando di letteratura. La grande letteratura nasce e risorge nella vita, ma deve anche strappare l’io del poeta a sé stesso, farlo smarrire nella selva oscura della tradizione, e fargli trovare un varco entro quel “campo comune”, quel luogo di senso sovrapersonale, che comprende ma trascende l’io, che è dato dalle forme, dai ritmi, dall’immaginario della letteratura. Il rischio, se non si fa questo, è di ricadere nel “poeticume”, in un bagaglio di albe e tramonti che rappresentano ciò che è scontatamente poetico, e invece non è il punto di partenza, ma di arrivo, della grande poesia.
* * * *
2 giugno 2001
Caro * * *,
sei una persona amabile, lo si capisce da come ti misuri con discrezione. Bisogna non prendersi troppo sul serio, ma portare avanti con serietà le cose in cui si crede: tu fai parte di questa categoria di persone, così rara da incontrare nel mondo della poesia.
Eppure, ti confesso un mio limite. L’haiku proprio non mi dice nulla. Lo so, è proprio un mio limite: sono sordo a questo tipo di poesia, sono troppo occidentale. Per me, l’unica strada verso l’oriente, è addirittura lo sfondamento dell’occidente…
* * * *
2 giugno 2001
Caro Tommaso,
sto rileggendo le poesie che adesso ci mandi strutturate in una raccolta. Sono testi ottimi e tu hai talento, su questo non c’è dubbio, ma…
Ma mi sembra di rileggere i sonetti che scrivevo io e che per fortuna nessuno mi ha mai pubblicato: adesso, col senno di poi, è un bene. Provo a dirti sinteticamente qual è il punto: adesso tu scrivi (e bene) da dentro le tue letture, sei ancora troppo schiacciato sui tuoi modelli. E non è un fatto di tracce da rinvenire nei tuoi versi, ma proprio dell’atteggiamento che li regge. Sono versi che devono ancora passare una soglia iniziatica. Eliot diceva: si è poeti solo dopo i venticinque anni. Io ho sentito scoppiare (Il cielo di Marte…) la bolla che mi imprigionava (e non sapevo, ed ero certo di no) quando ho chiuso con l’università, quando la prosa del mondo mi ha investito realmente, con le persone da accudire e il lavoro da trovare e non per mezzo della mia fervente attenzione.
Per questo Giuliano e io finora abbiamo, con una durezza che può venire solo dall’amicizia, evitato la pubblicazione su Atelier. So che tu senti la pressione delle tue ragioni, e non escludo nemmeno che, da parte nostra, ci siano incapacità di giudizio o troppa presunzione nella questione che ti ho sollevato. Ma non siamo ipocriti, e per questo non rimuoviamo nulla dalla nostra attenzione.
Del resto, il tuo lavoro è davvero ancora ingenuamente, adolescenzialmente esposto a derive francamente insopportabili, quando scadi nell’ironia o nel calligramma. Eppoi, questo è davvero un nostro limite, non sopportiamo l’intellettualismo: abbiamo pubblicato versi meno belli dei tuoi, ma forse più coraggiosamente esposti al dramma. Meglio il volo di Icaro che il risolino di chi “telavevadettochefinivacosì” mentre titilla i propri versi specchiandosi nell’acqua.
Comunque, ora ti scrivo per toccare questo nervo e proporti un medicamento. Ci sono infatti cose che pubblicherei sulla rivista (e suppongo che anche Giuliano sia d’accordo: invierò comunque anche a lui questa intempestiva comunicazione). Perché? Perché, come ti ho detto, sei bravo, e perché finalmente ho tirato fuori l’osso dolente, ragion per cui è chiaro che adesso la pubblicazione non è più una spinta per accogliere il tuo lavoro, ma una sferzata, che vuole rompere la schiena alla tua silloge, provando a selezionare i tessuti vivi da quelli cancerogeni (dal “nostro” misero punto di vista, è ovvio). Che ne dici?
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3 giugno 2001
Caro Matteo,
[…] Francamente non ne posso più di un simile atteggiamento poetico. Lo so che troppo coraggio può portare al delirio più comico e patetico, ma sono certo che la vera sfida, nella babele attuale, sia un’altra. Tutti gorgheggiano. Tutti sono bravini. Tutti sapidi di retorica e di cultura. Ma chi canta?
Le poesie che ho maggiormente apprezzato sono “Pomeriggio scandito dall’adagio della pioggia” che, sebbene con toni un po’ crepuscolari e scontati, mantiene calda e suadente la riflessione monologante; e “Sabato assonnato nella vertebra di un treno”, poesia in cui similmente trovi figurazioni dense per stringere le immagini e i pensieri.
Un tuo pregio assoluto è il “fiato lungo”, il tentare testi ampi e visionari. Il prezzo sono cadute nella banalità o nel cattivo gusto, come i versi nelle poesie che ti ho indicato: “per il triste spettacolo / di un clown che ripeterà le sue capriole altrove” e “come spermatozoi sul vetrino / di un microscopio”. Inoltre, qualche volta il verso pieno ti induce a sostare su troppi aggettivi e riempitivi vari.
Spero apprezzerai la franchezza.
* * * *
23 febbraio 2002
Cara Daniela,
sarò sincero: secondo me stai per andare incontro a una cocente delusione. Il mondo dell’editoria non può darti quello che cerchi, punto e basta. Potrai forse (te lo auguro, ma mi sembra che le porte siano chiuse) trovare qualche nuova sistemazione, ma dopo il periodo di grazia iniziale ti accorgerai che hai solo spostato il problema a un altro livello.
Il poeta e lo scrittore, ormai, sono uomini come tutti. È un bene e una ricchezza da sfruttare. Portiamo avanti i nostri mestieri (magari così impoetici, così lontani dalla letteratura) non come una croce, ma come il punto di partenza di tutto: la base di verità di una vita che, magari, sarà “fiorita dalla parola”.
Qui, il mio amore per la letteratura e l’intuizione della realtà del mondo poetico ed editoriale, mi ha dato la forza per creare qualcosa che non c’era: la mia rivista, lo spazio dove dialogo con gli altri, lotto, cerco di far nascere qualcosa e magari di smuovere il sistema. Ma è, e deve essere, uno spazio gratuito, una vacanza, un privilegio che responsabilizza. Me lo ricordo tutte le volte che in cantina (magari certi pomeriggi di Natale) imbusto numero dopo numero, passo la mano su tutte le etichette, riconosco i nomi di chi vorrebbe essere un poeta importante e non lo è, si lamenta, riceverà gratis la mia rivista, e non penserà nemmeno che forse potrebbe abbonarsi, perché tutto gli è dovuto.
Vedi, qui c’è molta poesia. In questa quotidianità impoetica.
L’equilibrio non lo devi trovare nella letteratura, ma nella (tua) vita. Accettare il tempo, le fatiche, le malattie, la morte, le gioie, le felicità che passano, gli altri che non hanno tempo per te, tu che non hai più tempo per gli altri e forse nemmeno per te stesso…
Il problema è altrove. La poesia (proprio quella di cui tutti abbiamo bisogno) è dove nessuno la cerca. Nemmeno se dirigessi Lo Specchio Mondadori, avresti risolto il (vero) dilemma: avresti solo (e so che comunque è qualcosa) qualche ragione in più per sostenere l’illusione, ma dovendo affrontare, su un piano più alto (più alto?! ) le stesse magagne.
Cerca un lavoro dignitoso, che si armonizzi con la tua vita. Ma non guardare a palazzi che non esistono, e che comunque sono pieni di fantasmi. Anzi, fossi in te cercherei di allontanarmi il più possibile da essi, per sottrarti al contagio.
Oggi c’è il sole, avevano annunciato pioggia. Mia moglie gira per casa a fare pulizie e di tanto in tanto mi chiede una mano. Domani è domenica e dovrò correggere tutti i compiti dei miei pargoli, e i libri di Zuccato, di Conte, di Viviani rimarranno a respirare sulla scrivania, all’ombra, ancora per un po’.
Oggi è un buon giorno, come sempre, per vivere.
* * * *
25 apr. 02
Caro Stelvio,
condivido completamente le tue parole. La poesia cambia se cambia la vita. Ma io credo anche nella reversibilità dell’affermazione. La tua vita cambia se cambi la tua poesia. Ho sempre sentito la scrittura come un’avventura antropologica; parlo di stile come ipotesi di civiltà. Cambiando la mia parola, cambio il mio rapporto col mondo. Credo insomma che non dobbiamo essere fatalisti, che il destino è semplicemente il nostro carattere.
Imparare a scrivere una splendida poesia d’amore vuol dire imparare ad amare, educarsi a sentire le cose in modo nuovo. Se così non fosse, non scriverei. Non ne varrebbe la pena. Non ci sarebbe nessun incremento vitale.
Certo, l’accettazione dello stato reale delle cose è il punto di partenza per non fare delle mie affermazioni uno sbuffo idealistico, valido quanto gli umori di un intestino.
* * * *
19 gennaio 2003
Caro Fabiano,
[…] Spero di meritarmi la considerazione usando la solita spietatezza. Ai poeti (soprattutto quelli che si stanno formando) non servono lettori mediocri né annotazioni anodine, formalmente insulse. Anche se essere diretti e duri solleva antipatia immediata. (Ma io mi affido alla tua intelligenza)
Do per scontato che sei un poeta, che brucia anche in te quel grano di autenticità che devi far brillare, lavorandolo. Darei per scontato questa cosa anche di fronte a qualcuno in cui non trovo niente – mentre in te si avverte davvero una tempra forte, una capacità d’immagine e tante altre cose positive di cui taccio.
Non mi piacciono le poesie centrate sulla pagina: sono un’infilzata troppo fragile di parole. Oggi come oggi (e il mio sarà un giudizio del tutto opinabile) bisogna ricostruire il tessuto del discorso, dominare la sintassi, cercare il percorso ampio. Quando invece proponi i tuoi versicoli, i punti deboli si accentuano. Basta la prima nota, la prima parola, per stonare. Gli attacchi “Figli” e “Genitori” sono già retorici. Prendi troppo di petto un tema arduo; per parlarne dovresti partire da più lontano, in modo meno impostato, più vero e intimo – arrivando al tema passo dopo passo, velo dopo velo.
In effetti, il rischio di un tono troppo alto, cercato, goffo nella sua posa innaturale, compare spesso anche nelle altre poesie. Pensa anche soltanto a certe inversioni: “d’un mai nato amore”, “d’una mai truccata cameriera” ecc. A ciò aggiungi formule spesso reboanti, da predicatore: “prostitute”, “grumi di miseria”, “beni di lusso fornicatrici”, ecc. Molte maiuscole sono esibizioni di muscoli primonovecenteschi ora un po’ risibili. (Attento: non sto dicendo che certe parole o soluzioni non si possano usare, ma che è difficile).
Trovo anche molte banalità, cose troppo ovvie (“instancabilità operaia di formica”) o in poeticume patetico (il “canarino di seta / che ha paura di volare timorato / da un cielo senza sbarre”: mi asciugo già le lacrime col fazzoletto…) o cadute prosastiche (“sensazioni talmente simili”).
Forse dovresti attraversare certe zone della nostra letteratura che magari adesso ti sono poco congeniali, per esempio la cosiddetta linea lombarda. Potresti apprendere come smorzare i toni senza perdere vigore, evitando semplicemente di sbavare per eccesso. (Attento anche qui, non sto dicendo di prendere i poeti lombardi come modello, ma di attraversarli, di nutrirtene per imparare il tono della tua voce e definire bene i tuoi temi. Non imborghesirti, mi raccomando: coltiva la tua selvatichezza).
Forse la poesia che più mi è piaciuta è Gli occhi delle madri sono ghiande di meriggio. Qui trovo un certo equilibrio: sei sempre sul punto di spararla troppo grossa, ma in generale il testo tiene, nonostante l’eccesso di strutture ad accumulo di definizioni (superfetazioni immaginose che spesso si aggrovigliano e si svuotano di vigore a vicenda).
Mi raccomando, non prendere questa lettera per una stroncatura, ma come un invito a lottare e, magari, a smentirmi con altri testi più maturi.
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