Imparare a bottega (4)
Questa è l’ultima serie di lettere, scelte come campione dall’esperienza di Atelier, per documentare il formarsi di una poetica attraverso l’esperienza diretta della lettura e del confronto con il testo.
24 aprile 2003
Gentile ***,
nessun fastidio, mi creda, per la sua olimpica risposta: sono abituato a sfoghi del genere. Piuttosto, mi irretisce far fatica a insegnare la grammatica per mestiere e aprire libri con troppi strafalcioni. Idiosincrasia mia, per carità…
Una domanda: che cos’è la letteratura? Per me NON è il libero sfogo di alcunché di Personale, ma la trasfigurazione del proprio vissuto (razionale, emotivo, fantastico, mistico ecc.) attraverso il superamento dell’egoità che passa per l’acquisizione di quel campo di forze interpersonale che è il sistema della nostra tradizione poetica (nella sua inscindibile unità di forme motivate e contenuti in perenne metamorfosi). Dunque, una forma di educazione anche, e di mestiere, che passa per la conoscenza dell’altro. Se ragiono e parlo sempre coi miei parametri, se mi misuro sui miei valori, se resto nel mio solipsismo, la scrittura rischia di essere solo sfogo. Se lei non vuole collocarsi in questo campo di forze che sta oltre la sua persona, perché pubblica, spedisce, chiede giudizi dai letterati di mestiere?
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24 maggio 2003
Caro Giovanni,
[…] Al di là del progetto (non so quanto dantesco, ma di sicuro ambizioso) sotteso all’opera, che si apre con un prologo e si articola in canti, il limite del frammentismo è determinante. Il linguaggio (quanti aggettivi però!) e la metrica abbastanza curata (a parte endecasillabi in quinta, cacofonie come “già ciucchi cocci” o sprezzature cercate nel quotidiano o in qualche inflessioni giovanilistica, che a me non piacciono) ribadiscono l’intelligenza di chi scrive, ma i passaggi ellittici da un frammento all’altro, con quel gusto per l’arguzia, la freddura, la posa intellettuale, mi danno l’idea, alla fine, di giochi pirotecnici sul vuoto. Domina la pagina bianca, ancora. L’allusione a qualcosa che, in fondo, non c’è (o se c’è, esiste a livello psicologico, dal momento che non è detto, non trova forma sulla pagina). Tale vuoto è in qualche modo occultato da serie di accumuli, da ricercati impasti fonici, da ricercatezze un po’ vacue («ipersofferente / pizza» ?!). Viene da dire: perché cerca la poesia? Potrebbe cavarsela con brillanti aforismi.
In poche parole, crudelmente: il talento si sente, l’opera no.
Ma potrei aver detto solo cazzate e non aver capito nulla. Quello che conterà, in definitiva, è la tua reazione.
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3 giugno 2003
Caro Santino,
non so proprio che dire riguardo ai tuoi testi. Ti ringrazio dell’omaggio, ma non ha senso, per me, andare avanti a leggere un paio di paginette di uno e poi dell’altro. Forse anche perché leggo molti autori contemporaneamente, per cui la mia soglia di percezione delle cose si è alzata. Insomma, sono ben scritti, non credo si possa annotare molto (a parte la differenza di tono e di tenuta delle due cose). Ma a che servono? A me non hanno dato alcun brivido. Non si distinguono dalla massa delle cose che circolano.
Insomma, serve più coraggio, più visione, più costruzione formale, più geniale semplicità, più potenza di contenuti. Serve tutto. Abbiamo bisogno di Terre Desolate, di Divine Commedie, di Canzonieri… Il resto francamente è un bla bla stancante. E mi ci metto dentro pure io, per carità: è un’osservazione generale. Nel particolare, appunto, non saprei che dirti. Meglio leggersi un articolo di giornale interessante, che ti passa un’informazione utile.
Meglio riaprirsi un libro di scuola e studiare, prendere appunti.
(Non è un consiglio per te, questo, ma per me, in vero).
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3 giugno 2003
Gentile Natascia,
non riesco nemmeno a finire la lettera. Forse un giorno capirà da sola, io non ho tempo da perdere. Mi ha chiesto un giudizio, ho serenamente e convintamente risposto. Se proprio ha voglia, un giorno le chiederò di stipulare una classifica delle migliaia di volumi che in più di un decennio ho ricevuto (sono ancora qui, sopra la mia testa…), inserendo il suo autore nella classifica a suo insindacabile giudizio. A occhio e croce io proporrei un 827° posto. Può fare una prima selezione cercando tutti quelli prefati da Squarotti: io ne ho centinaia. Nemmeno lui sa quante ne ha fatte (le giuro non è una battuta, ho un amico che… ma lasciamo perdere).
Può prendermi per incompetente, faccia come creda.
Le chiedo solo di non importunarmi più, perché se a ogni libro di nessun valore mi tocca mettermi a ripercorrere nuovamente oltre un decennio di lavoro, non me la cavo più.
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6 novembre 2003
Cara Luigia,
[…] In fondo, si tratta solo di un limite, congenito al tuo stesso lavoro stilistico, alludo alla strutturazione (metrico-ritmica) molto “ossificata”, essenziale, dei tuoi testi. Ciò li riconduce, per intenderci, entro un alveo di ricerca lirica per frammenti, anche se di alto lignaggio (Ungaretti-Celan, per dire). È vero, il tuo libro è tematicamente abbastanza cogente, per cui chi legge non si disperde in mere occasioni, in lampeggiamenti fini a sé stessi, ma cuciono un discorso (immaginifico, simbolico ecc.), eppure io vado ormai domandandomi da un po’ di tempo a questa parte se frammenti, pur ineccepibili, come “noi siamo figli / di assoluta / primigenia / salvati” reggano la pagina. Credo, in altre parole, che formare piccoli congegni di senso abbastanza emblematici sia più semplice che “tirare il fiato”, portare avanti il discorso, dispiegare tutte le potenzialità sintattiche, ritmiche e armoniche della nostra lingua. Non alludo alla necessità di endecasillabi o rime (potremmo anche arrivarci, ma non è questo l’obiettivo vero): mi auspico un “dire più pieno”, uno stile tanto evoluto da comprendere il tuo ma nel contempo di superarne i limiti.
Già, perché è ben difficile “tirare il fiato” a tale misura. Anche tu, mi sembra, non ci riesci pienamente nei testi più ragionati e narrativi (Lacrima Christi). D’altronde, se ci fossi riuscita, avresti trovato la pietra filosofale. Mantenere la densità lirica, eppure dire, raccontare, ragionare, fare magari persino dell’epica ecc., senza cadute: bisogna essere Dante, verrebbe da ribattere.
[…] Ancora due cosette. La prima è molto a pelle, anzi un po’ stupida: lascio prevalere il poeta al critico, forse, vale a dire il capriccio al raziocinio. Le tue inserzioni dialettali non mi convincono. Forse ci sono persino certi dialetti più difficili da maneggiare, perché troppo inclini a certi accenti parodici, popolari ecc., insomma a inflessioni equivocamente caricaturali, specialmente se si limitano a frasi un po’ stereotipate.
La seconda è più sensata, suppongo: la seconda parte della tua raccolta si rilassa un po’, prende una piega elegiaca, si fa più tersa e comunicativa e, paradossalmente, perde in potenza poetica. Probabilmente i congegni lirici come i tuoi funzionano meglio col trobar clus, con un dettato insomma più assoluto, teso, tragico, “deangelisiano”.
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17 apr. 04
Cara Milena,
[…] Il dato che emerge maggiormente è che non ci sono difetti macroscopici. Non trovo particolari cadute, il linguaggio non è troppo elaborato e può lievitare, qualificarsi ulteriormente, ma è attraversato già da un buon respiro.
Tuttavia, mi sono chiesto se i versi fossero dovuti. Hai scritto poesia o prosa? I confini sono spesso labili, certo, ma sono dell’idea che la verticalità, specie oggi (tempi in cui scrivono tutti, e in questo non c’è nulla di male, per carità), comporta una assunzione di impegno maggiore. È come se certe cose, scritte in verticale, risultassero qualche volta un po’ presuntuose.
Ora, se provi a leggere di seguito i tuoi versi, sei sicura di perdere qualcosa? A me sembra che addirittura tutto sia più adeguato e il respiro lungo che attraversa la tua lingua si distenda su un letto meno scomodo.
Detto questo, c’è anche il problema dell’immaginario. L’universo che crei, per quanta profondità testimoni, non è particolarmente efficace, emblematico. Insomma, servono figure, personaggi, scene, oggetti… un mondo che si impone, brillante o visceralmente coinvolgente. E possibilmente coerente e originale. Quel che dici sembra invece sempre centrato sull’esperienza lirica, su un io certo discreto, che non si lascia bave di effusioni eccessive, ma che non si è ancora installato davvero nella letteratura, in quella potente piattaforma che trasfigura e amplifica, magari anche inventando (essere onesti non vuol dire per forza essere sinceri…).
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23 aprile 2004
Gent.mo sig. Giovanni * * *,
le sono grato per l’invio della sua raccolta Nel corpo mutare. Mi pare un libro compatto e maturo dal punto di vista dell’immaginario, come del resto dimostrano in modo lampante le figurazioni coerenti attraverso le quali il discorso poetico si sviluppa. Con un buon senso anche musicale (come il verso isolato che si ripete, modularmene, e scocca come un gong).
Forse, però, alla lunga tutto questo può diventare anche un poco lezioso. Tutto è a posto, ben coltivato, in un giardino che ferma l’inquietudine nell’incanto.
Si può ulteriormente affinare, invece, lo stile, vale a dire il singolo verso, le scelte lessicali, le strategie per addensare significati. Dovrebbe trovare, suppongo, superfici di attrito anche a questo livello, e non solo griglie strutturali complessive (a livello di testo o, sul piano dell’immaginario, dell’intero volume). Ma questa è la mia opinione, assolutamente opinabile in quanto tale.
Cordiali saluti e auguri anche per la sua opera, così circonfusa da illustri illustratori (prefazione, postfazione, bandella… non è un apparato eccessivo, alla fine un po’ goffo? Perdoni il rigore, in questo)
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7 luglio 2004
Caro Marco,
a parte qualche imprecisione grammaticale (specie per gli accenti), i testi che mi mandi non sono ancora proponibili. Sono “effusioni sentimentali”, non poesie. Cose discrete, magari anche buone. Ma per un diario personale. Chi ci tiene, giunge lo stesso alla pubblicazione a proprie spese, per avere un volumetto: ma non è ancora affatto letteratura, solo vanità.
So che è dura digerire certi giudizi, ma è tempo di abbandonare la lirica. Devi per forza scrivere la tua vita? In che cosa può essere eccezionale rispetto a quella di miliardi di altri individui? Nella lingua, nello stile, nell’originalità delle immagini. Tutte cose che, al momento, mancano.
Forse dovresti importi di non scrivere poesie d’amore. Di fare esercizi. Scrivendo a tema, imitando, provando strutture poetiche anche chiuse (il sonetto, magari). Devi scoprire che la poesia non è l’idea del poetico che hai in testa: è una luce abbagliante e dura che necessita dell’intelligenza, dello studio, di idee sulla poesia e sul mondo non spontanee e, per quanto sincere e vibranti, banali, ma ricche di attraversamenti culturali oltreché, è ovvio, di esperienze di vita intense (e l’intensità non è nel fatto, magari ovvio, che ti capita, ma nel tuo occhio che vi legge qualcosa di unico, e sa restituire, linguisticamente, quell’esperienza di unicità).
Serve stile.
A cominciare, ovviamente, dalla capacità di accettare giudizi duri, ma leali.
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2 dicembre 2004
Caro Aldo,
[…] Mi sembra che nella maggior parte dei casi si faccia sentire e pesi troppo il limite della serialità delle tue costruzioni. Questo vale tanto a livello orizzontale, ovvero per la matrice strutturale e “contenutistica” che genera una sequenza (o sezione o raccolta), quanto a livello verticale, nei testi in cui la costruzione per accumulo, l’abuso del “come”, il coinnestarsi delle immagini devitalizza i versi più efficaci, le aperture più memorabili.
Mi sembra anche che queste raccolte si situino in un momento del tuo lavoro in cui sterzi decisamente verso una maggiore chiarezza comunicativa (e il titolo della prima raccolta è forse sintomatico): a me questo piace, ma in alcuni casi sembri cadere nella poesia scontata, nell’immagine o nel sintagma troppo poetico (“soffocandoci di tenerezza”, “rabbrividiscono i tetti”, “come cani randagi”, “tempo di dolcezza”). Questo accade soprattutto in una tua tipica struttura grammaticale, quando rendi astratto (“poetizzi”) un termine concreto attraverso una specificazione.
Improvviso un campionario: “brocca del respiro”, “bauli di nebbia”, “cartoccio di nuvole”, “nido dell’alba”, “mano del vento”, “fianco dell’estate”, “denti di pioggia”, “consistenza del mondo” (questi ultimi 4 in 4 versi di seguito!), “incendio del battesimo”, “grembo del pomeriggio”, “ali del tuono”, “ostrica di grazia”, “barche di luci”.
Spesso, poi, abusi degli aggettivi (labbra arse, luoghi abbandonati, mia fuga, unica stanza, porte infinite spalancate: tutto in tre versi), e in questo contesto anche le rime, pur discrete, ma spesso facili o squillanti (le tronche così tipiche in Le cose chiare, anche se abbastanza distanziate), assumono una valenza troppo eufonica, compiaciuta. Insomma, mi pare che questi difetti solidarizzino troppo fra di loro e creino una trama davvero fastidiosa, che distorce quel che di ottimo invece riesci a esprimere.
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26 gennaio 2005
Gentile * * *,
[…] Si eccede nel tentativo di rendere spettacolare: si inocula stupore imitando lo stupore, con un linguaggio un po’ gonfio e compiaciuto degli aggettivi (spesso reboanti: mirifico, fremebonda, celestiali). L’effetto poetico sarebbe quello opposto: di suggerire lo stupore dissimulandolo, con una maggiore secchezza espressiva, insomma. Anche le movenze del testo, certi a capo ecc., sembrano simulare la vertigine, senza renderla pienamente (c’è differenza, insomma, tra comunicare ed esprimere: posso dire “dolore dolore” con tono sofferente e comunicare noia, o dire invece qualcosa di apparentemente rassicurante – “bello” – ed esprimere dolore). Certi sintagmi («invincibile alchimia») risultano dunque stonati, sopra le righe, e provocano l’effetto contrario rispetto a quello desiderato. «Brivido di luce» è poetichese popolare. I «superni furori» sono parodia inconsapevole. Non si vuole con questo richiamare a un abbassamento del tenore linguistico: si tratta di trovare il giusto tono. Possono andare bene certe arditezze (“foltoerbato”: alla Luzi), ma se il tessuto complessivo le sostengono. In ogni caso, prima di inserire un aggettivo, è bene ponderare l’ipotesi di trovare un sostantivo in sé completo, per non eccedere nel colore, col rischio di ridurre il poetico a un effetto di suggestione, e non a sostanza più salda.
Detto questo, il tentativo di raggiungere un’orchestrazione grandiosa di visioni che implicano anche grandi temi, piace. La strada intrapresa è giusta, bisogna solo bruciare la gioventù, le sue fiammate, i suoi slanci con tutti i piccoli e fruttuosi vizi che comportano.
Certo, il modello luziano va attraversato e non ripetuto. Penso proprio agli scalini dei versi, alla posa testuale: quanto necessitata e frutto di un faticoso viaggio quella del maestro, e quanto rischiosamente ammiccante e annacquata in qualsiasi altro poeta che imita quella soluzione senza avere alle spalle un suo percorso… E così vale per certi attacchi invocativi, per i toni sublimi, per il corsivo degli infrapensieri o delle altre voci, per la stesura sintattica…
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13 maggio 2005
Gentile Maria Rita * * *,
I testi proposti raggiungono risultati alterni: il lavoro poetico risulta disomogeneo, a tratti volubile o un po’ occasionale, nonostante la spina dorsale di alcuni temi di fondo (il viaggio, il nome, ecc.), tuttavia troppo generici per divenire qualificanti.
Esemplificheremo il discorso attraverso un riferimento puntuale ai primi testi.
La prima poesia, Scrivere nel sonno, risulta gradevole, ma pregna di un’idea della poesia alquanto scontata, fatta di un lessico smaccatamente “poetico”, senza mediazione, spessore, ricerca filosofica e linguistica, filtri personali, insomma: il nome, la voce, gli amanti, l’infinito, lo schianto ecc. restano campioni di un immaginario scontato, dal fascino lampante ma evanescente. Certo la poesia è pulita, in pratica non ha pecche, anche dal punto di vista metrico è tornita al punto giusto, tra endecasillabi settenari e quinari, ma resta un cammeo che non sembra aver troppe pretese. Un nuovo poeta rimette in discussione tutta la tradizione, invece, anche quando scrive con meravigliosa semplicità – semplicità sapida, però, per tutti gli attraversamenti culturali che ha compiuto, intrisa insomma di una ricca visione del mondo, diciamo pure genericamente un impianto “filosofico”.
La successiva Un viaggio che non è spiazzante, per la sua movenza più nervosa. È un’impressione anche favorevole, un’infrazione gradevole, perché sembra imboccare la direzione di una ricerca di maggior gradazione stilistica, di una necessaria fase di sperimentazione. Anche se nella brevità della poesia, che non ha radici in un contesto narrativo-simbolico particolare (dato dal macrotesto di più componimenti), tutto sembra sempre troppo estemporaneo, cosicché le scelte più forti (“dell’albero i nodi”) si sentono gratuite.
I testi successivi tornano in parte sul primo registro, non lasciano tracce particolari, fino all’immagine forte delle Trincee, che svapora per un’impossibile referenza testimoniale concreta: siamo di fronte a versi aggravati da numerose pecche, dal più fastidioso poetichese (“assetato al gelo delle luci”, “abbiamo abbracciato sogni”), echi letterari troppo forti (il pascoliano “stracci di terra sul fronte”), espressioni fruste e prosastiche (“ritagli di tempo”), slanci effusivi che sono smancerie romantiche (“amore violento delle stelle”). In seguito si troveranno altri esempi di questi accenti insostenibili, per troppa accondiscendenza verso toni nostalgici (“i quaderni di scuola i calzoni ai ginocchi”) o per riferimenti a una tradizione poetica troppo scolastica (Montale, Ungaretti), che sembra ingenua e inconsapevole rispetto alla tradizione viva, attuale, realmente contemporanea. Si pensi anche alla volontà di poetizzare le idee, agganciando il concreto con l’astratto in formule banali: “sonno del giorno”, “labirinto di vita”, “lago del dolore”. Il poeta pensa direttamente per immagini, tramite correlativi oggettivi: il lago, il sonno, il labirinto (ma siamo sempre su esempi non originali), che il lettore legge come vita, dolore ecc., senza che l’autore lo imbocchi.
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9 gennaio ‘09
Gentile Walter * * *,
[…] trovo difficoltà a esprimere un’opinione, ma questo non dipende dai suoi versi, che anzi mi hanno sollecitato molto, andando a pizzicare persino una genealogia poetica che mi pare di condividere intimamente; la difficoltà dipende da me, dal mio rigetto del pensiero critico dopo anni di fanatica e coatta applicazione.
Mi ha colpito (se le bastano queste impressioni senza pretese, da poeta disarmato e non da studioso) la simbiosi fra strutture composte e semplici, dettato nitido e improvvise accensioni lessicali, che spiccano come il croco di montaliana memoria in un testo ingannevole, apparentemente dimesso: certe sue squisitezze mi sono parse spie precise, gemme, segnali di una fenditura nel componimento, da cui evincere il sottofondo, la precisione di uno sguardo che rispetta il reale eppure va oltre le apparenze. E dire che dietro a quelle gemme c’è l’esempio di Pascoli, ma forse ancor più dello stesso Ceni, a ribadire la paradossale verità per cui è nel pieno rispetto delle cose che troviamo il punto di fuga, è nella capacità di nominarle con esattezza che le facciamo brillare: tutto l’opposto di un processo di simbolizzazione che depotenzia la realtà per fuggire altrove. L’altrove è qui, insomma.
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2 Maggio 2010
Cara Laura,
[…] la poesia si costruisce sui versi. Mi sembra anche qui che il tuo passo sia istintivo, non consapevole. Ma il verso libero non esiste, anche quando, magari, non si scrive in metrica regolare e in sistemi chiusi. È vero che le misure attorno alle quali maggiormente giri sono il quinario, il settenario e l’endecasillabo, quasi a riprendere la lezione del primo Ungaretti; però quella lezione in te risulta edulcorata, perché manca il lavoro lessicale ed espressivo del poeta “ermetico”, il quale peraltro si era reso ben conto di dover lavorare in una direzione diversa, tant’è vero che in seguito ha cercato di ricostruire il “canto italiano”, di ritrovare l’endecasillabo e la posa persino classica (sebbene con effetti, a mio modo di vedere, troppo ingessati, segno che questa posa non gli era forse congeniale).
Un ultimo fondamentale segno di quella che mi pare una vocazione poetica non ancora coltivata attraverso le dovute letture (quali poeti contemporanei leggi e conosci?) è il tuo ridurti a un impulso lirico che tenta di condensarsi in un’unica situazione, spesso espressa in verbi all’infinito, o comunque in modi che tendono a stagliarsi in un tempo assoluto. E invece, a mio modo di vedere, serve il confronto con la storia, per scavare nel suo grembo qualcosa di emblematico, che resiste e chiede di durare. Vedrei dunque ben volentieri comparire dei personaggi rispetto agli “io” e ai “tu” che spesso poni subito all’inizio di tutto, come fissazioni basiche, note liriche cui volersi intonare. Ma la poesia moderna spesso trova il canto attraversando la prosa, abbracciando anche tonalità più basse, risollevandosi magari all’improvviso… E senza nemmeno giocare su questo schema altrimenti banale (come fa un poeta contemporaneo, dal mio punto di vista, come Rondoni, che scrive poesie come scattasse delle polaroid).
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3 maggio 2010
Cara Chiara,
non è la prima volta che mi capita di leggere “rifacimenti” danteschi, e intendo dire da parte di poeti “non (ancora) noti al grande pubblico” (che merdate, questi giri di parole), e certo nel tuo caso a leggere mi sono divertito molto di più, perché hai avuto il buon senso di non mettere Hitler all’inferno, ovvero di non compiere una parodia che non sa di essere una parodia. Tu invece sai di giocare, e dunque ti puoi permettere di essere veramente più seria e feroce degli altri. È un paradosso, in fondo, niente affatto sorprendente. Dal punto di vista linguistico, poi, il lavoro è a tratti felice, anche se ritmicamente mi sembra ancora di rilevare qua e là qualche zoppìa.
Detto questo, a me il tuo sembra un capolavoro di goliardia universitaria – e in questo mi appello al valore per nulla riduttivo che questa tradizione merita di avere. Tradizione, che, comunque, io, per me, ho frequentato ai tempi, appunto, dell’università, per poi abbandonarla quando il sublime cazzeggio, ahimé, volgeva al termine. So di altri pregevoli rifacimenti di illustri poemi, in tal senso, ariosteschi per esempio. Ma mettimi pure nel tuo inferno, per me la parodia sta su un altro livello, e merita tempi di attenzione diversificati. Delle parentesi semiserie – per chi, ovviamente, può permettersele.
Pace all’anima mia, melodicamente indegna del tuo paradiso metallaro…
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3 maggio ‘10
Caro Salvatore,
le tue poesie mi hanno impressionato e mi hanno fatto incazzare. Sono poche, ma mi sembra (e perdonerai l’azzardo, magari non ho capito nulla di quanto mi hai mandato) di averne colto bene la tensione, l’indole. Può darsi anche che proietti molto di me su quanto andrò a dirti, ma qualora cogliessi qualcosa di giusto, le mie provocazioni varrebbero ancor più per quello che vorrei fossero: non giudizi esterni, a freddo, di un critico, ma gomitate nei polmoni da uno che forse sta correndo insieme a te su traiettorie simili – per quanto l’apparenza inganni, magari.
La prima cosa che mi piace è la serietà della tua pronuncia. Per te la scrittura in versi è la compitazione di un testo sacro. Bene. E, tuttavia, attenzione a non prenderti troppo sul serio: devi forse bucare ancora la bolla della giovinezza per sfuggire a certe storture, a certi soffocamenti che si indovinano sulle sillabe: come se nel tuo dolore suonasse lontana ancora una eco adolescenziale compiaciuta e mancasse il definitivo cinismo della maturità, che riscatta il dolore stesso in canto adamantino, senza nostalgia vaga. Liberati da ogni destino, sappiti palpito del nulla, fino a provare una liberazione da questo stesso pensiero, tale che pacifichi il tuo dire.
Data la prima considerazione, la postura che cerchi sulla pagina è dunque già preziosa. Sai far scoccare il verso assoluto dopo le movenze preparatorie. Sai dialogare con il silenzio. Benissimo. E, tuttavia, non dovremmo ormai superare lo stampino della misura breve ed ermetica? Non dovremmo lavorare ormai maggiormente sulla sintassi, per tirare il fiato e romperlo definitivamente, per evitare infine di “rifare il verso”? A me pare si debba anche riattraversare la struttura chiusa e la misura metrica più riconoscibile, per sfondarla magari in un’altra direzione (ovvero, il verso, se ha da essere libero, deve essere continuamente rifondato nella propria genetica necessità, che sboccia sul terreno coltivato della disciplina: l’arte è questo).
Il tuo immaginario simbolico e il tuo tono hanno eletto un punto di riferimento preciso della poesia contemporanea: Milo De Angelis. Si tratta, tra l’altro, di uno dei pochi che ha saputo svolgere un magistero direttamente con la forza dei propri versi. Bene. Anch’io avevo trovato in lui un modello. Ma i “padri”, appunto, vanno oltrepassati, e sicuramente in tanti tuoi versi tu rimani nel grembo paterno, non nasci. Sei ancora un epigone. Per me, per esempio, è stato utile risalire De Angelis, e dal suo Somiglianze recuperare Luzi e Sereni come divaricatori che riaprissero a una tradizione più ampia, meno definitivamente e drammaticamente cristallizzata in quello che mi è parso divenire un punto cieco per lo stesso Milo (tanto che, ai miei occhi, i difformi esiti degli ultimi suoi libri rappresentano il suo tentativo di affrancarsi da quel mortale avvitamento).
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