Conversazione con Mario Luzi
(L’opera scelta come copertina è di Nino Lupica.
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Questa conversazione si è tenuta a Firenze il 4 maggio 1998, nell’appartamento del poeta in via Bellariva.
La sua poesia si dispiega nel nostro secolo nell’arco di oltre sessant’anni e attraversa varie stagioni creative. Eppure, si ha chiaramente la sensazione della profonda unità che pervade tutta la sua produzione, come un corpo che muta ma che mantiene intatta la propria anima – se mi è concessa questa similitudine un po’ banale. Come definirebbe, lei, la sua poesia con un’immagine sintetica, qual è il nocciolo duro di tutta la sua attività?
Ma, guardi, io quando rileggo La barca trovo che lì c’è già, in nuce, vivo, il nucleo di tutto quel lavoro che ho fatto, che ha avuto anche varie attitudini, manifestazioni, anche in relazione – si capisce – alle circostanze, alla storia (alla cronaca meno). Ma in sostanza i temi ci sono già tutti, se lei guarda sono verdi, mi piacciono molto. Forse è il libro che mi piace di più, tutto sommato. Lo dico un po’ paradossalmente, ma ritrovo senza nessuno scarto letale, e tanto meno spirituale, quei temi. E anche, devo dire, non solo quella specie di attenzione, ma quella partecipazione alla cosa, alla circostanza, o all’idea, non nel senso commemorativo, non da “scrittura” a “cosa”, ma “cosa-scrittura”. Ritrovo, come dato particolare, anche questo. Questo lo posso annotare come connotato che è rimasto sempre, anche quando sono intervenuti cambiamenti di clima, ma anche di ethos forse, nei riguardi della società, non della mia conoscenza. Ecco, questo tipo di poetare è rimasto costante. Non ho mai preso le distanze, le cure tecniche direi anche, che distinguono il fatto, la parola, dalla cosa, dalla sua descrizione, dalla sua narrazione. C’è sempre questo intervento diretto nelle cose di cui parlo, nelle parole che uso. Una specie di attualismo, come si potrebbe dire… un essere sempre in atto. Qualche volta ho parlato anche di ricordo, però come se fosse oggi, cogliendo la parola nel suo accadere…
Poesia come evento…
Ecco, all’ultimo è venuto un po’ a galla, nella mia riflessione, questa differenza.
Mi è molto piaciuto questo riferimento, nonostante i molti libri accumulati, al suo primo testo. Io mi sto occupando in particolar modo degli ultimi volumi e avevo notato come questo nesso con la Barca fosse importante, anche proprio in virtù della lettura delle opere più recenti. In Viaggio terrestre e celeste si parla anche espressamente di “ritorno”, che si compie andando oltre Firenze, tornando all’adolescenza, a Siena. Dunque, questo ritorno è un tornare a qualcosa che precede l’ermetismo?
Ma… sì… Io però ermetismo non ho ancora capito che cosa significa. Certo, prima di quegli anni ce ne sono altri. Forse, quel periodo successivo, con il bisogno di concentrazione, l’aspirazione alla sintesi, ha anche un po’ sacrificato, non dico strozzato, quel nucleo che poi si è liberato dopo, insomma, dopo la guerra, dopo quelle particolari condizioni storiche. Una volta ritornati al naturale, non più compressi.
A conti fatti, nel suo percorso, come giudica il simbolismo: una stagione letteraria che si è chiusa o un evento che ha innescato un processo irreversibile nella poesia?
Questo, ecco, mi sembra un po’ questo. Si è sentito che nel costituire un linguaggio, nell’organizzare uno stile d’epoca, non personale, ma comune a critici, poeti, giovani, vecchi eccetera, s’è sentito il bisogno di ritrovare il simbolismo, cioè: quell’accenno di simbolismo dove era stato lasciato dai corrispondenti italiani del simbolismo francese. Si è verificata una funzione più cronistica che, però, per esempio d’Annunzio s’era fatta sfuggire, e anche Pascoli, forse più indirettamente. Si avvertiva la necessità di un’attenzione alle peculiarità musicali ecc. Invece in quegli anni s’è sentito il bisogno di riprendere il discorso sulla poesia, sui ritmi, la poesia come incanto, che pensa a se stessa, mettendo da parte il fascino esteriore e le suggestioni. Così, senza neanche proporcelo, Bo, Macrì, io, Gatto, Bigongiari ci siamo trovati a compiere quest’opera. Il simbolismo, quindi, non era il ritorno di uno storico su quelle particolari vicende letterarie, ma la ripresa del nucleo vitale del pensiero simbolista e delle sue dichiarazioni, che andavano riprese perché il linguaggio della nostra poesia era diventato troppo retorico… Ci trovavamo nel mezzo di una stagione dispersiva, che aveva un po’ diseducato alla lettura “di testa”, mentre dava adito a un gusto per l’eloquenza o la recitazione. Il simbolismo è un po’ un momento indispensabile nell’attività intellettuale ed espressiva che consiste nel ripensare a se stessa, ai propri strumenti, alle proprie ragioni, momento che da noi era stato saltato – io lo sentivo assente. Una volta dissi in un convegno, e fece anche un po’ effetto (e probabilmente era anche un’osservazione un po’ ingiusta), non ricordo quando di preciso, ma c’era Diego Valeri (ovviamente non mi riferivo a lui), dissi: “la nostra poesia è una bella donna ma senza testa”. Una donna, cioè, che non sa dove orientare le proprie grazie o le proprie energie.
Questa ripresa del simbolismo era considerata tanto impellente proprio perché in un momento in cui non c’era altro, non esisteva un rapporto con la società e con il discorso comune, non esisteva oppure era falsato. Ma poi, dopo la guerra, lingua e linguaggio hanno ripreso il loro corso, come al tempo della Barca. Quel periodo dell’ermetismo è stato un po’ autoprotetto, mentre poi quel sentire essenziale è diventato più libero, più sciolto.
Tutto questo mi fa venire in mente una poesia del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Mi riferisco a Si approssima Firenze…, che dice: «In molti lo conoscono, / alcuni tra i Maetri / pregiano la sua arte, / ma lui teme la loro, / evita il paragone, / non desidera il confronto. / Lo soppiantano – si dice – / Avverte il mutamento. Subentrano / più rudi, più solidi e corposi / e prossimi ai mercanti, / è vero, i nuovi artisti. / Irridono la sua sublimità / e quella dei maggiori…». Come non sentire in queste parole una eco del confronto fra ermetismo e le esperienze che nascevano da una critica radicale di quel “movimento”? Ma perché, mi chiedo, si evita il paragone?
La poesia si riferisce a un artista che in fondo sa che la sua arte è pregiata anche in Firenze, dove si cerca di elaborare un altro linguaggio, più realistico. E lui in questo ritorno, occupato da pensieri a sua volta di superamento di se stesso, non vorrebbe mettersi a discutere con gli altri artisti. Ma evita il confronto con questi che intendono forse anche essere dei superatori perché lui stesso è teso a superarsi, è teso a superare la sua vicenda.
È ricorso a delle fonti particolari per Simone Martini oppure si è affidato unicamente ai propri ricordi?
Ho usato le notizie che, vivendo a Siena, avendo qui degli amici, anche storici d’arte, avevo assimilate. Mi sono andato un po’ a rivedere qualcosa sulla famiglia, sulle origini, sul fratello… Poi il resto me lo sono arbitrariamente immaginato. Questo viaggio me lo sono spostato, non a caso, prima della morte, ma è già un viaggio in cui si riassume il senso della storia. Non è che si voglia ritornare semplicemente ai luoghi della giovinezza, ma semmai ritrovare le fonti stesse di questa storia o vocazione o impulso. Per ritrovare l’energia per un’altra visione, un po’ trascendente: la luce che vince sul colore, perché è la luce che origina il colore ma che allo stesso tempo lo annulla. Se vogliamo, è un po’ come ritrovare il senso del cammino del secolo.
Le avevo fatto questa domanda anche perché c’è chi ha osservato delle “imprecisioni”. Mazzanti, per esempio, al convegno dello scorso autunno, osservava che Dormitio virginis non è il titolo di un’opera di Simone.
La dormitio virginis è un tema pittorico forse più vecchio, e anche Simone pensava di farla… Anche la crocifissione non esiste, ma sono opere che lui si ripromette di fare. Ho tenuto conto anche dei sogni…
E del lavoro dei contemporanei…
Sì, ma anche dei sogni personali. E magari ci sono a volte delle anticipazioni. Cioè quadri che non sono stati fatti che ma che sono stati perfettamente visti, in immagine, da lui, che era occupato da altre cose.
Mi spieghi qualcosa in merito ai rapporti che si instaurano fra i vari personaggi.
La costante, l’historicus è lo studente. Lui è molto devoto a Simone, ed è anche devoto alla moglie, a Giovanna. Quindi si inserisce egli stesso nella sensibilità di questi che sono i protagonisti veri (è protagonista però anche lui). Non so, ecco lei notava…
Mi incuriosivano per esempio i rapporti che intercorrono fra la moglie e la cognata; Simone come guarda l’una e come guarda l’altra?
Mah, Simone, in fondo, quasi quasi le ama tutte e due. è un artista e vede sì la donna, ma anche la forma della donna e la grazia che c’è nella figura femminile, e quindi non distingue molto. Però sta sempre molto attento a loro, a quello che sente. D’altra parte anche lo studente è ammirato per lo meno da Giovanna, la moglie, e da tutto quello che fa, magari durante gli ozi, le distrazioni del pittore.
E Donato?
Donato era un aiuto, in sostanza. Era un pittore noto anche lui, ma era, si capisce, un po’ subordinato al fratello, il capo della bottega.
C’è un implicito antagonismo fra i due?
No, non direi.
E per quanto riguarda la sezione relativa alla malattia?
Si tratta di incidenti quasi previsti per un viaggio, di quei tempi.
Non c’è, dunque, un significato simbolico-allegorico da rintracciare.
Ci può anche essere, è chiaro, perché la malattia è un’esperienza dell’uomo. E lui la vive, prima nella cognata (nella sua fragilità nervosa, direi nella sua depressione) e poi in se stesso.
Comunque io, e questa può essere in fondo la spiegazione più semplice e più onesta di questo testo, scrivevo senza avere inizialmente un piano. Dopo Frasi e incisi di un canto salutare mi sembrava che il mio percorso si fosse concluso. Però, una volta scoperto questo motivo del ritorno, del nostos, allora cominciai, dall’interno delle mie pagine, da quelle che avevo fatte e che mi si preparavano, a elaborare qualcosa. Nello stesso tempo l’infanzia senese mi si ripresentava con il fascino dei miei amori di allora, uno dei quali era proprio Simone. Non è nemmeno questo un libro scritto a posteriori.
Certo, ma infatti questo lo si intuisce sia dal testo sia dalle riflessioni comprese nel volumetto Siena e dintorni. Ora, invece, sta scrivendo altro?
Sì, ho quasi scritto un libro che devo ancora chiarire in qualche particolare.
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